venerdì 11 marzo 2016

Franzen, specchio perfettamente aderente al nostro tempo cinico e volgare

Purity
Jonathan Franzen: Purity, Einaudi

Risvolto
La giovane Purity Tyler, detta Pip, non conosce la sua vera identità. Sua madre, per un motivo misterioso, non vuole rivelarle chi è suo padre, l'uomo dal quale è fuggita prima che Pip nascesse, cambiando nome e ritirandosi a vivere nell'anonimato tra i boschi della California settentrionale. Pip è povera: ha un pesante debito studentesco da ripagare e vive in una casa occupata a Oakland, frequentata da un gruppo di anarchici. Ed è proprio lì che incontra Annagret, un'attivista tedesca che le apre le porte di uno stage con il Sunlight Project, l'organizzazione fondata dal famoso e carismatico Andreas Wolf, un leaker rivale di Julian Assange, allo scopo di rivelare i segreti dei potenti. Pip parte per la Bolivia, dove ha sede il Sunlight Project, con la speranza di poter usare la tecnologia degli hacker per svelare il segreto dell'identità di suo padre. Ma l'incontro con Andreas Wolf si rivela sconvolgente per molti motivi. Anche Andreas ha un terribile segreto nascosto nel suo passato, negli anni in cui viveva a Berlino Est come figlio ribelle di una madre squilibrata e di un padre pezzo grosso del Partito Comunista. Lo rivela proprio a Pip, con la quale instaura una relazione intensa e morbosa. Forse i suoi moventi segreti sono legati a Tom Aberant, il giornalista di Denver per il quale Pip andrà a lavorare dopo lo stage con il Sunlight Project, destabilizzando la relazione di Tom con la sua compagna Leila e portando un grande sconvolgimento anche nelle loro vite...


Il problema di Franzen? Non è franzeniano
Il nuovo libro è stato definito "dickensiano". Ma la tradizione si può sovvertire...
Massimiliano Parente Giornale - Mar, 15/03/2016 

www.unionesovietica.com La dittatura corre sul web 
Il nuovo romanzo dell’autore americano e gli scritti di Evgeny Morozov smontano l’utopia di Internet: distrugge la libertà come il socialismo
11 mar 2016  Libero
Secondo Morozov, la Silicon Valley è il quartier generale del «cyber-utopismo», e propone un modello di umanità «alternativa, tollerante, baciata dal sole, con un sacco di cibo biologico e di buon vino, e con orde di attivisti politici che combattono per causa che ancora neanche esistono». È questa umanità ad attirare, nel libro di Franzen, la giovane Purity. Finita l’università, vive in una casa occupata da un gruppo di attivisti da operetta, patetici reduci del movimento Occupy. Schiacciata dai debiti, oppressa dalla madre e in cerca di un’avvenire entusiasmante, Purity si aggrega alle truppe di Andreas Wolf.
Costui è il fondatore di Sunlight Project, cioè un’organizzazione che diffonde illegalmente sul Web formazioni riservate. Insomma, è una caricatura (dichiarata) di Julian Assange. Wolf, però, è ancora più «puro» e la Purezza è l’ideale che - almeno in apparenza - lo muove: «Il motto di Wolf, e il grido di battaglia del suo progetto, era La luce del sole ». Eccola, l’utopia del web, la Santa Trasparenza. Come spiega Morozov, nella visione della Silicon Valley, «la politica, finalmente sottoposta al costante scrutinio dell’elettorato, sarà libera dalla sordida corruzione, dagli accordi sottobanco, dall’inefficiente mercato delle vacche. I partiti si disgregheranno, sostituiti da iniziative politiche stile Groupon».
Tutto questo, però, ha un lato oscuro, e dei peggiori. Nel romanzo di Franzen, il guru Andreas Wolf è nato e cresciuto nella Ddr, cioè in una società totalitaria, tra le più oppressive che l’uomo abbia mai edificato. Wolf la sta ricostruendo di nuovo con i mezzi della tecnologia. Il messaggio, dunque, è: la Trasparenza e la Purezza spacciate dai santoni di Internet ci conducono verso un controllo poliziesco, un panopticon rivestito di libertà. È il «socialismo digitale» di cui parla Morozov. Ogni aspetto dell’esistenza è monitorato da apposite applicazioni. E i dati raccolti dalle app sono in vendita al miglior offerente. Per cui l’app che misura i miei risultati in palestra potrebbe un domani fornire alla mia assicurazione un report negativo sul mio stato di salute, facendo aumentare il mio premio, o peggio. La Google Car presa in sharing potrebbe rifiutarsi di accompagnarmi dove voglio, poiché il suo sensore che valuta le mie espressioni facciali ha stabilito che sono troppo arrabbiato. Poi: che bisogno c’è di un pronto soccorso pubblico se si può rendere più efficiente la sanità grazie ai consulti medici online? E che bisogno c’è di scuole pubbliche, se si può seguire una lezione in streaming? E se la politica è sostituita dalle adunate online, non basta un pugno di tecnocrati per governarci? Se tutto è misurabile, significa che è anche tracciabile e controllabile. Vendibile (vi serve un utero in affitto? Digitate www...). E, quel che è peggio, migliorabile. «Miglioramento», non a caso, è la parola di cui si riempie la bocca il fondatore di Facebook, Zuckerberg. Solo che questo miglioramento ha un puzzo un pochino troppo sovietico. E la purezza rimanda in modo sinistro all’epurazione.
