venerdì 4 marzo 2016

La mostra su Rodchenko a Lugano


Il pioniere Rodcenko, l'avanguardia continua della "Leica"Luca Beatrice Giornale - Lun, 18/04/2016

Sperimentare Dovere d’artista 
Mostra a Lugano sul padre del costruttivismo russo Dal furore rivoluzionario alle purghe staliniane 

Andrea Colombo Busiarda 4 3 2016
Genio dai mille talenti, pittore, designer, fotografo, grafico, Rodchenko è stato l’artista che più di tutti ha incarnato il mito sovietico, salvo poi finire stritolato negli ingranaggi del regime stalinista. Ora una grande mostra a Lugano, con quasi 300 opere, incentrata principalmente sulla sua ricca attività fotografica, ne celebra la creatività e il coraggio sperimentale (“Aleksandr Rodchenko”, Lac, a cura di Olga Sviblova, fino all’8 maggio). 
Attraverso gli scatti, i fotomontaggi, la grafica di riviste, libri e poster, l’esposizione ripercorre la tormentata vicenda di un artista che, nato povero nel 1891 a San Pietroburgo, raggiunge negli Anni 20 i vertici dell’élite culturale sovietica. Diventato famoso per aver rivoluzionato la fotografia attraverso prospettive e angolature vertiginose e insolite, inizialmente è attratto dal dinamismo futurista. 
L’amico Majakovskij
Nel 1914 incontra per la prima volta Majakovskij in una serata infuocata all’Assemblea dei nobili di Kazan. Inizia così un’amicizia che sconvolgerà i canoni della letteratura e della grafica d’avanguardia russe. Un legame immortalato nei ritratti fotografici esposti a Lugano, dove gli occhi del poeta sprigionano un’energia inquietante, presagio di una tragedia incombente. 
Rodchenko, ormai trasferitosi a Mosca, accoglie con entusiasmo la rivoluzione dell’ottobre del 1917 ed è convinto che bisogna fare tabula rasa del passato. Allo stesso tempo sogna di costruire un mondo nuovo e nel 1921 realizza le fantascientifiche Costruzioni spaziali in alluminio. In mostra si possono ammirare tre riproduzioni di queste opere andate perdute: grossi fiori metallici collocati in una sala dalle grandi vetrate, con vista sul lago. Il contrasto non può essere più netto: le visioni futuristiche delle sue sculture irrompono nella placida armonia del paesaggio cittadino svizzero. 
Sperimentare!
Nei primi Anni 20 Rodchenko conia lo slogan «il nostro dovere è sperimentare». Realizza diversi fotomontaggi per illustrare i libri di Majakovskij dove la poesia si sposa con una grafica aggressiva e sorprendente. Si dedica anche alla pubblicità: celebre il poster dove una ragazza sorridente amplifica, con un megafono composto in caratteri cirillici, il proclama «Leggete!». Nel 1924 illustra i funerali di Lenin con un fotomontaggio costruttivista dove la salma del leader è riprodotta più volte ed è sospesa fra linee rosse. Il messaggio è chiaro: la rivoluzione continua. «Non imbalsamate Lenin» è il suo grido d’allarme, puntualmente disatteso dal regime.
Ma in questo periodo c’è ancora sintonia fra autorità bolsceviche e artisti d’avanguardia: Rodchenko ottiene vari incarichi statali come insegnante di design e arte. Nel 1925 arriva la consacrazione internazionale: progetta il padiglione russo all’Esposizione internazionale di Parigi. Tornato in patria dai trionfi parigini, si rende però conto che quello che doveva essere il paradiso degli operai e degli artisti si sta trasformando in un inferno grigio e repressivo. 
Fine degli esperimenti
Negli Anni 30 avanza il realismo socialista e iniziano tempi duri per gli esponenti delle avanguardie. Rodchenko viene sollevato da ogni insegnamento. Relegato in un angolo, non stupisce se nel 1933 accoglie con entusiasmo l’incarico ufficiale di andare in Carelia per fotografare i lavori del canale sul Mar Baltico. L’artista scatta oltre duemila fotografie dei lavoratori-prigionieri del «canale Stalin». 
Alcuni di questi scatti sono in mostra a Lugano e fanno emergere tutta la drammaticità di questa colossale impresa schiavistica. L’artista s’illude ancora di poter sperimentare, pur nel recinto ristretto delle regole imposte dal regime. Ma si sbaglia. Le foto degli Anni 30 presenti nella retrospettiva, spesso smaccatamente propagandistiche, sono solo un pallido ricordo del Rodchenko futurista e costruttivista. Riprende a disegnare, quasi di nascosto. Fotografa clown tristi e bizzarri, tragici spettri di un mondo impaurito. Sono scatti dai contorni sfumati: è il suo tentativo, dall’esito paradossalmente antiretorico, di interpretare il realismo socialista.
La guerra
Rodcenko parteciperà in prima persona alla straordinaria ricostruzione socialista dell’universo russo-sovietico, sperimentando affascinanti “oggetti funzionali”. Inventa un’edicola per i giornali, esile struttura che s’inalbera sghemba verso il cielo, didascalie per la Kinopravda di Vertov, manifesti per la Corazzata Potëmkin e il Cineocchio, copertine per la rivista LeF, con caratteri cubitali e fotomontaggi, e l’arredo interno del Circolo operaio all’Esposizione delle arti decorative di Parigi. Mosca è invasa dai suoi sgargianti manifesti per i Grandi magazzini GUM, per la Mosselprom, per le Edizioni di Stato, coi testi che “Majakovskij scriveva la sera seduto al piano”. Ma il sogno della sperimentazione permanente si infrangerà contro lo smembramento del VChUTEMAS nel maggio del ‘30. Majakovskij si era suicidato il mese prima.
Aleksandr Rodcenko La rivoluzione russa della fotografia
Con oltre 300 opere tra scatti e costruzioni spaziali, il Museo della Svizzera italiana di Lugano rende omaggio al maestro sovietico

