lunedì 28 marzo 2016

Persistenze dell'antichità nelle forme di conoscenza popolari: etnologia (populista) meridiana

Sud anticoEmanuele Lelli: Sud antico Diario di una ricerca tra filologia ed etnologia, Bompiani «Saggi», pp. 432, euro 19,00

Risvolto
La storiografia ha indagato a lungo sugli scambi intensi del nostro meridione con la civiltà greca classica, eppure mai era stata studiata a fondo la sopravvivenza di quell’influsso nella cultura popolare del nostro tempo. Emanuele Lelli segue le tracce di quell’eredità tra Aspromonte, Lucania e Salento, arrivando a lambire Molise e Sardegna, ritrovando nei racconti degli anziani un mondo di magia e folclore che ha sfidato il tempo: dall’influsso della luna sulla semina al valore simbolico delle parti del corpo; dalle pratiche di guarigione, ai rituali di uccisione degli animali.


Aiuto, l’antichista diventa demologo 
A proposito di «Sud antico» di Emanuele Lelli, da Bompiani. Il sapere occulto dei contadini del Sud rimanda ai testi letterari greco-latini: è la tesi suggestiva di un filologo fattosi ricercatore sul campo 
Giovanni Kezich Manifesto 27.3.2016, 0:05 
Progredisce la tecnologia, le società si trasformano, e di pari passo si adeguano anche le culture, che di questa o quella società dovrebbero essere espressione. Così almeno vuole il nostro indefettibile credo storicista, che contempla una specie di palazzone di vetro a più piani, di cui i singoli popoli occuperebbero via via il seminterrato con la preistoria, poi il piano terra con l’evo antico, e poi il mezzanino con il medio evo, fino al piano nobile, dove ci troveremmo adesso, per procedere, magari in ascensore, fino a chissà dove. Poi però accade che nel traslocare da un piano all’altro, la gente si porti dietro un sacco di valigie inutili, che per qualche motivo non si lasciano indietro. Ecco così le sopravvivenze, le superstizioni, il sapere senza tempo dei proverbi, che ci fanno vedere che il trasloco è stato fatto male, e che a dispetto delle apparenze materiali c’è qualche cosa, in noi, nel nostro mondo, che invece non cambia mai. Impressione questa fortissima che ci assale non appena varchiamo la soglia dell’esotico, e ci rechiamo anche solo da turisti in Grecia, oppure in Turchia o in Giappone, ovunque le ragioni occulte ma del tutto evidenti di una cultura senza tempo, con tutti i suoi arcani, sembrano poter oscurare e obliterare quelle antitetiche del presente storico, con la sua tecnologia globalizzata, le sue urgenze e le sue presunte verità. 
In patria, al contrario, forti della nostra più o meno meditata coscienza della Storia, restiamo spiazzati e irritati da chi venga a fare la stessa cosa e pretenda di raccontarci che gli abitanti della penisola, dai tempi di Pitagora, Porsenna e Cincinnato, a dispetto dei tanti rinascimenti e risorgimenti, non siano in realtà mai cambiati. Rospo difficile da ingoiare per una cultura nazionale che si considera perfettamente contermine ai confini cronologici della nostra lingua, e dunque dichiari di affondare le proprie radici appena mille anni addietro, forse anche meno, e certamente non di più. Ecco perché, da sempre, chi è venuto a raccontarci il Paese come proiezione della classicità greco-romana, ha goduto presso di noi di pessima stampa: dal grande Ruskin, il quale affermava che gli artigiani fiorentini del ferro e della terracotta non sono «eredi degli etruschi», ma «sono etruschi», all’americano Charles Godfrey Leland, amico di Mark Twain, che aveva cercato e forse anche trovato alcune sopravvivenze di età etrusco-romana nel folklore della Romagna toscana (il suo Etruscan-Roman remains in Popular Tradition, London 1892, non è mai stato tradotto dopo la stroncatura del De Gubernatis: incredibile), ai tanti letterati di grido, da D.H. Lawrence a Norman Douglas, da Axel Munthe a Matthew Spender, per citare quattro anglofoni del Novecento che cercarono l’anima italiana in un tempo profondo, in un’identità senza storia: per lo storicismo post-risorgimentale di cui siamo ancora intrisi, una vera e propria bestemmia, da esorcizzarsi con un sorriso a fior di labbra. 