Come si evita questa deriva dittatoriale? La ricetta di Franzen è contenuta nei costanti riferimenti a Shakespeare e a Dickens presenti nel libro. L’antidoto, insomma, è il pensiero critico: quello che ci sanno donare solo la letteratura e la filosofia. Le scienze umane ci proteggono dalla tecnologia che vuol migliorare l’uomo disumanizzandolo. Forse non ci renderanno puri, va bene. Ma di sicuro ci insegnano a essere liberi.

Franzen, la purezza è impossibile
Gore Vidal, facendo un bilancio della sua lunga vita di lettore — e di critico —, era solito dire che l’America aveva sì avuto, nel Novecento, molti bravi scrittori che avevano scritto molti bei libri. Ma che bastava paragonarli, per esempio, a Thomas Mann, per vedere come la loro statura venisse subito ridimensionata (giudizio non disinteressato, peraltro: Vidal, da ragazzo, poco dopo la guerra, aveva conosciuto Mann, e ne ricordava le parole di simpatia per il suo romanzo La statua di sale, il cui tema, l’omosessualità, aveva allora fatto scandalo).
Quello di Vidal, ovviamente, è un test pericoloso: paragonare un autore a Mann, a Faulkner, a Joyce ci fa guardare con occhi diversi tanti scrittori del Novecento, non soltanto americani (una curiosità: tra i suoi contemporanei, Vidal pensava che il più grande di tutti fosse stato un italiano, l’amico Italo Calvino).
Viene da pensare al «test di Vidal» sfogliando Purity (edito negli Usa da Farrar, Straus & Giroux), il nuovo romanzo di Jonathan Franzen che uscirà negli Stati Uniti il 1° settembre e che «la Lettura» ha letto in anteprima. C’è una caratteristica di Franzen che attraverso la sua narrativa — questo è il suo quinto romanzo — diventa via via sempre più evidente: la sua ambizione. Il terzo romanzo, nel 2001, Le correzioni (Einaudi) è stato quello del grande balzo in avanti — non soltanto in termini di fama, ma in termini di profondità dell’analisi e di bravura nell’esecuzione. Con Libertà, cinque anni fa (sempre Einaudi), un altro balzo in avanti — in quel libro Franzen parte da una storia familiare per raccontarci l’America del suo tempo. Purity, fin dalle prime pagine — non sono quelle anticipate dal «New Yorker» qualche settimana fa: la rivista ha pubblicato un estratto del secondo maxi-capitolo, non l’incipit —, fa capire al lettore che gli strumenti dell’autore vanno sempre più in profondità, raccontando il rapporto terribile della protagonista, Purity — una neolaureata che vive con un gruppo di squatter e lavora in un call center —, con la sua terribile madre (i genitori in questo libro umano ma spietato sono assenti, inutili, fuggitivi, litigiosi, agorafobici, di fatto psicopatici o peggio, e destinati a fare del male e a finire male: con l’unica madre decente che è in realtà una madre mancata, senza figli).
È un libro che, tra le tante cose, racconta anche la costante e fatale delusione delle nostre necessità affettive di figli — siamo tutti come il povero Charlie Brown, tutti intenti a sperare che questa volta Lucy non sposti il pallone da football e ce lo lasci calciare lontano, come Charlie Brown siamo destinati a franare al suolo, schienati, ancora una volta. Purity è un libro sulla purezza come utopia, sulla sua impossibilità: più ne abbiamo bisogno e più lei si rivela distante, crudele, corrotta o menzognera — o tutte queste cose insieme.
Franzen scopre le carte dickensiane senza timori reverenziali e trova per la sua Purity il soprannome «Pip», come il protagonista di Grandi speranze. Uno scrittore meno ambizioso e meno sicuro dei suoi (mostruosi) mezzi tecnici avrebbe evitato il riferimento, lui invece raddoppia mettendo in bocca a un romanziere frustrato e bloccato — letteralmente: è finito in sedia a rotelle dopo un incidente di moto — una battuta sarcastica sulle «grandi speranze» che nutre per Pip.