OLGA GAMBARI Restampa 5 3 2016
Le fotografie di Aleksandr Rodcenko sono l’esempio perfetto e stupefacente di come la realtà sia una questione di punti di vista. E forse anche la verità che essa contiene. Dipende da come la si guarda. E Rodcenko la guardava volandoci attorno, osservando da postazioni audaci, dall’alto e dal basso, con tagli obliqui che scoprivano prospettive e visioni inimmaginabili. Per abituare le persone a nuovi punti di vista è essenziale fotografare gli oggetti quotidiani e familiari da angolazioni totalmente inaspettate e in posizioni del tutto inconsuete – diceva.
Ancora oggi le sue fotografie dinamiche e potenti sono un invito a osservare davvero il mondo attorno, ad avere un occhio critico personale, non accontentandosi dello sguardo che il proprio fisico, o la cultura dominante, impongono. Sin dalle prime foto, scattate per realizzare fotomontaggi con cui illustrava riviste e manifesti, si era reso conto dell’enorme potenziale di questo
nuovo mezzo, che assorbiva e oltrepassava gli altri linguaggi artistici, cambiando la percezione s del reale.
Mosso da una creatività libera e anticonvenzionale, che eleggeva la sperimentazione come pratica, inscindibile dal rigore tecnico e formale, fu uno dei protagonisti dell’eccezionale periodo dell’avanguardia russa e della sua rivoluzione artistica. Il suo atteggiamento attivo nei riguardi della vita nasceva dalla fede in un futuro migliore per la società, che si poteva costruire anche attraverso la cultura. Rodcenko, influenzato da suggestioni futuriste, suprematiste e dada, si ispirava soprattutto ai principi del movimento costruttivista, che negava l’arte per l’arte. Erano gli anni Venti del Novecento, la rivoluzione era appena accaduta, gli intellettuali e gli artisti credevano in progetto comune a servizio della società russa. Un fuoco creativo alimentato da utopie, ideali politici e accelerazioni innestate dalle avanguardie in corso. La nuova Unione Sovietica era da educare e costruire. L’arte era una grande risorsa e le immagini avevano un ruolo fondamentale, dovevano sviluppare un concetto comunicativo efficace. Rodcenko inizia proprio dalla dimensione della grafica, che gli conferisce l’inconfondibile stile con cui caratterizzerà anche il lavoro fotografico, quello scultoreo e pittorico. Per lui ogni immagine era prima di tutto un progetto compositivo preciso, volto a esprimere un’idea, in cui elementi grafici come linee, curve e volumi ne determinavano la struttura formale.
La mostra che gli dedica il Museo d’arte della Svizzera italiana nella sede del LAC di Lugano, curata da Olga Sviblova, direttrice del Moscow House of Photography, è un percorso che esplora la sua produzione fotografica, anche quella meno famosa, messa in relazione con altri aspetti della sua ricerca. Primo fra tutti, la grafica, con un ricco nucleo di fotomontaggi e di collage, anche satirici, usati per illustrare riviste e libri, dalle tavole di
Pro Eto di Vladimir Majakovskij al progetto di copertina per una raccolta di versi di poeti costruttivisti, Mena vsech.
Ma ci sono anche manifesti, di natura politica come quelli sindacali, o per il film di Dziga Vertov Cine- occhio. Tutte collaborazioni che raccontano di una comunità di intellettuali che lavorava insieme, al di là dei percorsi individuali. Rodcenko ne ha fissato i volti, scatti come appunti di memoria. In una sezione della mostra sfilano le immagini di sua moglie, Varvara Stepanova, con cui condivise vita e progetti, poi Lilija Brik, scrittrice e attrice, oltre che musa di Majakovskij e moglie dello scrittore Osip Beskin, tutti presenti. E ancora il pittore Aleksandr Sevcenko, lo scrittore Sergej Tret’jakov, i registi Lev Kulesov e Aleksandr Dovzenko. Poi arrivano le immagini celebri come Scale, con una donna persa su una scalinata immensa, che evoca Ejzenstejn, perché le sue foto erano anche cinema. Ci sono le parate, i ginnasti, Mosca anni ‘20, con balconi e palazzi che si stagliano come volumi puri, la fabbrica di automobili AMO con gli elementi meccanici esposti. Ci sono anche le foto che lo resero poco per volta inviso al potere, fino a ostracizzarlo per aver abbandonato il carattere sociale della sua ricerca a favore di un’indulgenza manierista e di un puro estetismo. Per la serie dei Pioneer (1930), uomini e donne del popolo fotografati dal basso e trasformati in eroi, venne accusato di deformare i soggetti oltraggiandoli. Rodcenko provò a reagire, realizzando servizi per riviste celebrative come SSSR na strojke (URSS in costruzione).
E poi ritirandosi in una dimensione onirica e intimista, fuori dal presente. Fino a rifugiarsi nella pittura, dove ritroverà una sua libertà espressiva. Lontano dalla fotografia.