Sulla stessa strada si mette però oggi con baldanza Emanuele Lelli, giovane classicista romano autopromossosi incursore demologo, che approda alla medesima indigesta conclusione: il sapere occulto dei contadini del sud, quello dei proverbi e delle superstizioni, rimanda direttamente al mondo greco-romano trapassato, al punto da poter utilizzare le suggestioni emerse dalle interviste sul campo per spiegare non pochi punti oscuri dei classici di tradizione ellenistica, romana e bizantina, da Callimaco a Teofrasto, da Teocrito a Eliano, da Varrone a Petronio, da Plutarco ai Geoponica e a infiniti altri, che a loro volta costituirebbero il fondale vero del ricco sapere proverbiale ancor oggi esibito, giorno dopo giorno, nella nostra ruralità meridionale.
L’idea è ardita, e sufficientemente controcorrente nella nostra tradizione demologica prevalentemente e pure cupamente storicista, da spingerci ad attingere con qualche avidità al libro appena uscito: Sud antico Diario di una ricerca tra filologia ed etnologia (Bompiani «Saggi», pp. 432, euro 19,00). Con crescente stupore, tuttavia, dobbiamo prendere atto che l’autore, che si muove nella selva dell’erudizione classica con invidiabile agilità di scoliasta, non dispone invece di alcun particolare dono di scrittura che lo apparenti anche di lontano ai grandi rapsodi novecenteschi del nostro mezzogiorno folklorico, a cominciare da Levi, Scotellaro e De Martino. Palesemente mal consigliato, Lelli decide nondimeno, a seguito di opere più strutturate (come il precedente Folklore antico e moderno. Una proposta di ricerca sulla cultura popolare greca e romana, Serra 2014), di pubblicare il proprio diario minuto di ricerca, regesto necessariamente pedestre dei fatti e fatterelli di cui si compone l’ordito quotidiano di qualsiasi viaggio demologico. Così, in un’elencazione monocorde di incontri aggettivati ma indistinti con questo o quell’anziano di paese, con questo o quel vicesindaco o funzionario di Pro Loco, tra una granita in piazza e qualche desinare rusticale sotto la pergola, tra una guidata estenuante sull’autosole e qualche riposino ristoratore che ci vengono via via propinati con il candore disarmante del neofita, il senso ultimo del lavoro perde di incisività e di mordente, mentre ci troviamo interdetti, nell’impossibilità di mettere a buon frutto sia l’eccellente impianto bibliografico, sia le note, purtroppo relegate in fondo a ciascun capitolo, e che sono la cosa migliore del libro, vera miniera di utili nozioni di «demofilologia», che però l’assenza di un indice analitico rende di fatto inconsultabili. 
Questo è un peccato, perché nelle conclusioni del libro, tra molte evidenti ingenuità, si formulano anche alcune interessanti ipotesi sulla persistenza ancora riconoscibile nel folklore meridionale di un’area di fondo greco, che riguarderebbe un areale più ampio della sola Grecìa linguistica salentina e calabrese, di contro a un’area a prevalente fondo romano, che si estenderebbe nella fascia centrale che va dagli Abruzzi alla Sardegna, lasciando fuori – e chissà perché? – le regioni del nord. Intuizioni impegnative e anche ampiamente discutibili, che necessiterebbero anche in ambito divulgativo di un’illustrazione chiara ed esaustiva del metodo di ricerca e dei suoi esiti asseverabili e concreti, per i quali veniamo rimandati al già citato studio del 2014 (ma la reperibilità e il prezzo lo destinano ai soli iniziati). 
Il carattere episodico, capriccioso, e quasi sempre completamente inafferrabile del sapere proverbiale e della superstizione ominosa – quella che, attraverso il gioco occulto di sincronicità e di simbolismi incrociati, convince gli uomini di poter affacciarsi sul futuro, e di poter sentire il respiro dell’aldilà – è sempre stato la bestia nera del lavoro dell’acchiappafarfalle demologo. Il quale non dovrebbe però mai abbassare la guardia, e anzi, proprio per non veder sprofondare il proprio oggetto nel pantano dell’aneddotica e delle banalità quotidiane, dovrebbe essere in grado prima o dopo di ricondurre, con il metodo e la costanza che gli sono propri, le manifestazioni frammentarie ed episodiche di questi saperi alla ferrea logicità metastorica che è propria delle culture dell’uomo, sondandone nel mentre la specifica storicità. Una visione complessiva, strutturata nei suoi presupposti etici ed epistemologici, che non sarà necessariamente oziosa: sulla voragine spalancata del futuro, con l’imminente melting pot dell’omologazione globale, non sarà disutile continuare a valutare i relativi meriti e i punti di vista diversi delle diverse culture, e continuare a mettere a confronto, quale viatico elementare per la comprensione del presente, le ragioni della Storia, di contro a quelle senza tempo proprie di ogni cultura.