A Franzen non è sfuggita la nascita di un neologismo creato dai colleghi — comprensibilmente invidiosi delle sue recensioni, delle sue vendite e della sua copertina di «Time» — la cosiddetta Franzenfreude, variante della Schadenfreude che indica il cattivo umore di chi apprende che a Franzen sono capitate cose belle. E allora, senza nessuna falsa modestia, mette in bocca al frustratissimo scrittore in sedia a rotelle un rude commento su Jonathan Safran Foer (al quale, per sfregio, storpia il nome) e una stoccata contro tutti gli scrittori americani di successo che si chiamano «Jonathan». Non ricordiamo un caso simile, almeno in anni recenti — uno scrittore di enorme successo che dà elegantemente, ma senza perifrasi, dei poveracci ai suoi colleghi antipatizzanti.
Purity è un libro spietato. Franzen mette sotto la lente del suo microscopio i miliardari americani come i ragazzi di Occupy (molto intenti a straparlare di nuovi mondi impossibili), i tristi apparatchik della Ddr come i loro ambiguissimi oppositori: non è mai un bello spettacolo. I macro-capitoli non sono numerati ma hanno dei bei titoli ottocenteschi (tra i quali «Purity a Oakland», «La Repubblica del cattivo gusto», «L’assassino», «Arriva la pioggia») e attraverso di loro Franzen viaggia avanti e indietro nel tempo: dai giorni nostri, la California della povera (letteralmente: è sommersa dai debiti contratti per laurearsi) Pip, ecco la Germania Est del crepuscolo del comunismo, e poi il Sudamerica di oggi dove si è rifugiato Andreas Wolf (altro cognome dickensiano che più dickensiano non si può), una specie di via di mezzo tra Julian Assange e Edward Snowden, fondatore di una sorta di WikiLeaks basata sul culto della sua personalità (c’è da temere che queste pagine tech non piaceranno a qualche critico americano: Paese dove la divisione rigidissima e cieca tra generi letterari in «nobili» e «di consumo» fa a volte elogiare autori mediocri purché ombelicalissimi e ignorare maestri del noir e del thriller).
Franzen ci porta anche in Texas, con una giornalista (Leila Helou, di origine libanese, stesso cognome del presidente libanese della Guerra dei sei giorni e degli infelicissimi Accordi del Cairo con l’Olp: continua il gioco al gatto e al topo di Franzen con lo spirito dickensiano del Natale passato) che insegue una testata nucleare sottratta da una base militare.
Proprio questa parte del romanzo — è un libro dal plot ottimo e abbondante, che anche il più severo lettore affetto da Franzenfreude non potrà non ammirare almeno per la precisione con cui è stato progettato — ci richiama al tema della guerra fredda così ossessivamente presente nei flashback relativi alla Ddr e agli anni tedeschi del lupino Andreas Wolf, quando Purity-Cappuccetto Rosso non era ancora nata. La bomba atomica, per Saul Bellow, era una specie di minaccia vuota poiché «ne muoiono più di crepacuore»; Franzen ne libera una per Amarillo, Texas, con l’apocalisse sfiorata per gioco e sciatteria e avidità: tutto senza trasformarsi in un imitatore di Tom Clancy, ma affidandosi al plot con la tranquillità di chi ha imparato a raccontare storie in modo classico e sa che non esistono trame di serie B ma soltanto scrittori di serie B.
Franzen ci racconta un mondo, quello attuale, più strettamente sorvegliato di quello della Ddr. Proprio nella rievocazione della Ddr, Franzen trova pagine bellissime, anche senza avere a disposizione un personaggio insopportabilmente travolgente come Pip (allora non era ancora nata), ma il meno memorabile Andreas. L’autore ci racconta la Ddr come un Leviatano con l’artrosi che, pur destinato a rapida scomparsa, continua a spiare le vite degli altri cercando di puntellare l’utopia del Comunismo — qui l’ammirazione del germanista Franzen per lo spirito tedesco traspare con una certa amara allegria — come un ingegnere edile ostinato a fare il suo dovere fino in fondo. A dispetto dei materiali scadenti a disposizione, del terremoto in arrivo, e della logica stessa.
Franzen non inanella pezzi di bravura perché il pezzo di bravura è il libro nel suo insieme, nella sua architettura inizialmente bizzarra che diventa di pagina in pagina, di macro-capitolo in macro-capitolo, sempre più chiara, affascinante, luminosa.
In attesa dell’agnizione — immancabile in un romanzo in cui la protagonista cerca suo padre: oggi sembra uno stratagemma da soap opera ma ne parlava Aristotele nella Poetica — il quinto romanzo di Jonathan Franzen attraversa sei decenni, sorvola i continenti, si traveste da thriller, da poliziesco, da saggio di tecnologia e da romanzo d’appendice. E solo Franzen, oggi, poteva scrivere le pagine finali di Purity: nelle quali ritorna la preoccupazione centrale de Le correzioni e di Libertà, il tema che all’autore — umanista sotto mentite, gelide spoglie — sta più a cuore: non tanto la necessità di perdonare i nostri genitori ma l’indispensabilità, per l’igiene della nostra anima e la nostra salute mentale, di saper andare oltre. Oltre i loro limiti, oltre la loro involontaria crudeltà. Un romanzo nel quale una ragazza impiega quasi seicento pagine a ritrovare suo padre e riportarlo da sua madre finisce con la scoperta che «le persone che le avevano lasciato in eredità un mondo in frantumi si stavano dicendo — gridando — cose terribili».
