venerdì 18 marzo 2016

La spettacolarizzazione e normalizzazione postmoderna della politica in televisione: una storia

La democrazia del talk show
Edoardo Novelli: La democrazia del talk show, Carocci pagg. 251 euro 18

Risvolto
La politica ha invaso la televisione con un lungo, ininterrotto talk show; la televisione ha contaminato con la sua logica e i suoi linguaggi l’intera scena pubblica. Un’anomalia tutta italiana, non priva di conseguenze per gli attori e le forme della democrazia rappresentativa. Incrociando ricerca d’archivio e dati quantitativi, il libro ripercorre l’evoluzione del talk show politico puro, impuro e ibrido, analizzandone i meccanismi della “messa in scena” e gli effetti. Un percorso che inizia con la televisione pedagogica di Tribuna elettorale e Faccia a faccia, procede con la deriva spettacolare di Bontà Loro e L’Altra campana, per arrivare alle piazze di Samarcanda e Milano, Italia, alla democrazia del pubblico di Funari leader e Braccio di ferro, al racconto della seconda Repubblica proposto da Porta a porta e L’Arena. Sino all’attuale ibridazione del talk show con la rete, esperimenti di una nuova scena pubblica orizzontale e democrazia digitale.

Più show che talk la lunga marcia della politica in tv 

Dalle Tribune anni ’60 alle risse: un libro racconta la trasformazione della democrazia in spettacolo

