giovedì 24 marzo 2016

Il macellaio filosofico dell'Impero Liberal, i buffoni intellettuali di corte e i loro ventriloqui


Il filosofo Michael Walzer «Ora il rischio è l’ascesa della destra demagogica»

intervista di Massimo Gaggi Corriere 24.3.16
«Lo Stato Islamico mette in pericolo la nostra sicurezza ma è anche, e forse soprattutto, una minaccia per le democrazie dell’Occidente che rischiano grosso in un clima di emergenza estrema». Il filosofo Michael Walzer, docente di Princeton e teorico della «guerra giusta», è intervenuto spesso sulla necessità di reagire con forza all’attacco del terrorismo in Europa, soprattutto dopo le stragi di Parigi. Oggi, però, dopo Bruxelles, guarda allarmato agli Stati Uniti, oltre che al nostro continente.
«Mi preoccupo ogni volta che i miei nipoti partono per Parigi e Bruxelles», confessa. «Ma adesso mi spaventa ancora di più quello che potrebbe accadere in ottobre, alla vigilia del voto per la Casa Bianca: un’ondata di attentati, magari anche qui, negli Stati Uniti. E Donald Trump che vince le elezioni».
A mali estremi, estremi rimedi, sostiene il candidato repubblicano per il quale la ferocia dei terroristi giustifica metodi di lotta più duri del «waterboarding» negli interrogatori dei prigionieri. Mette nel mirino anche le famiglie dei terroristi. Qualche pacifista sostiene che lei, dando una giustificazione morale alla «guerra giusta», dà un alibi a chi vuole cambiare le regole e passare a metodi sbrigativi.
«Assolutamente no. La guerra contro il terrorismo va vinta ma deve essere chiaro che quello che può essere accettabile in un’offensiva militare in Siria, non lo è nelle operazioni di polizia condotte nei Paesi occidentali. Bisogna assolutamente evitare gesti che possano favorire il reclutamento di altri jihadisti. E bisogna stare attenti a non indebolire le nostre democrazie giustificando le brutalità. Per questo oggi, più ancora dei danni immediati degli attacchi, mi preoccupano gli spazi che il terrorismo apre a una destra radicale, demagogica e antidemoratica».
Lei parla comunque di guerra, a proposito dell’Isis. Non si rischia di dare la dignità di quasi-Stato a quella che Barack Obama, temendo «conflitti di civiltà», liquida come una banda di volgari assassini?
«Il conflitto non è tra civilità diverse, ma all’interno di ogni religione: in ognuna sono spuntati gruppi radicali pronti a tutto. Ci sono nell’Islam, ma anche tra i cristiani, ci sono gli estremisti buddisti in Birmania, ci sono i nazionalisti induisti e i sionisti messianici in Israele. Il fanatismo religioso c’è in ogni civiltà: è quello che va combattuto».
La guerra all’Isis fin qui non ha dato i risultati sperati. Perché?
«Troppi pochi mezzi usati nelle offensive sul campo nei territori controllati dall’Isis mentre nelle strade d’Europa sono stati fatti molti errori. Lo stato d’emergenza è necessario, ma le brutalità a volte sono gratuite, dovute a carenze d’addestramento. È un po’ quello che è accaduto negli Usa con “Black Lives Matter”: un movimento che spinge le polizie a prepararsi meglio, ad affrontare le crisi nei ghetti i modo più professionale».
Intanto lo Stato Islamico si espande verso la Libia. Che fare?
«In Siria sinceramente non so. È una situazione incancrenita. Forse si può solo aiutare chi cerca una soluzione politica e tagliare ovunque possibile i canali di finanziamento dell’Isis sperando che alla fine l’incendio si spenga. In Libia, invece, è necessario un intervento della Ue a fianco di un governo che ridia un minimo di stabilità al Paese. In Siria è difficile andare oltre un’azione di contenimento, ma bisogna assolutamente evitare che l’Isis si espanda altrove».
Anche alleandosi con la Russia e chiudendo un occhio su quanto accade in Ucraina?
«Anche con la Russia, nonostante quei misfatti. La politica è l’arte di fare distinzioni. Si può cooperare in Medio Oriente con chi è un nemico in Europa. E a Damasco bisogna cambiare regime lasciando il Paese nell’orbita russa, alla quale la Siria appartiene da tempo». 

