mercoledì 13 aprile 2016

Ai margini della storia: la zona grigia trasversale nella guerra di Liberazione

Carlo Greppi: Uomini in grigio, storia di gente comune nell’Italia della guerra civile, Feltrinelli, pp. 377, € 29

Risvolto
Gino ha undici anni e della guerra sa solo che porta la fame, e che quando arrivano gli aerei si scappa in cantina. L'emigrato Italo vive a Parigi, si è sposato da poco ed è felice, ma stanno arrivando i tedeschi, e con loro le cacce all'uomo. Ben poche delle persone investite dalla guerra in casa furono senza dubbio carnefici, o divennero vittime senza scampo. La verità è che tutti cercarono, ogni giorno, di prendere decisioni e di sopravvivere in un contesto sempre più difficile, in una dimensione esistenziale che non può coesistere con facili schematismi, ma è immersa nel grigio della nebbia morale. Come hanno fatto loro i conti con quel passato? E come li abbiamo fatti noi? L'Italia dei venti mesi di guerra civile (1943-1945) è tutt'oggi un campo di battaglia storiografico. Le responsabilità, gli eroismi, le ragioni e i torti occupano ancora molta letteratura storica e divulgativa. Gli occhi sono puntati sui nazisti, oppure sugli ebrei, oppure sui partigiani. Con questo libro, Carlo Greppi compie un'operazione del tutto originale e riesce a spostare la questione al di fuori del terreno consueto, impostando la sua ricerca alla scoperta del vissuto, delle storie e delle vite degli "uomini in grigio", cercando di restituire al lettore una visione non deformante di quel momento storico. Un modo nuovo di scrivere la storia. Il periodo più buio dell'Italia novecentesca. E una domanda: cosa sarebbe stato ciascuno di noi sotto la Repubblica di Salò? 
Quelli che tra il Duce e la Resistenza aspettavano che passasse la “nuttata” Un libro di Carlo Greppi apre squarci di luce sulla “zona grigia” e le sue strategie di sopravvivenza 

Giovanni De Luna Busiarda 13 4 2016
Arriva la polizia e si porta via il vostro vicino. Può essere un ebreo, un partigiano, uno qualunque. Vi siete mai chiesti cosa avreste fatto se, tra il 1943 e il 1945, nell’Italia occupata dai tedeschi, vi foste trovati anche voi in una situazione di questo tipo? Avreste applaudito ai carnefici? Cercato di aiutare le vittime? O avreste «guardato», scrutato da una finestra, aspettando la fine della guerra convinti che il vostro ruolo sarebbe stato sempre e comunque quello di «spettatori»?
La ricerca dell’anonimato
In quei due anni, milioni di persone hanno vissuto aspettando che la «nuttata» passasse, schiacciate tra il consenso e la paura, tra il coraggio e la vergogna di «vivere tempi che sarebbero stati giudicati». Sono gli uomini e le donne che popolano una zona grigia sospesa tra le vittime e i carnefici; un pezzo di umanità che è certamente esistita ma che, dal punto di vista storiografico, ha assunto i contorni incerti di una nebulosa difficile da decifrare. I carnefici hanno lasciato una documentazione sterminata delle loro nefandezze; le vittime anche, delle loro sofferenze. Ma gli spettatori? Non uno slancio di protagonismo, una impennata: solo la ricerca ostinata di un anonimato destinato a non lasciare tracce, a nascondere, a mimetizzare.
Alla «zona grigia» è dedicata una parte de I sommersi e i salvati di Primo Levi (che ne sottolinea «il contagio di un potere che cerca complicità anche tra i perseguitati»); la «zona grigia» di quelli che «non scelsero» da che parte stare è stata celebrata da uno storico come Renzo De Felice ed è stata esaltata dalla pubblicistica revisionista; sulla «zona grigia» erano calati gli anatemi dei partigiani combattenti che ne sottolineavano un opportunismo e una viltà di fondo. Pure, in tutte queste definizioni restava sempre qualcosa di inafferrabile, dovuto proprio all’assenza di tracce documentali, testimonianze dirette in grado di forzare una pesante cappa di silenzi e dissimulazioni.