Dopo Le correzioni e Libertà Franzen non è più interessato a raccontare — o a processare — soltanto l’America: ora racconta, e processa, tutti noi.

Arriva “Purity”, il nuovo libro di Jonathan Franzen contro tutti Esce oggi negli Usa il nuovo atteso romanzo Purity. Lo scrittore contro Google, Facebook e il bon ton politico dei campus: un Donald Trump della letteraturagianni riotta Busiarda 01/09/2015
Quel che resta della società letteraria di New York – chiusi i caffè dell’Upper West Side, ridotte a poca cosa le (un tempo boriose) riviste dei «glitterati», con il web a dominare sulle biblioteche – ha passato il weekend che precedeva questo 1° settembre a imprecare contro l’ascesa elettorale di Donald Trump e a leggere le copie staffetta di Purity, il nuovo romanzo di Jonathan Franzen, 563 pagine, edito da Farrar Straus and Giroux. L’autore, considerato il maggior scrittore americano vivente, ha speso la vigilia a sollevare ogni possibile polemica, on e offline, contro le femministe militanti e no, contro i cultori dei new media, accademici o patiti di Silicon Valley, contro i circoli intellettuali.
Senza scrupoli lessicali
Purity confermerà gli astiosi avversari di Franzen nella loro bile, perché i protagonisti non coltivano nessuno degli scrupoli del bon ton politico che impera nei campus universitari Usa, dicono «cunt cunt cunt» (figa figa figa) per definire la propria ragazza, detestano Google e Facebook e vivono senza troppo preoccuparsi dei giornali chic. Mischiando la lettura del romanzo a quella delle cronache sulle primarie presidenziali 2016 verrebbe proprio da dire – absit iniuria verbis – che Franzen è il Donald Trump della letteratura, intento a squassare ogni canone vigente e parlare direttamente al «popolo». Che Trump riesca davvero ad arrivare alla Casa Bianca è dubbio, i militanti lo temono, il guru statistico Nate Silver lo esclude e io mi fido di Silver: ma Franzen ha scritto un bellissimo romanzo, di cui vi raccomando la lettura.
L’ombra di Assange
Pip è una ragazza di 23 anni che ha 130.000 dollari (ormai il cambio in euro poco cambia) di debito con l’università, vive in un appartamento occupato a Oakland, in California, e sopporta la mamma, veterana hippie che ha tagliato i ponti con la famiglia, senza neppure dire a Pip – Purity Tyler è il vero nome – chi sia suo padre. Pip, il soprannome rimanda a Grandi speranze di Dickens e al marinaretto matto di Moby Dick di Melville, vorrebbe emanciparsi dall’eredità asfissiante degli Anni 60 e ritrovare il papà e cerca aiuto, a modo suo, in Andreas Wolf. Cresciuto tra le spie della Germania Est, Wolf è tra i boss del Sunlight Project, una sorta di WikiLeaks, e di certo richiamerà al lettore l’ombra, per alcuni sinistra per altri carismatica, di Julian Assange: accusato di stupro in Svezia, rifugiato in un’ambasciata a Londra, ambiguo profeta della trasparenza altrui e dell’oscurità propria.
La doppiezza di Assange, contro cui in una citazione Franzen è lapidario («megalomane, autistico, maniaco sessuale»), filtra in Wolf, anche lui costretto alla macchia in Bolivia, e la povera Pip, come il suo omonimo baleniere matto di Moby Dick, cade a capofitto ogni giorno, non nell’oceano, ma in un mare di segreti. E perfino il segreto della copertina, che ritrae una giovane donna, anima i dibattiti: chi è la misteriosa figura, opaca, ritratta dall’art director di Farrar Straus and Giroux, Rodrigo Corral? «Un’amica del fotografo», si schermisce lui lapidario, e allora si parte sui social media a setacciare il profilo Facebook dell’artista, Bon Duke: invano, non si è ancora deciso se si tratta del volto di Pip e della mamma hippie.
Non esce meglio identificato neppure l’altro antieroe, Tom Aberant, intellettuale del Colorado che guida un sito web di giornalisti militanti, intenti a cercare scandali, veri o presunti. I tempi sono di morale doppia, se non tripla, e Wolf nicchia davanti a possibili rivendicazioni contro Google, osso troppo duro da aggredire, preferendo scegliere – come l’ex agente Nsa Snowden rifugiato nella Mosca di Putin – di convivere nelle «nicchie dei sistemi totalitari».
