venerdì 22 aprile 2016

La parola gli manca: animali di Ortese

Anna Maria Ortese: Le Piccole Persone. In difesa degli animali e altri scritti, a cura di Angela Borghesi, Adelphi

Risvolto
Più volte nei suoi interventi pubblici Anna Maria Ortese ha denunciato i delitti dell'uomo «contro la Terra», la sua «cultura d'arroganza», la sua attitudine di padrone e torturatore «di ogni anima della Vita». E lo ha fatto pur nella consapevolezza che il suo grido d'allarme sarebbe stato accolto con impaziente condiscendenza da chi sembra ignorare che ciò che rende l'uomo degno di sopravvivere è la sua «struttura morale: intendendo per morale ogni invisibile suo rapporto, ma buon rapporto, con la vita universale». Quel che ignoravamo è che tali interventi, che additavano nello sfruttamento e nel massacro degli animali, nella natura offesa e distrutta il nostro più grande peccato, non erano isolate e volenterose prese di posizione, bensì la punta emergente di un iceberg. Un iceberg rappresentato da decine e decine di scritti inediti, nei quali la Ortese è andata con toccante tenacia depositando quel che le dettava la sua «coscienza profonda», vale a dire la memoria, riservata a pochi e supremamente impopolare, «delle “prime cose” preesistenti l'universo» – in altre parole, la visione che la abitava. Scritti di cui qui si offre una calibrata selezione e che nel loro insieme si configurano come un vero e proprio trattato sull'unica religione cui la Ortese sia stata caparbiamente fedele: la religione della fraternità con la natura. 