FILIPPO CECCARELLI Restampa 18 3 2016
Immobili, sorvegliati e senza sorriso apparvero un tempo agli italiani i numi della politica in bianco e nero, s’affacciano adesso dal video pagliacci fin troppo variopinti, maschere con le vene del collo gonfie, macchiette ipnotiche e seriali, signorinelle di bella presenza con altissimi tacchi. Dalla missione pedagogica delle prime Tribune alla copertina di Crozza o agli eroi de “La Gabbia” ci corrono quasi sessant’anni, ma sembrano molti di più, densi come sono di consacrazioni, tele- piazze furibonde, lacrime, proclami, risotti, autoreggenti, bugie, bla-bla, sgarbi assortiti, confessioni indecenti e ora pure sghignazzi social. Si può leggere come l’esito di uno smottamento profondo, cataclismatico,
quest’ultimo libro di Edoardo Novelli, La democrazia del talk show (Carocci). Chi ha fatto a tempo a conoscere l’antica dignità della politica non fatica a trovare qui dolorosi e documentati spunti che confermano lo stravolgimento, l’abbassamento, l’immiserimento arrecati al discorso pubblico da una massa di programmi di grande semplicità produttiva e a basso costo che prima hanno aiutato a crescere e infine si sono mangiati la politica.
Ma per le stesse ragioni ecco che si può accogliere il medesimo libro come una sorta di liberazione da schemi troppo comodamente accusatori. Perché non è tutta colpa dei talk show. Da studioso neutrale, per quanto appassionato, Novelli sostiene che questi spettacoli non mostrano il lato degradante della politica, semmai lo rispecchiano. L’interscambio è così fitto da rendere impossibile qualsiasi separazione. Per cui, al momento, il connubio di parola e spettacolo coincide assolutamente con l’arena pubblica, o quel che resta.
I talk d’altra parte esistono in tutto il mondo, anche se solo in Italia l’offerta è così varia, duttile, rigogliosa e sovrabbondante nel suo rilievo perfino identitario, la commedia più il melodramma. Più che triplicati dopo la fine della Prima Repubblica, 2.758 puntate mandate in onda nell’ultimo trentennio, 450 milioni di telespettatori nel solo mese di novembre 2015, due generazioni di cittadini, pardon, di consumatori televisivi cresciute a pane e talk. E pazienza se al premier Renzi, che è nato e cresciuto insieme ai talk, Ballarò o Piazza pulita non piacciono o se predilige la ribalta di Barbara D’Urso.
Inutile demonizzare il genere, come pure è illusorio ritenere che apra nuovi orizzonti di partecipazione democratica. Resta un dilemma se i talk facciano prendere o perdere voti. Molto più interessante è smontarli, osservarli a ritroso delineando il lungo percorso che attraverso adattamenti, anticipazioni, scenografie, dispositivi scenici e pubblico in studio ha via via cementato politica e tv in unico blocco spettacolare. Da questo angolo visuale gli antenati dei talk senz’altro aiutano a comprendere lo sviluppo. Per cui all’inizio le Tribune imitavano, per così dire, le forme e i contenuti della politica: oratoria da comizio o da aule parlamentari; i leader si sentivano a casa loro; il conduttore era detto “moderatore” e l’eventuale sorpresa spettacolare, tanto malvista dai protagonisti quanto gradita al pubblico, arrivava grazie a quelli che Novelli definisce felicemente “effetti collaterali” (vedi il giornalista che con Berlinguer si portò un pacco di pasta e uno di riso). Programma di snodo, nel 1968, è Faccia a faccia di Aldo Falivena, che allestì per la prima volta un modulo cautamente assembleare. Nel frattempo a Mixer Minoli sperimentava i sondaggi e a
L’Altra Campana Tortora faceva esperimenti di democrazia con l’accensione o lo spegnimento delle luci domestiche.
Ma il vero salto verso il definitivo talk avviene nel 1976, dopo la riforma della Rai, con Bontà loro di Maurizio Costanzo. È qui che si fa strada l’intrattenimento e la politica inizia a cedere sovranità. Dai fatti, l’interesse si concentra sui personaggi. Il primo ospite è Andreotti, la prima domanda è se da bambino tirava i calci sotto il banco. Al posto del Parlamento o della piazza, ecco in scena il salotto, animato da un soave intermediario che si stropiccia sornione i baffi e chiama i “consigli per gli acquisti”.
Ma allo scoccare degli anni 80 già stanno per affermarsi personalità carismatiche — Santoro, Ferrara, Lerner, Funari — destinate ad entrare nella storia della tv e perciò stesso anche in quella politica. Samarcanda mette al centro dell’agenda la primavera di Palermo, le picconate di Cossiga, i referendum di Segni, la società civile; Milano, Italia fa conoscere e rimbombare la Lega; a Mezzogiorno italiano Funari, che viene dal cabaret, fa il tifo per Mani pulite — «Di Pietro, facci sognare! » — e impone l’ideologia popolaresca della “ggente” a milioni di attivisti da divano.
È grazie a questa tv a furor di popolo che la vecchia classe politica non ce la fa più a rappresentare il paese, ma al tempo stesso è aperta la strada a un populismo tendenzialmente plebiscitario. Un tempo amministratori del condominio televisivo e poi graditi ospiti, i politici sono ora imputati. C’è già molto del- la Seconda Repubblica: emotività, istantaneità, drammatizzazione, semplificazione. Il fatto che a raccogliere i frutti sia un imprenditore della tv commerciale, parla da sé, ma non chiude l’impervio percorso dei talk, debitamente lastricato di buone e finte intenzioni.
Porta a porta è tante cose, ma soprattutto un tentativo anche riuscito di normalizzare il modello. In questo senso la firma in differita del “Contratto con gli italiani” celebra il momento più alto e insieme più basso di un macro-genere che a sua volta non ha più confini né limiti, estendendosi a miracoli e delittacci, diete, frivolezze. Quanta acqua sui vetri, e quanti ricordi! L’Arena che beatifica la serie B del Pdl. Il duello fra Berlusconi e Santoro, quello del fazzoletto strofinato sulla poltrona di Travaglio, si apre con la tromba della corrida. Il presidente della Repubblica presenta il suo libro a Che tempo che fa. Il ministro dell’Interno Maroni, avendo a che ridire con un monologo di Saviano a Vieni via con me, replica sì, ma costretto sotto il giogo del format, in piedi, a recitare il suo elenco, con la musichetta di sottofondo.
Non si ha idea, leggendo lo studio di Novelli, delle gag, dei compromessi, delle furbizie, dei lecchinaggi, delle cieche o sorde comparsate, delle luminose o fragorose trovatelle che i talk hanno messo in scena con la degna e imminente ibridazione social. Ma è la politica, dopo tutto, che ha sacrificato le dinamiche profonde della democrazia sull’altare dello show. Era forse inevitabile, anche se ammetterlo magari le avrebbe fatto bene. Per questo in fondo è utile studiare la storia.
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