Un felice, virile disincanto
Dopo Le correzioni e Libertà (tradotti da Einaudi, che pubblicherà Purity a febbraio), Jonathan Franzen ha scritto un libro divertente, critico, sarcastico, pieno di irriverenti verità sulla disfunzionale società americana del presente. Fino all’autoironia, nel passaggio che mi ha fatto ridere da solo quando un personaggio bofonchia «“Troppi Jonathan in giro. Un’epidemia di Jonathan letterati. Se leggi la New York Review of Books, pensi che Jonathan sia il nome comune maschile più diffuso in America. Sinonimo di talento e autorevolezza, ambizione e vitalità”. E inarcando un sopracciglio verso Pip: “E che diciamo di Zadie Smith”. Un mito giusto?”», l’ironia rivolta alla scrittrice cara alla cultura multietnica.
Nessuna delle polemiche contro Franzen si spegnerà dopo Purity, malgrado in qualche passaggio l’autore sembri un po’ intimidito dai critici. Il lettore interessato alla perenne cacofonia del web se ne rallegrerà o lagnerà, secondo l’inclinazione corrente. I superstiti lettori di romanzi – ma davvero ancora ne sopravvivono? – si godranno un gran bel libro, capace di inquadrare lo Spirito del Tempo. Al punto che Curtis Sittenfeld, critica del quotidiano inglese Guardian, violando ogni embargo, non resiste a twittare in anteprima un passaggio del libro: perché chi bazzica sereno il nostro mondo sa che tra cultura tradizionale e digitale non c’è alcun gap, occupano lo stesso spazio nelle coscienze, private e pubbliche. Leggete, per esempio, il diario in pubblico che il critico e editor letterario Severino Cesari va tenendo da qualche mese sulla sua pagina Facebook, la profondità del passato investita nei mezzi del futuro. Franzen agisce nella stessa dimensione, con felice, virile, disincanto.


Jonathan Franzen, illusioni perdute 

Romanzi . Esce l'ultimo libro dello scrittore americano, "Purity", una trama tortuosa e priva del consueto humour, dove i litigi fra i sessi sembrano ciò che più sta a cuore all'autore
Barry McCrea Alias Manifesto 13.3.2016, 6:00 
Il legame tra capitalismo e romanzo è antico, profondo e strutturale. Vista la forma di capitalismo che plasma oggi le nostre vite – dove è sempre meno chiaro come la ricchezza venga prodotta e ridistribuita, e la circolazione delle informazioni così come il concetto di identità sono stati sottoposti a massicci e rapidi cambiamenti – ci sarebbero di grande aiuto un Dickens o un Balzac che mostrassero in un romanzo globale come tutto e tutti siano collegati, e come si intreccino i pezzi del sistema. Jonathan Franzen è un candidato plausibile per questo ruolo e il suo ultimo romanzo, Purity (Einaudi, traduzione di Silvia Pareschi, pp. 656, 22,00) sembra puntare a questo obiettivo. 
Nei libri precedenti aveva usato il caso di una famiglia per dare trama, limiti e struttura alla sua storia. Purity è invece ambientato in un mondo in cui i legami di parentela sono indeboliti, oscuri e sfuggenti. Uno dei temi del romanzo è la discontinuità e mutevolezza delle relazioni nell’era digitale ed è assente la vasta cerchia di relazioni familiari che dava forma narrativa ed energia alle Correzioni. In Purity, la cronologia, non avendo lo stampo preconfezionato della genealogia, è confusa e i collegamenti tra le varie parti del romanzo volutamente poco plausibili. 
Tormentato dalla mancanza di figure paterne e dal desiderio – condiviso da quasi tutti i personaggi – di una figura autorevole, se non proprio autoritaria, di padre («voglio che tu mi dia ordini» Pip, implora Andreas Wolf, il genio prepotente), Purity mostra anche un’altra ossessione, speculare alla prima: il tentativo, di nuovo comune a molti personaggi, di sfuggire alla tirannica e spesso sessualmente minacciosa figura della madre, suggerendo una certa nostalgia per l’ordine patriarcale perduto, che ridarebbe al nostro mondo informe senso, coerenza e struttura.
Franzen ribadisce spesso nel testo il fatto che il suo romanzo è una consapevole rielaborazione di Grandi speranze di Charles Dickens. L’espressione «grandi speranze» vi compare esplicitamente, e la protagonista femminile, Purity, si fa chiamare, in modo assai poco plausibile, Pip. Inoltre, proprio come in Grandi speranze, anche in Purity la trama ruota intorno al tema della paternità e del denaro, e alla progressiva rivelazione dei relativi segreti. 