Nasce il mito dell’artista costruttore 
L’ottobre del 1917 spazza via le accademie. Nei nuovi Atelier si sviluppano le avanguardie

GIUSEPPE DIERNA Restampa 5 3 2016
La rivoluzione dell’ottobre del ‘17 non sbaraglia, in Russia, solo l’ordinamento sociale preesistente ma anche l’intero mondo delle arti figurative. La sua organizzazione interna. Le sue finalità. Il pittore abbandona il proprio studio e si riversa nei nuovi spazi conquistati. Scrive Majakovskij: «Le strade sono i nostri pennelli. / Le piazze le nostre tavolozze». Con l’inizio degli anni ‘20 si riorganizza l’intero sistema delle scuole d’arte all’ombra della Sezione arti figurative del Commissariato del popolo per l’istruzione. Scompaiono le accademie, retaggio zarista, sostituite a Mosca dall’Istituto di cultura artistica (l’IN-ChUK), all’inizio sotto la direzione di Kandinskij, vero laboratorio di idee che vengono poi messe in pratica negli Atelier superiori tecnico- artistici di Stato (il VChUTEMAS). Saranno questi gli spazi privilegiati della nuova didattica, che alla vecchia arte borghese (e “psicologistica”, dato che di lì a poco anche Kandinskij ne diverrà bersaglio) vuole ora sostituire l’idea di “industria artistica”, a cui viene delegato il compito di “cambiare il mondo” per rispondere alle esigenze dell’individuo nella nuova realtà sociale, teorizzando quel diritto alla felicità che sarà di lì a poco a fondamento del Poetismo ceco di Karel Teige. È qui che per l’intero decennio Aleksandr Rodcenko formerà i suoi studenti, insegnando tecnica di lavorazione dei metalli e potendo contare su colleghi come Aleksej Gan, Varvara Stepanova, Aleksandra Ekster o Vladimir Tatlin, a cui è delegata la lavorazione del legno. Perché le teorie costruttiviste (e produttiviste) che si sviluppano nelle stanze dell’INChUK predicano la supremazia della tecnica e una precisa conoscenza dei materiali utilizzati. Opponendosi ad “agnostici, spiritualisti, eclettici e altri podagrosi e paralitici” (A. Gan), il costruttivismo, “degno figlio della cultura industriale”, del lavoro e della rivoluzione socialista, esige un’arte utile e funzionale che contribuisca alla costruzione della nuova società. E l’artista dovrà essere pienamente consapevole del mandato sociale che gli viene affidato. Nasce in quegli anni questa nuova figura di “artista-costruttore, “artista- ingegnere” la cui creatività affonda nella preparazione tecnica e per il quale “nulla c’è di fortuito, di non calcolato”, figura così ben resa dall’autoritratto di El Lisickij del ‘24, con la mano che gli sfiora in sovrimpressione la testa all’altezza dell’occhio: tra le dita un compasso, lo sfondo di carta millimetrata. Artisti-ingegneri negli anni ‘20 ancora portatori di creatività nella rinata produzione industriale, ma che nel decennio successivo una brusca sterzata della Storia trasformerà senza scampo in irreggimentati “ingegneri delle anime umane”.