Vittime e carnefici
Ora un giovane storico italiano, Carlo Greppi, ci ha provato con un libro coraggioso e innovativo, Uomini in grigio, storia di gente comune nell’Italia della guerra civile (in uscita domani per Feltrinelli, pp. 377, € 29), che apre ampi squarci di luce in quella nebulosa. I documenti sui quali si fonda la sua ricerca sono i fascicoli dei processi avviati contro i collaborazionisti nei giorni immediatamente successivi al 25 aprile 1945. In passato questi archivi erano stati esplorati soprattutto in chiave giudiziaria, contribuendo a spiegare la mancanza di una Norimberga italiana. Greppi li ha invece studiati con un taglio quasi antropologico, restituendo a quel grigio i colori vivi di un’umanità scrutata senza indulgenze, ma anche senza furori vendicativi. A risaltare, così, è una «strategia della sopravvivenza» ingenua, furbesca, rassegnata, cinica, ma comunque sempre riconoscibile in tutte le giravolte, i compromessi, le contraddizioni che segnano una sconfinata voglia di vivere, di tenersi al riparo dalle bufere della grande storia per continuare a consumare il più possibile la propria piccola storia.
Gli uomini e le donne che si inseguono nelle pagine del libro intrecciano i percorsi più diversi. Anche chi è indiscutibilmente vittima e chi è indiscutibilmente carnefice appaiono circondati da una folla di personaggi che rendono più sfumati i loro ruoli, meno netti i loro confini di appartenenza.
Antonio M., ad esempio, è un brigadiere della Guardia nazionale repubblicana, «un uomo che non dava ordini, li eseguiva, e che fu incriminato per le sue azioni». Alla fine della guerra, il suo processo per collaborazionismo diventa una sorta di palcoscenico per la «rappresentazione» della zona grigia: i testi dell’accusa e quelli della difesa lo fanno rimbalzare di volta in volta nelle file dei carnefici o in quelle di chi si è impegnato a soccorrere le vittime: aveva arrestato e torturato partigiani; no, aveva aiutato famiglie ebree e si era adoperato per lenire le sofferenze dei detenuti nella caserma torinese di via Asti. Intorno a lui si muove una folla di portinaie, operai, avvocati più o meno loschi, partigiani o sedicenti tali, aguzzini dichiarati, un sacerdote bastonatore (don De Amicis), disertori, gente normale, delatori, spie, eroi della Resistenza (Carlo Pizzorno).
Italo Momigliano è invece un ebreo, destinato alla deportazione e alla morte nel Lager. Una vittima, quindi, che debutta nel libro attraverso le lettere che scrive a Regina, sua moglie, nel giugno del 1940, da una Parigi appena occupata dai tedeschi, restituendoci una lenta discesa agli inferi alla quale porrà termine ritornando a Torino per incontrare qui, sulla collina, il suo terribile destino: «in Italia […] sarò in patria e potrò far valere la mia qualifica di ex combattente al fine di trovare lavoro in condizioni di parità», scriveva il 14 gennaio 1942, comunicando a Regina la sua tragica illusione.
Un’ombra lunga sul futuro
Il carnefice di Momigliano, quello che riesce a stanarlo e a catturarlo, è una spia, Antonio Franzolini, nome in codice K9: è arrivato a Torino da Udine per continuare il suo mestiere di cacciatore di ebrei. Nella terra di mezzo, tra Momigliano e Franzolini, ci sono i luoghi della tortura e dell’attesa (la caserma di via Asti della Gnr o le carceri Nuove), i fascisti integrali (il federale Giuseppe Solaro) e quelli che tirano a campare, tanti, tanti campioni del doppio gioco e della trattativa a cui si lega la sorte di Momigliano. Nel marzo del 1944, Gastone Serloreti, capo dell’Upi, in cambio della revoca da parte del Cln della sentenza di morte emessa contro di lui, si impegnò a far cessare le sevizie contro i detenuti di via Asti.
Alla fine, tutte queste figure, anche le più sbiadite, tendono ad assumere una loro fisionomia. E la «zona grigia» si materializza, acquista concretezza storiografica, proiettando la sua ombra lunga sull’Italia del dopoguerra. Veramente i venti mesi della Resistenza furono troppi per i lutti e le sofferenze da cui furono segnati, ma furono troppo pochi per riuscire a scalfire il peso di comportamenti che appartenevano a un’Italia profonda, ansiosa solo di tranquillità e di un sollecito ritorno alle abitudini di sempre, senza più nessuno a disturbare gli «spettatori».