La trama del romanzo di Franzen è tortuosa, complessa e ripetitiva. «Pip» Tyler è una ventenne ingenua e idealista, che lavora nel call center di una società per la vendita di energia pulita in California. È figlia di una madre single che rifiuta di rivelarle l’identità del padre. Una signora tedesca convince Pip a trasferirsi in Bolivia e partecipare a un progetto in stile Wikileaks, il cui leader, Andreas Wolf, una specie di Julian Assange, si nasconde per sfuggire ai molti governi e aziende di tutto il mondo i cui segreti la sua organizzazione di hacker è riuscita a rendere pubblici. A sua volta, Andreas Wolf convincerà Pip a trasferirsi in Colorado per collaborare con un gruppo di giornalisti investigativi gestito da un certo Tom Aberant. 

Il romanzo è pieno di digressioni che sovvertono l’ordine cronologico degli eventi. Un lungo flashback racconta degli anni giovanili e della formazione di Andreas Wolf nella Ddr (si vuol far credere che il suo assillante desiderio di rivelare tutto sia causato dall’essere cresciuto in una società ossessionata dalla sorveglianza). 

Viene descritta la storia dell’incontro dei genitori di Tom Aberant nella Germania del dopoguerra; ma Franzen si dilunga in particolare sul deprimente resoconto degli infelici matrimoni di questi due uomini: le loro storie si somigliano al punto che spesso ci si dimentica di quale delle due coppie siano i litigi che vengono minuziosamente raccontati. Come siano collegati tra loro tutti questi personaggi, perché continuino a spedire Pip avanti e indietro, e chi stia per ereditare un miliardo di dollari sono le domande che dovrebbero generare suspense e far progredire la trama del romanzo. 

Al titolo Purity corrispondono una serie di valenze e di riferimenti simbolici. Come già in Dickens, si suggerisce che il denaro sia intrinsecamente impuro. Si ha anche la netta sensazione che qualcosa di vergognosamente impuro si nasconda nel passato di ciascuno dei personaggi. Ma, soprattutto, il romanzo offre una satira spietata della pericolosa inutilità delle battaglie per la purezza ideologica, che sia quella della Ddr comunista, o quelle dell’ambientalismo californiano, del femminismo, o della predicazione via internet di una società aperta. 
Del resto, e per di più, nessuna identità nel romanzo è «pura», tutti ne hanno una adulterata, di cui fa parte un passato con un’identità alternativa che non è compatibile, per una ragione o per l’altra, con la loro ufficiale immagine pubblica. I personaggi si sdoppiano in modo inquietante, tanto che i confini tra loro finiscono con l’essere un po’ sfocati nella mente del lettore. Ci vengono offerte dettagliate, talvolta scioccanti descrizioni della vita e delle fantasie sessuali di alcuni di loro, ma l’insieme di una singola persona è sempre sfuggente. In questo senso, il romanzo riesce a replicare gli effetti del mondo virtuale in cui ogni identità può essere l’avatar di un’altra. 
Come nella vita sociale online, i rapporti descritti in Purity sono caratterizzati contemporaneamente dal più totale anonimato e dalla divulgazione di ogni dettaglio, dalla più completa privacy e insieme dall’esposizione di ogni più privato recesso della vita, sfrenate avventure sessuali e costante delusione erotica. Ma queste idee non sono il frutto della trama o dei personaggi, anzi; è come se un articolo di opinione del New York Times fosse costretto ad assumere la forma di un romanzo. Lo stile agile, spiritoso, quasi sbrigativo che guida il lettore con facilità attraverso la trama, per quanto deprimente, delle Correzioni, le metafore originali e le osservazioni azzeccatissime che rendevano così vivida l’ambientazione sociale nel Midwest americano, sono qui totalmente assenti. 
La prosa di Purity sembra puntare a una purezza sbiadita e tutto il libro – cosa sbalorditiva per uno scrittore dal talento comico di Franzen – è privo di humour, sprovvisto di quel senso del piacere – così abbondante nelle Correzioni – che lo scrittore deve pur avere provato nel dipingerci il suo mondo. Una vera passione la si sente soltanto quando Franzen elenca e racconta i litigi di coppia: la convinzione che comunicare tra donne e uomini sia impossibile, addirittura distruttivo, martella continuamente tutto il romanzo, dall’inizio alla fine. Tanto che viene da pensare che sia proprio questo il vero argomento di Franzen, e tutto il filosofare sulle questioni dell’identità, dell’ideologia, dell’informazione – temi che il romanzo rivendica come i suoi principali – siano solo un alibi per la materia vera della storia, i rapporti tra i due sessi. 
Ora, questo equivoco su quale sia il vero argomento del romanzo fa sì che non si possa risalire a una trama che dia struttura ai continui conflitti e malintesi tra uomini e donne, con il risultato che le interminabili scene in cui le coppie litigano, si lasciano, si riconciliano, rilitigano e si lasciano di nuovo, risultano essere semplici ripetizioni, mentre gli eventi della trama apparente si accumulano senza che vi sia alcuna passione ad animarli, nulla che ne faccia sentire la dimensione umana. 
