mercoledì 20 aprile 2016

50 anni di "Dialettica negativa"




Theodor Adorno oltre i limiti della Ragione 
Eredità teoriche. A cinquant’anni dall’uscita la «Dialettica negativa» di Theodor Adorno può fornire elementi per lo sviluppo di un pensiero critico che eviti le sabbie mobili di un generico decostruttivismo e le insidie del materialismo naturalistico

Stefano Petrucciani Manifesto 19.4.2016, 0:30 
Ci sono ancora dei buoni motivi per leggere oggi, a cinquant’anni dalla sua pubblicazione nel 1966, la Dialettica Negativa di Theodor W. Adorno? Per rispondere a questa domanda bisogna innanzitutto capire che tipo di opera filosofica sia quella Dialettica che il filosofo francofortese compose negli ultimi anni della sua vita (nato nel 1903, sarebbe infatti scomparso, per un infarto, nell’estate del 1969). Con la Dialettica negativa Adorno, che comincia a lavorarci all’inizio degli anni Sessanta, si autoimpone una sfida molto difficile: quella di dare finalmente una forma compiuta al suo proprio punto di vista filosofico, che fino ad allora non era mai stato espresso in modo pieno ed esauriente. Sebbene fosse uno scrittore assai prolifico, infatti, Adorno non aveva mai dato alla sua propria teoria «speculativa» una forma compiuta: aveva scritto moltissimo di musica e di critica sociale, aveva pubblicato con Max Horkheimer (nel lontano 1947) quel grande libro del Novecento che è Dialettica dell’illuminismo, ma sul piano squisitamente teoretico non era mai arrivato a un approdo definitivo. 
Certo, aveva detto molte cose importanti nel suo libro su Husserl (Metacritica della gnoseologia), che era uscito nel 1956 dopo una elaborazione trentennale, ma non aveva mai svolto la sua filosofia in prima persona. 
Adorno perciò vedeva la Dialettica come la sua summa filosofica (che scherzosamente chiamava la sua «bambina grassa») insieme alla Teoria estetica che non sarebbe riuscito a finire e che sarebbe apparsa solo dopo la sua morte. La vedeva come il libro che non poteva fare a meno di scrivere, ma che lo metteva di fronte a grosse difficoltà e a uno sforzo assai impegnativo. In una lettera del 1965 confidava a Herbert Marcuse che ciò che scriveva oggi finiva spesso per disfarlo domani, e che la composizione della Dialettica produceva talvolta su di lui un vero effetto di prostrazione. Nel libro questa fatica si vede: c’è la forte volontà di definire il proprio lascito filosofico, ma l’impresa non riesce sempre in modo perfettamente rotondo. Anche perché nella Dialettica traspare un’altra grande e difficile ambizione adorniana: cioè quella di trasformare non solo la filosofia, ma anche la lingua attraverso cui il pensiero si esprime. Partendo dalla convinzione che il modo in cui un pensiero viene espresso non è meno importante, né separato, dal suo contenuto. E cercando quindi un tipo di esposizione filosofica che abbia un tasso di innovazione non diverso da quello che aveva caratterizzato le grandi esperienze dell’avanguardia artistica del Novecento, che per Adorno restano sempre fondamentali (dal romanzo di Kafka alla musica atonale di Schoenberg, per citare solo due esempi emblematici). 
Le parole del pensiero 