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Salò, più nera che grigia
Un libro di Carlo Greppi ricostruisce i gravi delitti compiuti a Torino dai repubblichini della Rsi L’autore ha svolto un prezioso lavoro di documentazione ma è criticabile il suo proposito di non giudicare
Corriere della Sera  5 mag 2016 di Corrado Stajano
L’argomento di grande rilievo e poco discusso di questo libro affronta il problema dei tanti, forse dei più, che nei momenti più difficili della vita e della storia, quelli delle scelte, decidono di stare alla finestra e aspettano in attesa di quel che succede, di come va a finire. L’ha scritto un giovane storico, Carlo Greppi: Uomini in grigio. Storie di gente comune nell’Italia della guerra civile (Feltrinelli).
Il tempo è quello dei 600 giorni della Repubblica di Salò, dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, il teatro, senza ombra di finzione, è Torino, il luogo è la caserma Lamarmora di via Asti, ai piedi della collina, sede dell’Upi, l’Ufficio politico investigativo della Gnr, la Guardia nazionale repubblicana, una delle formazioni fasciste, dove si tortura e si uccide, dove le nequizie, le indescrivibili violenze, le vendette sono di casa. Protagonisti, con il maggiore Gastone Serloreti, il comandante, sono un’infinità di personaggi, tra gli altri il federale Giuseppe Solaro, il colonnello Giovanni Cabras, don Edmondo De Amicis, un prete torturatore, nipote dello scrittore di Cuore, «Kappa Nove», pittoresca spia, cacciatore di uomini, doppiogiochista, infiltrato nelle bande partigiane e, soprattutto, un brigadiere, Antonio M., al quale l’autore affida un ruolo importante, a significare il destino, difficile da decifrare, di un piccolo uomo in un mondo più grande di lui.
Nel suo libro sofferente, I sommersi e i salvati, citato anche dall’autore, Primo Levi scrisse della «zona grigia dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata, ed alberga in sé quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudicare».
Questo libro ha anch’esso qualche «zona grigia». «Non sta a me», scrive l’autore, «dire quanto il campione di vicende umane presente in queste pagine sia rappresentativo del grigio, ma penso che la mia generazione debba saper guardare alle catene dei vinti».
I campioni servono ai sondaggi, non alla Storia. Se ne potrebbero però citare forse altri, di campioni di quel tempo, i 600 mila ufficiali e soldati italiani internati nei lager in Germania che dissero no alle lusinghe dei repubblichini: era sufficiente una firma per tornare in patria. Preferirono la fame, il freddo, la violenza nazifascista. Se si vuol credere ai sondaggi esiste la memoria di tante altre scelte: Nuto Revelli, alpino della divisione Tridentina, già a Nikolaevka, durante la ritirata di Russia, giurò a se stesso che avrebbe smesso per sempre la sua divisa da ufficiale di carriera e avrebbe combattuto — ciò che da partigiano farà valorosamente — contro i nazisti visti nel loro furore assassino da signori della guerra. E non ebbero dubbi i 12 della Banda Italia libera di «Giustizia e libertà», uomini di ogni professione, che subito dopo l’armistizio lasciarono Cuneo per Madonna del Colletto e combatterono per due anni partigiani in montagna.
Quel che accadde tra i muri della caserma di via Asti è talmente vergognoso, contro ogni dignità umana, come a villa Triste a Milano, come in via Tasso a Roma, da non meritare alcuna forma di dubbio giustificazionista.
Uomini in grigio è un libro cupo, oscuro, che dà angoscia perché incarna il sottosuolo dell’animo umano. Fa capire, anche se non è questo il suo intento, come lo stare alla finestra in quei momenti tragici della vita sia, al di là della paura e del coraggio, il simbolo del «particulare mio», della cancellazione delle idee, dei sentimenti, della coscienza.
Scrive Carlo Greppi che la «“zona grigia” non è una categoria da celebrare e deprecare, dal momento che lo storico non deve giudicare, ma provare a raccontare e raccontando a interpretare, rispondere ad alcuni interrogativi, o ammettere — quando è il caso — la sua inadeguatezza».
È imbarazzante questo giudizio se si pensa agli storici che proprio a Torino — Bobbio, Quazza, Venturi — non hanno fatto altro: il diritto/dovere dello storico è proprio quello di giudicare. E la sentenza su quel che fecero i repubblichini è della Storia, non soltanto della giustizia che fu manchevole.