Il nucleo segreto del libro, le relazioni tra uomini e donne, finisce con l’essere confinato a scene dozzinali e ripetitive, senza lasciare spazio a sfumature o sviluppi ulteriori. Per esempio, tutti i personaggi del romanzo sono più o meno svitati, ma con grandi disparità: le donne, in Purity, sono illogiche, inaffidabili e volubili, la loro pazzia limitata a lamentele immotivate, complotti meschini e capricci svogliati, mentre agli uomini vengono concesse furie grandiose, enormi progetti deliranti, gelosie sanguinarie.Al di là di questo, più che persone i personaggi sono nomi funzionali alla trama, entità le cui azioni e sentimenti sono motivati unicamente dall’esigenza di esporre delle idee. Lo stesso vale per i luoghi, che cambiano continuamente ma senza che vi sia quasi descrizione: in alcuni momenti il lettore dimentica se l’azione si svolge in Belize o a San Francisco. Certo, Purity è anche un libro sul non-luogo di Internet, e appiattendo identità personali e topografiche il romanzo coglie qualcosa del mondo digitale nel quale la maggior parte di noi vive, almeno in parte. 
Così come Grandi speranze riguarda l’inconciliabilità tra le fantasie interiori e la realtà esterna, Purity avrebbe potuto esplorare la strana incompatibilità tra il sogno senza luogo di Internet e l’esperienza fisica di vivere e muoversi in spazi geografici reali. 
Il romanzo sembra spinto invece soltanto dalla bieca logica di Internet secondo la quale non conta molto se sei in una valle della Bolivia o in un caffè di Oakland. Fanno eccezione alcuni momenti commuoventi ambientati nella Ddr degli anni settanta e ottanta. La vita di persone il cui mondo sociale e ideologico è totalmente scomparso è un argomento che, spero, Franzen affronterà di nuovo in futuro. Ma anche le parti che si svolgono nella Ddr soffrono del problema fondamentale del libro, ossia che sembrano essere state scritte per esibire idee già elaborate anzitempo dallo scrittore. Così, buona parte del romanzo consiste in una esposizione, quasi annoiata, di fatti ed eventi, finendo col sembrare più il riassunto di una trama che un racconto. 
Un romanzo non è un saggio. Per riuscire davvero, anche un romanzo filosofico non può partire dalle conclusioni ma deve arrivarci pian piano: il significato si genera dal raccontare stesso. Si spera che Franzen d’ora in avanti abbandoni certe figure improbabili seminate in Purity, puramente esemplari come lo sono le nevrotiche figlie di miliardari che si danno alla latitanza, o le celebrità psicotiche che cercano di rovesciare l’ordine sociale da un recinto segreto in Sudamerica, per raccontarci di uomini, donne e situazioni ordinarie e reali. 
Diversamente da un saggio, un romanzo non può limitarsi a sviluppare teorie sociologiche precostituite: per lasciare spazio alla crescita organica del racconto, un romanziere non può sapere a priori quale sarà il senso ultimo del proprio libro, ciò che – in Purity – Franzen sembra voler determinare a tutti i costi.

Democrazia digitale? Un incubo 
Lo scrittore americano torna all’attacco: “Prima il Tea Party, poi Occupy, quindi la jihad globale via mail: ovunque si impone l’estremismo della purezza ideologica” Paolo Mastrolilli Busiarda 27 3 2016
Avete voluto la democrazia digitale? E adesso beccatevi gli insulti in 140 caratteri di Donald Trump. Avete fomentato la purezza ideologica e l’intransigente idealismo giovanile, a destra come a sinistra? E allora non lamentatevi, se gli spettri del fascismo e della jihad globale minacciano le nostre società.
Jonathan Franzen è uno scrittore troppo raffinato, per usare un simile linguaggio, eppure questa è una traduzione abbastanza accurata del suo allarme per come va il mondo. Tutto parte dall’ultimo romanzo, Purity, che Einaudi ha appena pubblicato in Italia. Il titolo viene dal nome di una ragazza alla disperata ricerca della sua identità, che deve passare attraverso varie disavventure, missioni spionistiche in Sud America, incontri con leakers alla Assange e giornalisti seri, testate termonucleari rubate e orrori della triste Germania orientale, per scoprire i segreti che hanno rovinato la sua famiglia. La «purezza» da cui era partito Franzen per immaginare questa storia, però, lo ha portato a conclusioni imprevedibili.
Quattro personaggi del libro sono giornalisti o leakers: come mai?
«Purity va a caccia dei segreti della sua famiglia, e quindi mi è sembrato naturale metterla in contatto con chi cerca i segreti per professione. Sono partito con il leaker, ma poi gli ho messo vicino il giornalista per equilibrare. Uno dei personaggi, Leila, è molto ostile a questa figura, anche per l’effetto preoccupante dei contenuti distribuiti gratis su Internet, che stanno spingendo molti giornali a chiudere o tagliare il personale».