La prospettiva dello sconcerto Mostre. Al Lac di Lugano, la mostra dedicata Aleksandr Rodchenko, artista, grafico e fotografo che rappresentò la summa delle avanguardie sovietiche. Il suo sguardo puntò su «angolazioni impensabili, scorci esagerati e trame materiche impietose»
Arianna Di Genova Manifesto LUGANO 19.3.2016, 0:04
Aleksandr Rodchenko era un bricoleur a tutti gli effetti, un campione umano da prendere ad esempio per un antropologo come Lévi-Strauss. Sua figlia Varvara (ancora oggi vivente) lo ricorda chino, seduto nella penombra del suo studio, concentratissimo ad aggiustare qualsiasi cosa gli capitasse a tiro, dalle scarpe alle prese elettriche. E poi si divertiva a assemblare scaffali e radio, a costruire la camera oscura dove compiere la magia finale della stampa. Ma il principale bricolage di Rodchenko era rappresentato da quel suo prendere in prestito frammenti di linguaggi diversi per ricomporli in un universo unico dove linee, immagini e parole venivano calamitate per ordinarsi secondo parametri creativi inediti: erano questi a erodere dall’interno caratteri tipografici e inquadrature. L’artista totale, grafico e fotografo russo giocava con le eredità culturali del passato, mescolando segni di appartenenze lontane, fondando per loro un nuovo dna.  Le strutture spaziali costruttiviste di rodchenko al Lac
Tra pionieri e burattini
In questo suo lavoro di recupero, archivio e reinvenzione, non era mai solo: accanto a lui, con la stessa meticolosità, si applicava alla rivoluzione iconografica (e sociale) anche la sua compagna, prima di studi e poi di vita, Varvara Fedorovna Stepanova, conosciuta alla Scuola di belle arti di Kazan. Specializzata nel design tessile – indimenticabili i suoi vestiti costruttivisti – Stepanova condivideva con Rodchenko l’idea che l’arte non potesse essere rinchiusa in un museo ma dovesse circolare nella vita, essere in grado di riprodurla e migliorarla. E quando negli anni Trenta suo marito fu messo all’indice come artista (venne accusato di eccessivo formalismo e di guardare troppo ai linguaggi occidentali), obbligato a occuparsi esclusivamente del «progresso» e le grandi opere dell’Unione sovietica, sarà lei ad aiutarlo nella composizione grafica delle immagini per la rivista Urss in costruzione e, in seguito, nella composizione di album che immortalassero la Storia dei lavoratori e dei mutamenti delle città in rapida industrializzazione. Rodchenko e Stepanova
La serie delle fotografie scattate da Rodchenko nel corso del suo difficile reportage intorno al canale sul Mar Bianco sul Baltico la troviamo interamente proposta nella mostra al Lac di Lugano (visitabile fino all’8 maggio, catalogo Skira), il centro culturale di arti visive, musica e teatro inaugurato nel settembre scorso e diretto da Marco Franciolli. A cura di Ol’ga Sviblova, che è al timone della Casa della Fotografia di Mosca, la rassegna presenta oltre trecento opere e chiude il percorso con alcune sculture aeree ideate nel 1920-21 in omaggio all’estetica costruttivista.
Solo nel 1924 scoppierà, infatti, l’amour fou per la fotografia. E Rodchenko con una lochim 9×12 e una 13×18 (la Leica arriverà dopo, acquistata a Parigi durante l’Expo universale) scatterà quell’icona di un’epoca che è il ritratto di sua madre: un primo piano stretto, alla Ejzenstejn, dove una signora anziana, che ha imparato a leggere non da molto, inforca gli occhiali per vedere meglio fra le righe. Il libro è fuori cornice, ma ha una presenza ugualmente potente. L’inquadratura è simile a quelle che dedicherà ai «pionieri»: il passo successivo sarà la ripresa dal basso verso l’alto, punto di vista contestatissimo dai suoi contemporanei. Nelle sequenze dell’«epica sovietica» spesso l’approccio verrà ribaltato. Dall’alto verso il basso, a schiacciare l’umanità in cammino verso il futuro.
Fra le foto più belle esposte in mostra, figura la serie di pupazzi che dovevano servire per illustrare un libro per bambini di Sergej Tret’jakov, Samozveri, che però non vide la luce. Rodchenko vi aveva lavorato insieme a Varvara Stepanova e quei piccoli burattini presero vita attraverso un’accorta drammaturgia delle luci.