Il maggior merito del libro di Carlo Greppi è la sua straordinaria documentazione: verbali, rapporti, istruttorie, inchieste, libri introvabili, memorie, testimonianze, ricerche faticate. Un archivio prezioso che, purtroppo, non riesce a diventare una narrazione. L’io che dovrebbe servir da guida è flebile e non serve a comporre i molti frammenti. Uomini in grigio manca di un’organica struttura, prevale il disordine, le storie si aggrovigliano, così come vengono presentate, e confondono il lettore. Occorre sottolineare anche la non esemplare e precaria cura editoriale in una materia che spesso si fa informe e lo si può verificare anche dal difficile indice.
Restano nella mente i protagonisti e i gregari, uomini neri su uno sfondo sanguinante, i carnefici, i doppiogiochisti, gli intriganti, i filibustieri, gli infami e i deboli, i colonnelli, gli agenti segreti, i piantoni, i profittatori, le spie. E con loro le vittime, gli eroi, coloro che seppero resistere, le mogli piangenti, le figlie doloranti.
Il brigadiere Antonio M. fu soltanto l’incolpevole autista del comandante o fu invece uno zelante collaboratore degli assassini? Fu responsabile dell’arresto di due capi partigiani, Carlo Pizzorno, poi fucilato, e Pierino Cerrato, deportato in un lager, o salvò veramente alcune vittime dell’Upi? (Dopo la Liberazione fu condannato a 10 anni di reclusione, ma a raccontare la sua storia, tra verità e menzogna, bisognerebbe forse risuscitare un grande scrittore del Novecento, uno come Mario Soldati).
La caserma di via Asti fu un pentolone ribollente dove la vita e la morte furono in quei due anni separate da un macabro filo sottile. Là dentro, con i carnefici, entrarono le vittime e molte non uscirono più da quelle muraglie e, con loro, altri che cercavano di salvare esistenze in pericolo, Vittorio Valletta, l’amministratore delegato della Fiat di allora, per perorare la causa e la sorte di Aurelio Peccei, dirigente dell’azienda, dal futuro illustre, uomo della Resistenza, prigioniero per quasi un anno, a un passo dall’esecuzione. E poi Mario Dal Fiume, avvocato di fiducia della Fiat, che per denaro trattò anche con successo, per la libertà di alcuni, impigliato in storie non limpide, dopo il 25 aprile finì in carcere. E il giovane Benito Bolognese, detto Balilla, agente della Polizia del popolo, arrestato dalla Gnr che misteriosamente entrava e usciva dalla caserma, anche per andare al cinema.
I più dei responsabili di quel che successe in via Asti, non certo uomini alla finestra, se la cavarono in fretta. Per la clemenza dei presidenti delle Corti d’assise straordinarie presiedute da magistrati cresciuti nel clima del fascismo, per l’amnistia del Guardasigilli Togliatti del 22 giugno 1946, per la memoria collettiva via via sempre più labile che scordò i fucilati del Martinetto, i partigiani impiccati agli alberi di corso Vinzaglio lasciati appesi per molte ore, e per le tante iniquità commesse dai fascisti nei 600 giorni di Salò.
Per dare solennità simbolica all’evento, il 25 aprile 1945, la Giunta regionale del governo del Piemonte decretò che la morte del federale di Torino Giuseppe Solaro e del colonnello Giovanni Cabras, comandante della caserma di via Asti, «condannati dal tribunale di guerra, responsabili di crimini nefandi che hanno profondamente commosso la coscienza popolare», avvenisse mediante capestro.

Orrori privati rinchiusi nella zona d’ombra della Storia
Memoria. «Uomini in grigio», un libro sugli anni 1943-1945 di Carlo Greppi per Feltrinelli
Lia Tagliacozzo Manifesto 13.1.2017, 21:54
Non si addice a un libro di storia tenere i lettori con il fiato sospeso, a maggior ragione se il libro riguarda gli anni tra il 1943 e il 1945. Come è andata a finire è noto: gli Alleati e i Partigiani hanno vinto e per l’Italia è iniziata una nuova vita, libera dall’oppressione della dittatura fascista, restituita – seppur brevemente – ad una, codarda, monarchia parlamentare. Eppure il libro di Carlo Greppi Uomini in grigio (Feltrinelli, pp. 377, euro 20) lascia spesso il lettore incerto, in ansiosa partecipazione di piccoli destini individuali.