Il mondo discende dalle stelle
Gli animali e il loro dolore, l’uomo, la natura: l’universo apocalittico di Anna Maria Ortese
Corriere della Sera 22 Apr 2016 di Pietro Citati
Sotto il titolo Le Piccole Persone ( In difesa degli animali e altri scritti, a cura di Angela Borghesi), la casa editrice Adelphi pubblica numerosi bellissimi scritti di Anna Maria Ortese, in gran parte inediti. In apparenza sono testi sparsi: frammenti. In realtà, come accade sempre in un grande scrittore, appartengono tutti a un sistema. La Ortese ha una mente lucida, ardimentosa, estrema, abitata da una passione filosofica, che la induce a interrogare i misteri di questo e dell’altro mondo, del qui e del perennemente oltre.
Il primo dei suoi pensieri è il desiderio-dolore metafisico, la leva di ogni mente umana. «Ogni tanto — scrive nel Cardillo addolorato — , di notte o verso l’alba, mi sveglio con un dolore che è il più disperato e intollerabile di tutti quelli che ho conosciuto. Non so dove mi trovo. Dove sia collocato l’universo, ecco cosa non so. Né come si chiami. E che cosa sia, e di chi sia. Da anni, mi pare, l’idea di queste infinite strade stellari mi si presenta, la notte, e mi fa gelare, sognare, tremare. Dove sono? Chi — io — fra miriadi di abitanti la Terra, fra miriadi di pianeti, di soli, e che cosa sia questa galassia fra le altre galassie? Ma il luogo soprattutto vorrei sapere, e so che non saprò mai: dove tutto ciò è presente, e il suo vero nome, e, se non ha nome, il perché di questo silenzio sul nome». Con il desiderio-dolore metafisico in cuore, la Ortese batte alle porte dell’Essere; e domanda quale sia l’essenza del mondo e della natura e che cosa presieda ai fatti, e quale ne sia l’ordine, il senso, il principio. Scruta la verità con tutto il corpo — con il corpo delle piante, degli alberi, delle pietre, degli animali, degli uccelli — e sopratutto con il corpo delle stelle, dalle quali è discesa.
Il dolore è, in primo luogo, quello degli animali, supremo tra i suoi pensieri. Ascolta questo dolore specialmente il mattino, quando gli uccelli gridano invocando la madre o i figli, che sono stati loro strappati. Anche se Dio apparisse benedicendo dall’alto dei cieli, se il male fosse vinto, se tutte le creature vivessero giuste e felici, se Utopia fosse qui, basterebbe la sofferenza di una lumaca che un bambino ha schiacciato camminando, perché appaia chiara l’ingiustizia e la malvagità dell’universo.
La Ortese difende gli animali. Essi sono «anime viventi»: tale è il loro nome nei libri sacri: sono anime viventi come l’uomo: come lui, sono creature di Dio, anzi sono Dio; ma oggi occupano il grado più basso della vita vivente, soggetti alla infame programmazione dell’uomo. L’uomo si appoggia a un passo della Genesi, per affermare il suo dominio sull’universo e gli animali, che considera sua proprietà. Ma quel passo è falso o è stato male interpretato: l’uomo non è mai stato eletto signore degli animali. Dio è presente in tutte le forme dell’universo: in tutti gli immani cortei di stelle, nei pianeti, nel nostro pianeta, nelle montagne, nei mari, nella terra fiorita, nell’uomo, e in tutta la incomparabile energia che organizza le proprie forme, le completa, e poi le disperde in un solo soffio.
La Ortese esalta le origini: un Padre, un Paese beato e felice, che sta prima delle origini; sia la natura sia l’uomo sono mossi di lì, e poi sono naufragati. Allora è avvenuta la separazione: la separazione dell’uomo dalla natura, la separazione della natura da un Altro incomprensibile; il naufragio, di cui parlarono Leopardi e Pascoli. Questa separazione ha causato il lutto della natura: essa risuona nelle voci degli uccelli, sopratutto di quelli più lieti; «una nota accorata, un’alta e trepida malinconia».
Come Leopardi e Pascoli, la Ortese ama gli uccelli: questa famiglia di origine angelica che, nel fitto delle foreste, canta per l’uomo, ricordandogli che Dio non l’ha dimenticato: questi esseri gonfi di cielo, la cui patria è il cielo squillante di colori, splendido e inebriante come uno stendardo azzurro; questi capini macchiati di rosso, con le penne piccole, lisce e diritte, che sembrano uscire da un liquido fuoco o da un largo d’oro e turchino. Per uno scrittore, la cosa essenziale è ascoltare il canto degli uccelli, e ripeterlo. Ma dove sono? «Mi ricordo improvvisamente degli uccelli — dice la Ortese — che un tempo popolavano la mia casa e, non vedendoli più, mi domando con stupore: “Dove sono, dove sono volati?”. Non posso credere che siano morti».
La Ortese non ha fede nella pura letteratura: o soltanto in quella che muove dalla meraviglia, dall’ammirazione e dalla compassione; verso tutte le forme, quelle che sono fuori dal mondo e non vediamo, e quelle che appaiono e scompaiono sul nostro pianeta. La compassione è la qualità propria dell’uomo: senza compassione l’uomo è nulla; niente ha valore in tutta la vita dell’uomo sulla terra, nemmeno l’arte e la religione, se non viene accompagnato dal desiderio di soccorrere un altro, vivo e dolente.
La compassione sceglie ciò che è piccolo e segreto. Piccolo è il sentimento di un bambino per il suo cane, o di una donna per il suo ultimo bambino. Il piccolo è anche segreto, perché, essendo piccolo, non è consapevole di esistere. Così le farfalle, specie quelle moribonde. «In un angolo, combattendo ancora, ma molto debolmente, contro la morte — racconta la Ortese —, c’era una di quelle farfalle color seta cruda, piccolissime, quanto un chicco di riso, che spesso, la sera, entrano dalle finestre aperte nelle nostre case. Io ero al corrente, come pochi individui, del terrore che anima quelle deboli creature allorché vengono catturate e, strette in un pugno, sentono ridere, e con i loro poveri occhietti osservano gli strumenti che serviranno a torturarli. Io sapevo che non possono parlare e neppure esprimersi in altro modo, ma con tutte le loro innocenti forze si ribellano e chiedono la grazia della vita». In ogni momento milioni di vite gaie e dolci chiedono di essere risparmiate, e la risposta è quasi sempre un rifiuto.
Il mondo della Ortese discende dalle stelle e ritorna verso le stelle. Esso è apocalittico. Ora invoca la distruzione dell’uomo, questa creatura senza legge, travolta dai suoi delitti. Ora invoca una Nuova Terra, una terra riscattata dai vecchi e turpi dèi della tortura e del massacro, dove potrà vivere anche l’uomo, trasformato e risorto. «Ecco cosa chiede il vero vivente — a gran voce, nella notte, chiamando lo spirito, uno e solo, di tutta la vita». Persino l’Italia, questa terra corrotta, riapparirà un giorno, calma e gentile sotto un cielo celeste. Ci saranno giardini, boschi, belle città. Una popolazione rara e mite vivrà in questi luoghi benedetti. «Avremo allora — finalmente — la malinconia». Essa sarà presente nelle voci degli uccelli, questa nota suprema e velata, che chiede, interroga, sa tutto sul passare delle cose; e nel dolore dell’uomo, vero colore della sua grazia.