Tony Blair «Stiamo concedendo troppo la tolleranza finisce se toccano i nostri valori»
intervista di Paolo Valentino Corriere 24.3.16
«Concediamo troppo, non possiamo farci intimidire», dice Tony Blair. Al telefono da New York, l’ex primo ministro britannico, il leader politico che a cavallo del millennio traghettò la sinistra europea verso i porti del centrismo, difende la società multiculturale, ma denuncia la debolezza politicamente corretta di chi rinuncia a proteggere i valori di base e l’identità culturale europea, di fronte alle forze dell’intolleranza e dell’estremismo.
Mr Blair siamo in guerra?
«Sì. I gruppi terroristi che condividono questa ideologia di morte vogliono causare il massimo di distruzione alle nostre popolazioni e al nostro modo di vivere. Su questo non c’è dubbio, gli attentati di Bruxelles suonano solo come una ulteriore conferma, perché è un impegno che perseguono da molti anni».
Lei sostiene la necessità di «rispondere con forza alla sfida del terrorismo». Cosa significa concretamente?
«Io credo che ci siano quattro cose importanti da fare. Nell’immediato, dobbiamo migliorare radicalmente lo scambio di informazioni tra le intelligence europee, che oggi non funziona come dovrebbe e in alcuni casi non funziona affatto. La situazione è talmente grave che i servizi di alcuni Paesi sono sovrastati dal compito immane che si trovano davanti ed è quindi fondamentale che tutta l’Europa lavori insieme. La seconda cosa è cercare di risolvere i conflitti che sono all’origine del fenomeno terrorista: dobbiamo combattere Daesh ovunque si manifesti, in Siria, in Iraq o in Libia, esser preparati a compiere le azioni necessarie per sconfiggerli, anche costruendo, ed è il terzo punto, le giuste alleanze dentro il mondo islamico con coloro che lo vogliono e hanno una visione aperta e tollerante. Daesh può essere combattuto solo insieme a chi è determinato a salvare l’Islam da questo scempio della fede musulmana. Infine, dobbiamo lanciare quella che io chiamo un’azione globale sull’educazione, in cui tutti i Paesi si impegnino a orientare i loro sistemi scolastici per promuovere la tolleranza, eliminare il pregiudizio religioso e la cultura dell’odio per chi è diverso. Oggi l’istruzione è anche una questione di sicurezza e ci sono milioni di giovani educati con una falsa idea della religione e una angusta visione del mondo. Deve diventare un obbligo per tutti riformare i sistemi educativi formali ed informali, perché l’estremismo comincia nelle aule scolastiche».
Quando parla di azioni necessarie per sconfiggere lo Stato Islamico, vuol dire che non ci sarà vittoria possibile in Siria o Libia senza «boots on the ground», senza cioè impegnare truppe di terra?
«Sicuramente non possiamo sconfiggerli senza stivali sul terreno. La domanda è con gli stivali di chi? A mio avviso non dobbiamo essere coinvolti in ogni situazione, ma dove c’è la necessità di impiegare alcune delle nostre capacità sul terreno dovremmo essere pronti a farlo. Gli americani lo stanno già facendo sia pure in modo limitato. Ma l’importante è combattere Daesh ovunque è presente. E qui penso che ci sia una sfida di lungo periodo per l’Europa, quella di dotarsi di piena capacità su questo terreno. Non parlo di un esercito europeo, ma del modo in cui sapremo costruire una vera cooperazione militare tra le nostre nazioni in modo da essere in grado di agire contro questi gruppi».
L’immigrazione è oggi il cavallo di troia del terrorismo in Europa?
«Il problema che abbiamo oggi con l’immigrazione è che non controlliamo con buona approssimazione tutti coloro che entrano in Europa, il che ne fa automaticamente anche una questione di sicurezza. Ecco perché la gente è ansiosa, preoccupata e noi abbiamo il dovere di capirla e farci carico di quelle ansie. Dobbiamo essere molto chiari e decisi nel controllare e identificare chi arriva nell’Unione Europea. Ma in ogni caso non risolveremo il problema dei rifugiati a meno di non lavorare per risolvere le cause, cioè i conflitti in Siria, in Libia, le crisi dell’Africa subsahariana».
Lei pensa che l’accordo della Ue con la Turchia, a cui di fatto è stata subappaltata la gestione dei rifugiati, possa funzionare ed essere un modello?