Dialettica negativa è dunque un’impresa filosofica molto complicata. È importante, però, perché riesce a stare dentro la grande temperie filosofica del Novecento, affrontandola da un punto di vista fortemente personale. Sappiamo bene che tra gli obiettivi della Dialettica negativa c’era quello di «distruggere Heidegger», che nella prima parte del testo viene attaccato in modo frontale. Sappiamo anche che questa distruzione non ha avuto successo, almeno a giudicare dalla fama e dal credito di cui la filosofia heideggeriana tutt’ora gode. Ma il punto che non si può non vedere, al di là di questa polemica, è che Adorno, Heidegger e Wittgenstein prendono in qualche modo di mira un medesimo problema: lo sforzo di misurarsi, dopo Nietzsche e dopo il crollo dei sistemi metafisici, con i limiti del pensiero, con ciò che esso non riesce ad afferrare. Heidegger pensa questi limiti come la inoggettivabilità e abissalità dell’Essere. Wittgenstein si scontra continuamente con il problema dei limiti del linguaggio. In Adorno questa problematica si raccoglie sotto uno dei concetti più difficili e ricorrenti di Dialettica negativa, quello del Non-identico. 
La «colpa» del pensiero filosofico tradizionale, e dell’idealismo che ne rappresenta la linea egemone, è quella di avere spacciato come realtà quel mondo che noi strutturiamo e organizziamo ai fini del dominio su di esso – un dominio che in ultima istanza è sempre solidale con il dominio dell’uomo sull’uomo che si perpetua nella società. Per uscire dal cerchio magico il pensiero deve prendere atto delle sue compromissioni col potere sociale; deve rinunciare alla sua sovranità e acquisire la coscienza dei propri limiti e del carattere paradossale della sua impresa: cercare di decifrare con concetti la realtà non concettuale (il Non-identico, appunto) senza che questa decifrazione la snaturi, la riduca a semplice specchio del pensiero identitario che se ne appropria. 
Ma la questione davvero interessante che qui si apre è se (o in che misura) la radicale autocritica del pensiero in cui la Dialettica negativa consiste possa condurre in una direzione decostruttiva, terminando quindi in sintonia con le tanti voci del differenzialismo postmoderno. In questo modo Adorno è stato letto, per esempio, da Jürgen Habermas, secondo il quale l’autocritica della ragione in quanto compromessa col dominio non poteva dar luogo ad altro che ad esiti autodistruttivi. 
Un rigore critico 
In realtà però, dall’opera adorniana, con tutta la sua complessità e il suo carattere non risolto, non si possono trarre esiti come quelli che Habermas denuncia. Ciò che distingue radicalmente il pensiero dialettico di Adorno dal successivo pensiero decostruttivo o differenzialista è il fatto che per il maestro francofortese il ragionamento teorico resta ancorato ad un suo rigore che non può mai venire meno: la critica della ragione è operata dalla ragione stessa, con ragionamenti stringenti che non aprono il varco ad una prospettivistica pluralità delle interpretazioni. 
A conferma di ciò si può ricordare che, pur nella sua problematicità, la Dialettica negativa difende e articola un ben preciso orizzonte teorico, che Adorno si ostina a definire «materialistico»; il che la rende incompatibile con ogni tipo di decostruttivismo. Ma il materialismo pensato da Adorno (che lui definisce «primato dell’oggetto») è molto più sofisticato di quello appartenente alla tradizione marxista. 
Adorno infatti riconosce perfettamente, con tutte le epistemologie postkantiane o costruttivistiche, che non vi è nessun accesso diretto alla realtà, che essa è strutturata e organizzata secondo prestazioni mentali o schemi categoriali. Non c’è alcuna oggettività che non sia mediata dal soggetto, che non sia una interpretazione. Ma da questo non si può trarre la conseguenza che la realtà sia solo una nostra interpretazione. 
Il primato dell’oggetto 
Bisogna guardare infatti anche l’altro lato, quello su cui ha insistito il materialismo: il soggetto che interpreta il mondo è, a sua volta, un elemento del mondo oggettivo; è producente, ma è anche il prodotto dei processi naturali e storico-sociali attraverso i quali si è costituito. L’uomo crea il suo mondo, ma il mondo crea l’uomo, e il pensiero, e il soggetto interpretante. L’idealismo rimanda al materialismo e viceversa. 
In questa dinamica apparentemente circolare soggetto e oggetto non pesano allo stesso modo. Al lato del materialismo appartiene, secondo Adorno, un peso maggiore, un «primato», per una ragione molto semplice: «L’oggetto può essere pensato solo dal soggetto, ma rimane sempre, nei suoi confronti, un Altro; il soggetto è invece sin dall’inizio anche oggetto in base alla sua costituzione. Il soggetto non è pensabile senza l’oggetto nemmeno idealmente; l’oggetto senza il soggetto invece sì». Uno degli elementi di attualità di Adorno potrebbe essere proprio quello per cui egli, con la sua dialettica, cerca una sensata «terza via» tra le posizioni che oggi si contendono il campo: da un lato quelli per cui «non esistono fatti, ma solo interpretazioni», dall’altro i fautori di un materialismo «naturalistico» che oggi sta tornando di moda.