RACCONTA, infatti, non la Storia ma tante piccole storie, incroci, a volte casuali, di destini, vicende piccole di uomini grigi non certo per il colore della divisa che indossavano ma per lo spazio in cui scelte, motivazioni, casualità, vite li hanno collocati: quello della zona grigia descritta da Primo Levi, «un’espressione – scrive Greppi – che è stata letteralmente consumata a furia di essere brandita nel discorso pubblico, ma quando ci navighi dentro ti sembra davvero il giusto, l’unico modo, di dire tutto questo».
Così se il pomeriggio del 10 settembre 1943 iniziò l’invasione nazista di Torino la realtà in cui questa avviene è già andata delineandosi da mesi, forse anni. Una realtà di cui Antonio M. è protagonista, uno tra i condannati che poi, a migliaia, nella seconda metà del 1946, lasciano il sistema penitenziario italiano. «Le tracce di Antonio M. le perdiamo qua, immaginandolo sulla soglia della casa penale di Firenze, abbagliato dalla luce del giorno, pronto a ricominciare». Ma, al contrario della magistratura, l’indagine storica non giunge ad una risposta definitiva: il brigadiere fu carnefice e, forse, anche salvatore, a testimoniare di una vicenda umana che cambia nello svolgersi del tempo. Il brigadiere Antonio M. «piuttosto basso di statura, col viso un po’ rotondo, e – mi pare – i capelli scuri, di apparente età dai 40 ai 45 anni al massimo» viene arrestato il 22 maggio del 1945 dagli agenti del commissariato di Polizia: «un uomo – scrive Greppi – del primo e secondo fascismo, dunque, un uomo che, seppur non più giovane, era entrato a far parte della Polizia Politica della Repubblica Sociale Italiana a Torino. Eppure, così sembra ancora oggi, un signor nessuno». «I capi di imputazione contro Antonio M. – prosegue lo storico – non sono da poco, anche per il tempo di guerra. È accusato di avere effettuato due arresti e delle loro drammatiche conseguenze»: Carlo Pizzorno, fucilato a Torino, e Pierino Cerrato deportato a Dachau.
Eppure Antonio M. è un uomo piccolo la cui cifra è «sospesa tra la complicità più o meno convinta con i nazifascisti e la “resistenza civile” (coloro che senz’armi ospitarono, collaborarono, protessero i partigiani), c’era una parola che indicava il tentare di sottrarsi alla responsabilità della scelta in tempo di guerra, o il cercare di scampare, in qualche modo, alla guerra. Era la parola “spettatori”… perché furono tanti, tantissimi, coloro che oltre settant’anni fa provavano a stare immobili ma stavano vagando – consapevoli o meno – in un’area dai contorni sfumati». È a quest’area che Greppi dedica la propria attenzione ed è quindi a partire dalle carte processuali che riguardano il brigadiere che Carlo Greppi inizia la sua indagine ed il suo lavoro di ricostruzione: «di questi non protagonisti volevo sentire la voce e, per iniziare, avevo bisogno di un appiglio, di un punto di partenza»: per l’appunto la storia del brigadiere Antonio M. che incrocia quella di molti altri: alcuni vittime, altri carnefici e molti altri che, come lui, cercarono di barcamenarsi. Antonio M. infatti è protagonista solo per comodità di racconto. «Il brigadiere Antonio M. – commenta Greppi nel presentarlo – era uno di loro: un protagonista sfumato, dai contorni vaghi, in una storia che di protagonisti non dovrebbe averne: Antonio M. era un uomo che non dava ordini – li eseguiva – e che nell’immediato dopoguerra venne incriminato per le sue azioni» .
IL LIBRO è una ricostruzione effettuata «con gli attrezzi del mestiere di storico» ma che prende le mosse da un’interrogarsi personale che accompagna chi fa ricerca: «io non lo so, come mi sarei comportato, se fossi stato Antonio M – racconta Carlo Greppi – e anche per questo ho voluto coprirlo con quella iniziale del cognome puntata che regala a lui, ai suoi, al cognato e alla moglie l’anonimato che forse avrebbero voluto», eppure – prosegue Greppi – «La scelta di guardare le vite – e, in alcuni casi, la morte, di questi uomini in grigio deve attivare in noi la capacità di dimenticare le categorie, da un lato, ma restando granitici al contempo, nel nostro personale, e per questo prezioso, giudizio morale sui fatti che andremo a raccontare. L’articolo di Primo Levi (un testo sulle responsabilità alleate nei confronti della Shoah ndr) – terminava così: “ma di una vera complicità non si può parlare, e resta abissale la differenza morale e giuridica tra chi fa e chi lascia fare”».

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