domenica 3 aprile 2016

A credere nel Berlinguer "rivoluzionario" è rimasto ormai solo Antonio Socc'mel. Ancora il libro di Finetti


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Il vero Berlinguer: più rosso di così non si può 
Finetti svela l’ortodossia com unista del leader fino alla m orte: giustifica il golpe in Portogallo, crede ai successi del socialism o, solidarizza col Pcus, condanna la Biennale del dissenso, am m ira Kadar... 
3 apr 2016 Libero ANTONIO SOCCI 
(...) ha represso gli scioperi del dicembre 1970 facendo sparare sugli operai. Le mummie comuniste del Cremlino fanno fronte al dissenso interno - oltre che con i lager - inventando i «manicomi politici». 
Ugo Finetti ricostruisce nel suo volume Botteghe Oscure. Il Pci di Berlinguer e Napolitano ( Ares, pp. 320, euro 15) cosa accade nel Partito comunista - guidato da Enrico Berlinguer - dopo che, il 12 febbraio, Solgenitsyn viene arrestato ed espulso dall’Urss come «diffamatore della patria» e «marionetta al servizio del fascismo e della reazione». 
Scrive Finetti: «Il Pci prende quindi le distanze dalle posizioni di Solgenitsyn. È Giorgio Napolitano, come responsabile culturale, a esprimere pubblicamente la posizione del Pci. “Noi”, scrive sull’Unità, “certo non sottovalutiamo la natura di grave misura restrittiva dei diritti”. Napolitano rimprovera però allo scrittore un atteggiamento di sfida allo Stato sovietico e alle sue leggi, di totale contrapposizione, anche nella pratica, alle istituzioni”. “Solo commentatori faziosi e sciocchi”, lamenta Napolitano, “possono prescindere dal punto di rottura cui Solgenitsyn aveva portato la situazione”». 
È significativo che a scrivere queste cose - obiettivamente imbarazzanti - sia stato Giorgio Napolitano che, dal libro di Finetti, emerge di gran lunga come il politico più illuminato, più “liberale” e saggio del Pci di quegli anni. Questo dice quanto il Pci fosse impastato con il comunismo internazionale e quanto Napolitano abbia (sempre) mancato di coraggio. 
In effetti, la cosa più sorprendente che si scopre dal libro di Finetti - un’analisi fredda e oggettiva dei verbali (finora inediti) dei vertici del Pci - è la confusione politica della leadership di Berlinguer che appare così contraddittoria e velleitaria da far giganteggiare Napolitano come suo antagonista. 
Finora la figura di Berlinguer è stata avvolta da una certa mitologia. Se la sua vicenda politica verrà riletta con oggettività e laicità (e il libro di Finetti è un primo passo) si capirà quanto e perché la sua ortodossia comunista e la sua ossessiva ostilità a Craxi abbiano condannato il Pci ad andare a schiantarsi sul Muro di Berlino nel 1989 (con pessime conseguenze, anche per il nostro Paese). 
Non tratto qui il secondo aspetto (relativo a Craxi), ma voglio segnalare - tratti dal libro di Finetti - alcuni fatti relativi all’ortodossia comunista di Berlinguer che ci portano fuori dall’agiografia e ci aprono gli occhi sulla verità storica. 
Ne elenco alcuni. Dopo il “caso Solgenitsyn”, nell’aprile 1975 in Portogallo prendono il potere dei militari di estrema sinistra che, con l’appoggio del Pc portoghese, estromettono dal governo i socialisti e sciolgono la Democrazia cristiana. Proprio in quei giorni in Italia si apre il XIV Congresso del Pci e - scrive Finetti - «nella relazione introduttiva Enrico Berlinguer non ha parole di condanna». Infatti chiama il golpe rosso «processo politico assai complicaEnrico Berlinguer, segretario del Pci dal 1972 alla m orte avvenuta nel 1984, durante un com izio. A sinistra, la copertina del libro di Ugo Finetti to», per poi respingere gli attacchi di «giudici altezzosi e ipocriti della condotta delle forze antifasciste portoghesi più conseguenti che cercano le vie per impedire il ritorno della reazione». 
Lo stesso Paolo Spriano ricorda che a quel congresso delegati e dirigenti del Pci salutarono «con una ovazione» il rappresentante del Pc portoghese, il quale «nel suo intervento difende il colpo di stato dei militari di sinistra» (Finetti). Solo nelle conclusioni Berlinguer prende un po’ le distanze. 