In una metà di marzo piovosa e fredda, con cumuli di neve abbandonati ai lati delle strade e sulle sponde del lago, nella placida Lugano finiscono per intrecciarsi le sorti di due rivoluzioni: da una parte l’avanguardia sovietica, sperimentata con passione da Rodchenko, Stepanova, Majakovskij, Osip e Lilja Brik, i registi Vertov e Ejzenstejn (con i quali il fotografo collaborò assiduamente, per disporre graficamente i titoli della kinopravda girata da Vertov o per disegnare le locandine di film), e dall’altra si materializza il set dei tumulti francesi, in uno dei suoi momenti più bui, durante gli anni del Terrore. È Mario Martone con la sua compagnia a portarla in scena al Lac: quel kolossal che è la Morte di Danton ha come controcanto la carrellata di speranze e utopie artistico-sociali espresse dalle immagini di Rodchenko. In entrambi i casi, si assiste alla rottura violenta di un sogno, al deragliamento del «fine» verso il suo soffocamento.
In fondo, Aleksander Rodchenko aveva passato la sua infanzia tra le tavole polverose di un palcoscenico, quando suo padre faceva il trovarobe per il teatro Club russo e lui viveva nell’appartamento sopra lo spazio scenico. Bambino, scendeva a cercare gli oggetti perduti tra le sedie dagli spettatori o a inventarsi racconti fantastici, in solitudine. In seguito, abbandonata la professione di dentista, aveva trovato una strada propria: «Non sono approdato alla fotografia dal nulla; ci sono arrivato quando ero già pittore, grafico e designer». Fra le nuove possibilità che si profilavano all’orizzonte per chi volesse raccontare il mondo moderno, c’erano innanzitutto i contrasti: prospettici, di luci e forme, «angolazioni impensabili, scorci esagerati e trame materiche impietose», come scrisse lo stesso Rodchenko sulla rivista Sovetkoje foto (Fotografia sovietica) nel 1934, anche se il testo verrà pubblicato solo nel 1971.
Ma quella originalità di linguaggio la pagò con espulsioni (l’ultima dal Sindacato degli artisti), critiche feroci e derisioni. Gli ultimi anni della sua vita furono precari e amareggiati («il popolo è stato condotto Dio sa dove», scriverà nel 1943). Ne risentì anche la sua salute e sebbene Stepanova avesse intrapreso negli anni Cinquanta una campagna per la sua riabilitazione creativa, Rodchenko morirà nel 1956. L’anno prima, era stato riammesso tra i membri del Mosskh, la sezione moscovita del sindacato.
Legami poetici
Eppure c’erano stati anni fulgidi nella sua esistenza. Le sue «architetture visive» avevano dato corpo alle copertine della rivista Lef (Fronte di sinistra delle arti), erano state impaginate nei giornali. E, soparttutto, erano state molto amate dal poeta e scrittore Vladímir Majakovskij. Divenuto suo amico fraterno, gli commissionò le illustrazioni del libro Pro Eto (Di questo) che Rodchenko interpretò attraverso una serie di fotomontaggi ironici e rigogliosi, dove la diagonale costruttivista, simbolo di un movimento libero, sarà un elemento fondante. Fu sempre Majakovskij a prestargli i rubli mancanti (trenta) per comprare un ingranditore: solo che poi Aleksandr se lo dovette trascinare fino a casa a piedi perché aveva dimenticato di chiedere qualche soldo in più per il trasporto con una vettura. E il 14 aprile del 1930 toccò proprio a Rodchenko il lavoro più doloroso: fotografare il cadavere del poeta suicida nel suo appartamento.
Scoppia la guerra, con la famiglia è evacuato nella gelida regione di Perm. Dopo il conflitto si trova ancora più emarginato. Tradito dai seguaci di un tempo, lavora a progetti che non verranno mai pubblicati. L’estrema umiliazione giunge nel 1951 quando il sindacato degli artisti lo depenna dalla lista degli iscritti. Alla persecuzione politica si aggiunge la salute malferma: soffre infatti di frequenti attacchi di ipertensione. Nel 1953 muore Stalin. Due anni dopo, ormai alla fine della sua parabola esistenziale, viene riammesso nel sindacato ed espone nella mostra fotografica della Casa dei giornalisti a Mosca. Ma la riabilitazione arriva troppo tardi. Dopo aver lavorato alla grafica del poema di Majakovskij Bene!, dedicato alle imprese della rivoluzione d’ottobre, si spegne, circondato dai pochi amici rimasti e dai familiari, in una notte di dicembre del 1956. 




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