Eredità teoriche. La "Dialettica negativa" è l’approdo di un percorso filosofico 

Gianpaolo Cherchi Manifesto 19.4.2016, 0:29 
Fornire un resoconto sul lascito teorico di un’opera come Dialettica Negativa, in cui convergono le riflessioni e le tensioni speculative dell’intera percorso filosofico di Adorno, non è un’impresa semplice. Le difficoltà sono imputabili ad Adorno stesso: la voluta mancanza di sistematicità argomentativa lascia il lettore con l’impressione che le risposte teoretiche decisive vengano puntualmente eluse e rinviate; l’oggettiva oscurità del suo linguaggio, d’altra parte, se da un lato rende il suo discorso suggestivo e seducente, dall’altro lo fa apparire come un qualcosa di enigmatico, come una pratica esoterica accessibile ai soli iniziati. 
Tali difficoltà hanno pertanto influenzato la ricezione dell’opera adorniana, troppo spesso caratterizzata da contributi teorici che si limitano a reiterarne i concetti e le argomentazioni nello stesso linguaggio e nelle stesse forme, o che appiattiscono la riflessione del francofortese sulle tematiche della teoria critica, facendo di Adorno un «banale» critico della società industriale e dei suoi aspetti ideologici. Tutto ciò ha altresì riacceso il sospetto (assai comune fra i suoi detrattori) di una connaturata incapacità di Adorno di saper trasformare le proprie intuizioni e suggestioni in argomentazioni dettagliate e trattazioni sistematiche, quasi autocondannandosi a rimanere incagliato in formulazioni paradossali e spesso autocontraddittorie. Ma Adorno era in realtà capace di ben altro. 
Se un certo livello di paradossalità è innegabile, e se è vero che il progetto adorniano è caratterizzato da una sorta di «delusione teoretica» dovuta alla frammentarietà della sua esposizione e alla mancanza di un punto di approdo, è altrettanto vero che di tale incompletezza Adorno stesso era il primo ad esserne consapevole: «La filosofia» – si legge nell’incipit della Dialettica Negativa – si mantiene in vita proprio perché è stato mancato il momento della sua realizzazione». È, anzi, proprio l’idea di una compiuta realizzazione della filosofia a rappresentare, per Adorno, una prospettiva nefasta e minacciosa. Il trionfo di una filosofia che sia in grado di realizzare pienamente e perfettamente il proprio progetto, che sia capace di porre una parola ultima sul reale condannerebbe, infatti, la realtà stessa alla chiusura, all’immobilità, all’accettazione dello status quo, all’impossibilità di esprimere una dimensione altra, nuova, diversa. Una filosofia pienamente realizzata, un pensiero che abbia instaurato un rapporto di piena identità con la realtà, sarebbe pertanto un pensiero morto, che andrebbe contro l’evidenza empirica di una realtà percepita come mutevole, in continuo divenire. Una filosofia giunta al suo compimento sarebbe così incapace di aprirsi alla dimensione della possibilità, impotente nell’esprimere quelle tensioni utopiche che reclamano una condizione di esistenza differente rispetto a quella attuale. 
Ed è allora nel mantenimento del momento dell’apertura che si determina la reale posta in gioco, non solo teorica ma anche pratica, della Dialettica Negativa: una dialettica certamente inconclusa e irrisolta, inconciliata, ma che proprio in virtù di questo suo carattere «aperto» mantiene il pensiero nella dimensione della contraddizione, lo costringe a pensare contro sé stesso, tenendo viva la criticità nei confronti dell’esistente; un pensiero che, lasciando irrisolte le contraddizioni, tiene aperte quelle crepe che non sono altro che spiragli dai quali è possibile l’emersione della diversità, di una vita altra, differente. 
Perciò è intorno ai temi dell’alterità, della differenza, del non-identico che si svolge la posta in gioco della Dialettica Negativa, che si determina il suo lascito e la sua influenza, a distanza di mezzo secolo dalla sua pubblicazione. Da questo punto di vista l’attualità di Adorno si mantiene viva in quella grande costellazione di approcci teorici quali il post-colonialismo, il decostruttivismo, i gender studies, la spatial turn. Approcci che se da un lato hanno sancito la fine della «teoria critica» intesa come una dottrina organica, sistematica e coerente, dall’altro, proprio in virtù di questa frammentazione e dispersione disciplinare, hanno reso possibile la sua declinazione sotto molteplici aspetti e sotto svariati punti di vista, ampliandone pertanto gli orizzonti di discorso e la portata teorica. 
E a confermare l’immutata importanza di Adorno nel panorama del pensiero critico odierno, si terrà un importante convegno in Turchia alla Bogazici University di Istanbul dal 2 al 4 giugno prossimo, la prima «Critical Theory Conference», alla quale prenderanno parte esperti di Adorno di fama internazionale, quali Susan Buck-Morss, Seyla Benhabib, Maeve Cook e Jay M. Bernstein. Si tratta di un evento importante non solo perché celebra il cinquantenario della pubblicazione della sua opera più importante, ma perché orienta per la prima volta la traiettoria emancipativa del pensiero di Adorno al di fuori del mondo occidentale, e il suo approccio poliedrico fornisce una risorsa eccellente per mettere in discussione alcune delle questioni più urgenti della realtà sociale e politica attuale. Appare chiaro, pertanto, il bisogno di rivalutare il pensiero del teorico di Francoforte, al fine di tracciare nuovi percorsi possibili e aprire nuove prospettive in questo stato permanente di crisi sociale e politica dei nostri tempi.

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