«È chiaro che sarà necessario molto lavoro per farlo funzionare. In linea di principio è saggio avere i rifugiati ospitati e assistiti nella regione, cioè non lontano da casa loro, ma non può essere per sempre e si torna sempre all’urgenza di risolvere il conflitto siriano. Dico da anni che il rischio è la disintegrazione del Paese e l’impatto devastante che produrrà in Europa. Ciò che comincia nel Medio Oriente non rimane mai in Medio Oriente. È vero in Siria ed è vero in Libia».
Resta il fatto che l’ondata di rifugiati e migranti economici pone oggi una concreta minaccia alla stabilità e alla stessa sopravvivenza dell’Unione Europea. Lei si definisce sostenitore del multiculturalismo, a condizione che non venga abusato. Cosa vuol dire? Esiste oggi un modello praticabile di integrazione, al di là degli slogan della destra populista che dice: via l’islam dall’Europa?
«È importante definire cosa sia e cosa non sia il multiculturalismo. Penso che le persone debbano essere libere di praticare la loro fede e seguire il Dio che hanno scelto. Questo è un diritto umano fondamentale, la libertà di culto è alla base delle nostre società, dove persone di fede diversa possono coesistere in pace. Ma il multiculturalismo può funzionare solo se si accetta che esista anche uno spazio comune dove certi valori, i valori europei, siano accettati e rispettati da tutti. Democrazia, stato di diritto, parità di diritti e di opportunità per le donne. Nessuno ha il diritto di arrivare in un Paese e sfidare quello spazio comune. Chi crede nelle società aperte e tolleranti dev’essere rigoroso nella difesa di questi valori».
È questa la sua critica al cosiddetto «flabby liberalism», il liberalismo molle, non abbastanza rigoroso?
«Certo. Non bisogna confondere il multiculturalismo con il permesso a chiunque di rifiutare i nostri valori di base. I confini della tolleranza finiscono quando si mettono in discussione quei valori. C’è questa tendenza a concedere troppo, l’idea ridicola che sei parte di una élite se pensi solo in termini di rispettosa tolleranza verso altre persone. Uno dei problemi dell’Occidente è che riesce costantemente a sentirsi colpevole, quasi a vergognarsi di se stesso. Ora non dico che noi occidentali non abbiamo cose da rimproverarci, ma non dovremmo farci intimidire da nessuno e costringerci a pensare che non ci sono valori per i quali invece dobbiamo lottare. Io lo chiamo centrismo muscolare. E come dicevo prima, tutto comincia dall’educazione».
Guardando retrospettivamente il Medio Oriente e gli eventi degli ultimi 13 anni, il fallimento delle primavere arabe, l’Isis, le crisi irrisolte, fu l’intervento in Iraq la madre di tutti gli errori?
«Io dico due cose. Primo non saremmo oggi in una situazione migliore, se accanto all’incubo siriano avessimo Saddam Hussein ancora al potere in Iraq. Secondo, le primavere arabe ci dimostrano come tutti questi regimi, dove piccole minoranze si tenevano stretto il potere contro il volere della maggioranza, fossero in ogni caso insostenibili. Sarebbe meglio oggi avere ancora alcuni di quei dittatori in carica? Si può discutere. Ma le popolazioni non lo avrebbero tollerato. Non fummo noi la causa. Noi fummo coinvolti. Le cause affondano a molto tempo prima, probabilmente a 50 anni fa». 

«Il radicalismo nichilista che nasce in famiglia»
di Lorenzo Cremonesi Corriere 24.3.16
«Anche questa volta abbiamo una coppia di fratelli tra i terroristi. Oggi Khalid e Ibrahim el Bakraoui, come ieri Salah Abdeslam e suo fratello Brahim. Oppure i due fratelli Kouachi nel caso del massacro a Charlie Hebdo . Si ripete lo stesso modello di radicalismo famigliare, molto intimo, ristretto a piccoli circoli di persone connesse con legami di sangue che si conoscono sin da bambini. È parte integrante di questo nuovo nichilismo che islamizza la radicalizzazione originaria dei suoi adepti». Olivier Roy commenta per il Corriere le informazioni che giungono da Bruxelles sull’identità dei terroristi. Professore all’Istituto universitario europeo di Firenze, orientalista e politologo di origine francese, da tempo Roy esamina la crescita di quelli che definisce «nuovi nichilisti» nelle nostre città.