Per tradurre i classici latini e greci basta chiedere ai vecchietti del Sud
In un viaggio nel Mezzogiorno il filologo Lelli ha ritrovato credenze, costumi e proverbi degli antichi ancora vivi nella memoria degli anziani. E così ha chiarito vari passi oscuri
Libero 22 Apr 2016 MISKARUGGERI
Comparare i testi greci e latini con le tradizioni popolari odierne, le battute dei personaggi di Petronio con gli attuali usi siciliani o campani, le credenze e le superstizioni antiche con il folklore moderno, rappresenta un interessante filone di indagine, capace anche di risolvere problemi testuali ed esegetici illuminando passi rimasti finora oscuri. Perché, pur nel trascorrere dei secoli, la cultura “materiale” del nostro Mezzogiorno è spesso e volentieri rimasta immutata. Lo dimostra bene Emanuele Lelli, studioso di poesia ellenistica, della tradizione paremiografica greca e della cultura popolare antica e moderna che affronta con un approccio “demofilologico” in grado di unire etnografia e filologia classica, nel suo saggio Sud antico. Diario di una ricerca tra filologia ed etnologia (Bompiani, pp. 432, euro 19), risultato di due anni di viaggi attraverso l’intero Meridione, dall’Abruzzo giù giù all’Aspromonte greco, senza trascurare neppure Sicilia e Sardegna, per intervistare o far rispondere a questionari centinaia di contadini e pastori ultrasettantenni in paesini sperduti.
Davvero numerosi e sorprendenti gli accostamenti anticomoderno rintracciati. Dalla ritualità del lamento funebre alle pratiche magiche relative al mestruo, dai “segni” per i pronostici atmosferici a quelli apotropaici, dal binomio simbolico destra (positiva)-sinistra (negativa) o pari (negativo)-dispari (positivo) allo starnuto beneaugurante, dalla fascinazione negativa di civette e barbagianni (il cui canto è messaggero di morte) alle bugie che fanno spuntare bollicine sul naso (già in Teocrito e ancora a Gallicianò), dalle maledizioni rivolte ai figli dalle madri con il seno denudato (un gesto descritto da Eschilo nel V sec. a.C. e vivo nella memoria di un paese sardo del XXI secolo) alle mostruose creature femminili che rapivano i bambini, dalla foglia di papavero schioccata come presagio d’amore alle varie pratiche simpatetiche. E l’elenco potrebbe continuare a lungo. In alcune zone sembra proprio di essere ancora nella Magna Grecia (e del resto fino al XIII secolo gran parte dell’Italia meridionale è stata bizantina), con i divieti ominosi di Pitagora tuttora in vigore.
In Calabria il ricordo dell’usanza di far mangiare una placenta canina a un cane per renderlo fedele chiarisce il dialogo teocriteo sull’amore tra Milone e Buceo (Idilli, 10, 11). Buceo chiede: «Non ti è mai capitato di non chiudere occhio per amore?». E Milone risponde: «Non mi capiti mai! Chalepòn chorìo kyna géusai (È pericoloso far assaggiare la placenta a un cane!)». Un’espressione finora interpretata in vari modi, in quanto il termine chórion veniva inteso come “salsiccia” o “prelibatezza” sulla scorta degli autori comici. E invece la testimonianza orale grecanica rivela il senso del testo: un inesperto d’amore (il “cane”) non riuscirebbe più a staccarsi da una donna (la “placenta”) dopo averla provata.
A Bova un anziano risolve un problema aperto fin dalla scoperta del papiro che ci ha restituito i Mimiambi di Eronda. Nel primo miniambo della raccolta la mezzana Gillide cerca di convincere una sposa virtuosa, Metriche, ad approfittare dell’assenza del marito per godersi la vita. La scena si apre con Gillide che bussa alla porta di Metriche, la cui schiava va ad aprire e riferisce della visita. «Rovescia qualcosa, schiava!», le ordina allora la padrona di casa. In greco, strépson ti. Una battuta tradotta in mille modi: «Allontanati», «vattene», «scòstati un po’»... E invece il valore genuino è quello di un gesto apotropaico in cui il “rovesciare” esprime il senso di una visita inaspettata: «Se viene qualcuno che non veniva da tanto tempo, si dice: “Compare, da quanto tempo! Rovescio una cosa!”. Quello che capita: una pietra, un bicchiere, un piatto, una sedia».
In Sicilia si ritrovano testimonianze della pratica rituale nota come couvade (dal comportamento “materno” del maschio di alcune specie di volatili) e attestata da Apollonio Rodio, Diodoro Siculo e Strabone: il marito, fingendo le doglie del parto, si sostituisce simbolicamente alla partoriente attirando su di sé eventuali influssi negativi.
In Campania, nella terra degli Aurunci, si racconta un aneddoto sull’avidità di chi cerca ricchezze. Un tale aveva scoperto nel bosco una pietra pesantissima che celava di certo un tesoro, dato che recava la scritta «Beato chi mi gira». Ma una volta rovesciata, con immani fatiche, invece di oro e gioielli era apparsa un’altra scritta: «Beato chi m’ha girato». Un racconto che ha molte analogie con la storiella tramandata da Plutarco

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