Quanto ai regimi comunisti dell’Est, Berlinguer afferma: «Il dato fondamentale è che in tutti i Paesi socialisti si è registrato e si prevede un forte sviluppo produttivo... È ormai universalmente riconosciuto che in quei Paesi esiste un clima morale superiore (...). È un fatto: nel mondo capitalistico c’è la crisi, nel mondo socialista no». È appena il caso di ricordare che i regimi comunisti in quegli anni stavano affondando nella corruttela generalizzata, nella più brutale repressione e le loro economie erano ormai al collasso: la gente faceva la fame. 
Apparve come un fatto storico, nel 1976, la frase detta da Berlinguer, per accreditarsi, nella celebre intervista a Gianpaolo Pansa: «Mi sento più sicuro stando di qua» (cioè sotto l’ombrello della Nato). Ma nelle stesse ore egli attaccò le socialdemocrazie, dove resta «l’alienazione» del capitalismo, mentre se «pure nelle società socialiste c’è forse ancora una forma di alienazione (...) là i lavoratori non si sentono più degli sfruttati». Infatti erano direttamente degli schiavi. 
Il 29 e 30 giugno 1976, alla Conferenza dei partiti comunisti a Berlino Est, Berlinguer «evita di tornare sull’accettazione della Nato e ribadisce la condanna delle “vie seguite dalla socialdemocrazie”». Poi sottoscrive il documento finale che solidarizza con il Pcus di fronte alle «campagne contro i partiti comunisti, contro i Paesi socialisti, a cominciare dall’Urss». 
Nel 1977 la Biennale - che negli anni precedenti era stata dedicata alla «Libertà in Cile» e alla Spagna liberata dal franchismo - fu dedicata al «Dissenso culturale nell’Urss e nei Paesi dell’Est». Si scatenò il finimondo. «Il Pci condanna l’iniziativa», scrive Finetti, «e i direttori della sezione teatro, Luca Ronconi, e arti visive, Vittorio Gregotti, si rifiutano di collaborare al programma sul “dissenso” dimettendosi». Il socialista Carlo Ripa di Meana, presidente della Biennale, che difende l’iniziativa, «registra una ostilità ben oltre l’area comunista: anche il direttore democristiano della sezione cinema si dimette», ricorda Finetti, «e negano spazi, documenti e collaborazione Rai, Rizzoli, Casa Ricordi, l’Università Ca' Foscari e la Fondazione Cini presieduta dal repubblicano Bruno Visentini. È significativo», conclude Finetti, «che sul piano politico in questa vicenda regge l’asse PciDc-Pri che in Parlamento blocca il rifinanziamento della Biennale» . 
a allora «la posizioneD di Berlinguer sarà sempre più tiepida di fronte alle repressioni sovietiche tanto che a proposito del modo in cui il Pci reagisce alla condanna dei dissidenti sovietici Sharanskij e Ginzburg il Corriere della Sera - il 12 luglio 1978 - titola: “C’è ancora l'eurocomunismo?”». 
A mettere in dubbio l’affidabilità occidentale del Pci fu anche la sua opposizione agli euromissili che la Nato decise di installare in risposta agli SS20 sovietici. Restava dunque insormontabile il «fattore K». Berlinguer, al XV Congresso, nella primavera del 1979, replicò ai critici: «Non abbiamo alcuna intenzione di rinnegare o sminuire i legami storici che il nostro partito ha con la rivoluzione d’Ottobre e con l’opera di Lenin». Non solo. «L'avversione nei confronti del “papa polacco” in nome del Concilio è una costante del Pci degli anni ’80», ricorda Finetti. 
È vero che per il golpe polacco del 12 dicembre 1981, che spazza via Solidarnosc, il Pci formulerà una dura condanna e Berlinguer parlerà di esaurimento della «spinta propulsiva» della rivoluzione d’Ottobre. Ma c'è un “dettaglio” che fa riflettere. Finetti nota come «già il 28 gennaio 1981 il Pci sia a conoscenza del colpo di Stato che si sta preparando in Polonia». E «il Pci di Berlinguer - da allora fino al colpo di Stato di dicembre - non ritenne opportuno attivarsi per denunciarlo. In quel gennaio 1981 il leader del sindacato polacco Lech Walesa è a Roma. Nessun colloquio con esponenti del Pci». 
Non è stupefacente? Finetti aggiunge: «Ancora nel 1983 alla domanda “Quale uomo stima di più in campo internazionale?”, il leader del Pci non guarda certo a Willy Brandt o a Olof Palme. Risponde: “Un tempo avrei detto Tito o Ho Chi Minh, oggi non saprei. Stimo Kadar”». È colui che andò al potere in Ungheria dopo l’invasione sovietica.

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