Dunque la cellula belga non è molto diversa da quelle che hanno colpito in Francia?
«Fanno parte dello stesso fenomeno. Sono nichilisti puri. Non cercano di costruire nulla. Non scappano in Siria a combattere. Non hanno un loro circolo, neppure cercano di fare proseliti. Vogliono semplicemente uccidere il massimo numero di persone con la massima pubblicità possibile. Tutti vengono dalla criminalità comune. Sino a pochi mesi fa non praticavano la loro religione. A un certo punto si sono radicalizzati in modo estremamente rapido. Dallo spaccio di droga e i piccoli crimini comuni sono passati ad ammirare Isis. Per loro l’ideologia e la pratica della violenza jihadista sono stati un modo per affrancarsi da una vita di marginalizzazione. Non contavano assolutamente nulla e improvvisamente sono diventati importanti, il mondo intero parla di loro».
Un familismo radicale?
«È un fenomeno generazionale, ma non popolare e non sociale. La radicalizzazione avviene tra gruppi minuscoli. Tra fratelli, appunto, ed eventualmente nel circolo degli amici più intimi. Rifiutano il modello offerto dai loro genitori, rifiutano la religione della moschea dove sono cresciuti. Quando scoprono Isis vorrebbero forse spiegarlo ai loro genitori, ma falliscono e si chiudono ancor più dal resto del mondo».
Sono popolari?
«Niente affatto. E a loro non interessa esserlo, si situano ai margini delle loro comunità».
Però abbiamo visto i ragazzini di Molenbeek tirare pietre contro polizia e giornalisti.
«La popolazione di quei quartieri semplicemente è stanca di intrusioni esterne. Praticamente però nessuno accetta il terrorismo di Isis. Tutt’altro. A tirare pietre sono ragazzini di 14 e 15 anni, o poco più. Ma non si tratta di un fenomeno di massa come a Belfast tre decenni fa. È tipico dei giovanissimi in questo tipo di quartieri. Lo fanno ora, ma lo facevano anche dieci anni fa, ben prima di Isis. I giornalisti ne parlano perché lo scoprono adesso».
È rilevante il fatto che le loro famiglie siano originarie del Maghreb?
«Certamente. In genere il problema degli immigrati maghrebini, specie di seconda o terza generazione, è che sono vittime della massima perdita di identità culturale. Sono sradicati totali e dunque più proni ad aprirsi alle ideologie più estremiste».
Può spiegare?
«In grande maggioranza turchi, siriani, egiziani e tanti immigrati provenienti dal mondo islamico tendono a mantenere legami forti con i Paesi di origine. Molti vanno nelle loro moschee, guardano i telegiornali dei loro Paesi, ogni tanto tornano per trovare parenti rimasti e amici. Ma nel caso del Maghreb tutto questo non vale, o vale molto meno. In genere le nuove generazioni non parlano più la lingua dei padri, più facilmente di altri perdono l’abitudine delle preghiere o di recarsi alla moschea. Insomma sono deculturalizzati al massimo. E proprio questa totale perdita dell’identità originaria culturale, linguistica, comunitaria e religiosa, li spinge più facilmente di altri a cercare risposte radicali e violente». 

Distruggiamo la credibilità del Califfato
di Bill Emmott La Stampa 24.3.16
Dopo atrocità terroristiche come quelle di martedì a Bruxelles o a Parigi a gennaio e novembre dello scorso anno, la pressione politica a reagire, agire, contrattaccare è sempre intensa. Ci impegniamo a non cedere al terrore, dicono tutti, però dobbiamo combattere. Ma come?
La risposta è: con la pazienza, con la determinazione e con la collaborazione.
La pazienza è al contempo la parte più difficile e la più importante.
Eppure l’esperienza tratta da ogni atto di terrorismo che si è verificato in Europa, in passato, sia in Gran Bretagna, Francia, Belgio, Italia, Germania o Spagna, è che i peggiori errori sono stati commessi grazie a reazioni dure e frettolose che servono solo ad aiutare i terroristi a reclutare più sostenitori. La cosa giusta da fare è cercare di immaginare che cosa davvero potrebbe servire agli attentatori, allo Stato islamico, e quindi evitare di farlo. Sarebbero aiutati da misure dirette a emarginare la comunità musulmana locale o da ritorsioni arbitrarie e mal congegnate.