C’è una netta distinzione inPurityfra leakers e giornalisti.
«Io penso che possano convivere, abbiamo bisogno di entrambi. Nel caso della guerra in Iraq, ad esempio, il giornalismo ha fallito: un leaker che ci rivelasse l’inesistenza delle armi di distruzione di massa di Saddam sarebbe stato utile. Non so però quanto a lungo durerà ancora questo mito del leaker eroico: la profondità del vero giornalismo di inchiesta resta il modello migliore per dare alla democrazia l’informazione responsabile di cui ha bisogno».
Lei ha criticato anche la funzione dei social media, e ora abbiamo una campagna presidenziale dominata dai tweet di Trump.
«È il risultato inevitabile dell’ideologia della Silicon Valley».
Quale ideologia?
«La democrazia digitale, un incubo. Non servono più politici o esperti: basta dare alla gente libero mercato, informazioni non mediate via Internet e strumenti per comunicare, e magicamente nascerà una società perfetta. Ecco, il risultato è Donald Trump».
Sarebbe colpa dei social media?
«Secondo l’ideologia del libertarismo radicale della Silicon Valley, il cliente ha sempre ragione. Ma il cliente non vuole fatti e politica: gli interessa sapere quanto sono grandi le varie cose che Trump si vanta di avere grandi. Semplificazione e banalità, però, non sono le chiavi per risolvere tutto: nella vita esistono molti problemi complessi, che richiedono conoscenza».
Lei ha scritto questo romanzo prima della campagna presidenziale, ma basta leggere una decina di pagine per ritrovarci quasi tutti i temi in discussione oggi. Non è difficile immaginare la protagonista Purity, Pip per gli amici, a un comizio di Sanders.
«Non possiedo la palla di cristallo, ma era abbastanza chiaro che andavamo in questa direzione in tutto il mondo. Prima il Tea Party, poi Occupy Wall Street, quindi la jihad globale via mail: ovunque si impone l’estremismo della purezza ideologica».
Sta dicendo che la purezza ideologica è una minaccia?
«Mi viene in mente il parlamentare americano così sicuro di avere ragione, da dire che Obama era il demonio e la sua missione era farlo fallire. Ma cosa dà ai puri tanta certezza di essere nel giusto assoluto?».
Quindi anche l’idealismo giovanile è un pericolo?
«È una cosa bellissima, quando hai diciannove anni: a quell’età devi esserlo. Quando però sei un idealista intransigente a quarant’anni, o magari anche a sessanta, c’è qualcosa che non va. È un atteggiamento che fa pensare ai Paesi fascisti, ci riporta verso luoghi oscuri della nostra storia».
Perché accade proprio adesso?
«Viviamo in un’era molto difficile. Nel mio piccolo, mi interessa molto l’ambiente, e non posso certo essere ottimista riguardo a quello che stiamo facendo al nostro pianeta. Immaginate cosa pensa un ragazzo di 24 anni, davanti alla prospettiva di un aumento delle temperature di nove gradi celsius entro la fine del secolo: abbraccia la rivoluzione digitale, credendo che porterà a un mondo migliore, se la seguiremo con purezza di cuore. Oppure guardiamo a quello che accade in Medio Oriente, Nord Africa, o alla classe lavoratrice bianca americana, che vede sparire i suoi posti di lavoro, mentre il paese diventa sempre meno bianco. La gente è disperata, e per paura abbraccia la purezza ideologica».
Rispondere con la superficialità apre le porte all’estremismo?
«Di certo non ci aiuta a risolvere i problemi complessi».
Sarebbe meglio dire qualche bugia, o nascondere qualche segreto, come fanno diversi protagonisti diPurity?
«Se sei un radicale libertario no, devi sempre rivelare tutto. Ma siamo sicuri che sia la maniera migliore di gestire la società? Cosa fanno i direttori dei giornali: pubblicano qualunque roba, o selezionano le notizie con responsabilità? E cosa fanno gli adulti con i figli? Raccontano tutto, o filtrano per il loro bene?».
Quindi Bernie Sanders è un vecchio genitore che parla troppo?
«È un giovane che non è mai dovuto crescere. È sempre stato un puro, ma con pochi risultati da mostrare».
E Trump è un demagogo che sfrutta le paure della gente, fino a rievocare fantasmi del passato come il fascismo?
«Lui è il frutto logico della democrazia digitale, mentre dovremmo affrontare le complessità della nostra epoca cercando di capirle».
Seguendo questa linea, Hillary Clinton è la candidata più pronta a «mediare» la verità.
«Forse un po’ troppo, nel suo caso, che poi è la ragione per cui non riesce a essere popolare. Però sembra l’unico adulto nella stanza. Non lo so, non vedo molte ragioni per essere ottimista».
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