Come l’Esercito repubblicano irlandese nel mio Paese durante gli Anni 70 e 80, ciò che lo Stato islamico più desidera vedere sono i musulmani, i loro potenziali sostenitori, in Belgio o in Francia o altrove, arrestati e imprigionati senza processo, o deportati in base a un semplice sospetto. Nulla sarebbe loro più utile per creare la prossima serie di kamikaze.
I valori europei hanno bisogno di essere difesi, non sospesi e sovvertiti. Parte di questa difesa dev’essere una reale attenzione ai motivi di alienazione in una prospettiva di lungo termine. In primo luogo la crisi economica e con essa la mancanza di lavoro e di opportunità, un risentimento condiviso con il resto della popolazione in molti Paesi della zona euro.
Questo, però, non è un problema risolvibile nell’immediato, per quanto importante. Il problema più a breve termine che i governi europei possono e devono affrontare con determinazione e spirito di collaborazione è l’ascendente dello Stato islamico nel presentarsi come causa da seguire e per cui lottare.
Negli ultimi due-tre anni lo Stato islamico e il suo leader, Abu Bakr al-Baghdadi, sono riusciti a rendersi credibili come potenza, e in particolare come una forza con la possibilità di affermarsi come uno Stato vero e proprio, che governa il territorio in Siria, Iraq e, forse, Libia. Il suo successo nel catturare le città di Mosul in Iraq e Raqqa, in Siria, in particolare, ha agito come fonte di ispirazione per molti musulmani, in Medio Oriente, come in Africa o in Europa.
Questo troppo spesso viene trascurato. Lo Stato islamico non è solo, o anche soprattutto, attraente per la sua ideologia o per la religione. Lo è per la sua credibilità. In effetti, sta facendo in Siria e in Iraq quello che la creazione di Israele, e poi la sua agguerrita difesa, hanno fatto in Palestina per gli ebrei.
La capacità di sferrare attacchi terroristici nelle città europee è parte di questa credibilità, ma non la più importante. Questo genere di attacchi, dopo tutto, sono stati messi a segno in precedenza da altri gruppi, tra cui Al Qaeda di Osama bin Laden, e da cani sciolti. La parte veramente significativa della credibilità dello Stato islamico sta nel suo nome: il suo successo nell’annettersi territorio e la creazione di uno Stato embrionale.
Quindi, dopo gli attacchi di Bruxelles, i governi europei hanno bisogno di concentrarsi su come intaccare e alla fine distruggere tale credibilità. Scongiurare ulteriori attacchi terroristici nelle loro città è un obiettivo comprensibile - e certamente per questo occorre un miglior lavoro di intelligence - ma in ultima analisi un obiettivo che non potrà mai essere pienamente raggiunto. Cambiare l’immagine dello Stato islamico in Siria, Iraq e Libia è qualcosa che è possibile, e può essere fatto.
Non è facile, altrimenti sarebbe già stato fatto. E non sarà ottenuto con sporadici bombardamenti su obiettivi dello Stato islamico da parte delle forze aeree britanniche, francesi, americane o russe. Ma potrebbe essere raggiunto se i governi europei mostrassero un’autentica determinazione e se lavorassero sodo per convincere l’amministrazione Obama che l’assunzione di un ruolo serio in un’azione militare durante il suo ultimo anno in carica è un rischio che vale la pena correre.
Il piano di inviare forze in Libia, sotto la guida italiana è una parte importante di questo scenario. Ma se dev’essere fatto, allora dev’essere fatto con un maggior numero di truppe e mezzi militari rispetto a quelle previste. Poi, i governi europei dovrebbero prendere in seria considerazione l’ipotesi di unire le forze con la Turchia, gli Stati arabi sunniti e il governo iracheno per cacciare lo Stato Islamico da Mosul.
L’obiettivo è semplice: si deve dimostrare che lo Stato islamico è perdente, una forza in declino e sostanzialmente senza speranza. Il calo dei prezzi del petrolio ha già ridotto il suo reddito. Le sconfitte militari, una dopo l’altra, lo renderebbero meno attraente come entità per cui combattere, sia in Medio Oriente o nelle città europee. Ciò può essere ottenuto solo con l’invio di vere truppe, in accordo con le nazioni arabe, per mettere a segno quelle sconfitte.
Non è una bella prospettiva. Ma l’alternativa è un continuo flusso di attacchi terroristici nelle città europee.
traduzione di Carla Reschia 

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