Le malinconie di Anna Maria Ortese per il mondo animale Classici moderni. Né il senso storico, né la morale trattengono l’autrice dell’«Iguana» dal paragonare il dolore subìto dagli animali a quello patito dalle vittime dei lager
Niccolò Scaffai Alias Manifesto 15.5.2016, 6:00
Perché guardiamo gli animali? È la domanda che ci pone il libro (recentemente tradotto dal Saggiatore) in cui John Berger ha riunito i suoi scritti sul rapporto tra l’uomo e gli altri esseri viventi. Gli animali, osserva Berger, sono entrati nel nostro immaginario «come messaggeri e come promesse»; ma da quando abbiamo smesso di considerare la loro esistenza parallela e autonoma rispetto alla nostra, quella funzione originaria si è esaurita. La sottomissione degli animali ha spezzato il legame dualistico con l’uomo, alterando l’equilibrio tra venerazione e controllo.
Berger non è il solo scrittore che, negli ultimi anni, ha riflettuto sul valore della vita animale, in sé e come paradigma della relazione individuo/società: da Coetzee a Foer, il tema ha guadagnato una presenza crescente nella letteratura, divenendo anche oggetto di una corrente critico-teorica, gli Animal studies, già molto diffusa in ambito nordamericano. Anche nella letteratura italiana contemporanea ci sono esempi di questo genere: in Tozzi, Calvino, Volponi, Primo Levi, per limitarci ai classici novecenteschi (ma non mancano casi più recenti, da Laura Pugno a Giordano Meacci). A questi nomi si aggiunge quello di una delle maggiori scrittrici italiane del Novecento, Anna Maria Ortese: il tema del distacco tra uomo e natura attraversa specialmente le sue ultime opere (dal Cardillo addolorato a Alonso e i visionari e Corpo celeste), fino alla raccolta di interventi sul tema che esce ora a cura di Angela Borghesi: Le Piccole Persone In difesa degli animali e altri scritti (Adelphi, pp. 271, euro 14,00).
Il volume comprende trentasei pezzi, tredici dei quali già apparsi a stampa ma finora mai raccolti; i restanti, selezionati dalla curatrice tra i materiali del Fondo Ortese presso l’Archivio di Stato di Napoli, risultano inediti. Non datati, i testi sono perciò organizzati nel libro in base a un criterio tematico: la prima parte – chiarisce la Nota al testo – accoglie quelli «d’ampio respiro filosofico-naturalistico, di critica culturale e di costume, o di carattere documentaristico-memorialistico»; la seconda i testi «d’impronta militante», percorsi cioè da più accesi sentimenti animalistici.
Il rapporto di uno scrittore adulto con la «Natura», osserva Ortese nello scritto d’apertura (Ma anche una stella per me è «natura»), è segnato dallo scetticismo con cui l’uomo ripensa alle illusioni del bambino; ma senza la coscienza del distacco, senza la «memoria di una ferita ormai indimostrabile», non si può scrivere: perché la scrittura è «cercare ciò che manca». È una tensione quasi leopardiana (Leopardi è uno dei riferimenti impliciti ma più presenti sullo sfondo di questi scritti), quella che si precisa di brano in brano, passando da una prospettiva più lirica a una più storica (il doppio regime interessa anche lo stile, più concreto e diretto negli scritti ulteriori, specialmente in quelli della seconda parte).
La «malinconia», da effetto disforico, può rovesciarsi nell’avvertimento di una «normalità che ritorna», di un equilibrio ritrovato, nelle «città, di nuovo sane e pulite»; sarà la malinconia a dire «che la luna è tramontata da poco, e che inferno, furore, grandezza e immaturità, lusso e disperazione, furono solo un sogno» (Sulla malinconia). Ma i sentimenti non si appagano dell’idillio e del sogno; il rapporto con la natura e la sua rappresentazione delimitano infatti lo spazio privilegiato da cui guardare e giudicare la letteratura e la società italiane: «Nella narrativa non è mai presente il piccolo né l’interiore. È come se la vita italiana, dall’inizio della sua storia, fosse una lunga e barbarica tavolata, piena di cacciagione o vini pregiati, o anche semplici patate o rape, (…) ma, insomma, natura morta. Una immensa natura morta e niente più» (Piccolo e segreto).

Come altri scrittori italiani del secondo Novecento, Pasolini in particolare, Ortese osserva e interpreta i cambiamenti occorsi nella società, nel paesaggio materiale e morale dal dopoguerra, in chiave etologica: la violenza esercitata contro la natura e soprattutto contro gli animali è il riflesso dello «spirito che invase l’Italia tra il Cinquanta e il Settanta (…), uno spirito di volgarità, per prima cosa, e di perversità, come conseguenza». Così scrive in Ferocia e mollezza, due termini che definiscono emblematicamente lo scadimento dell’etica nazionale, specialmente il primo: di «immortale ferocia» parla infatti anche in Al rallentatore (viene da pensare alla fortuna recente che la parola, in una prospettiva non dissimile, ha conosciuto grazie al titolo dell’ultimo romanzo di Nicola Lagioia).
Anche «perversità» è parola ricorrente negli scritti di Piccole persone; Ortese la usa per spiegare la ragione che le fa apparire i delitti contro gli animali più gravi di quelli contro gli esseri umani: «il loro orrore» è «nella perversità» (Il secolo della crudeltà). È qui, in un confronto di questo genere, che si delinea il punto di vista dell’Ortese animalista, al centro, come si è detto, dei testi raccolti nella seconda parte del libro. I massacri degli animali corrispondono a quelli perpetrati dall’uomo contro i propri simili; la distruzione dell’habitat di altre specie è equiparata ai roghi dei villaggi nella «terribile guerra». L’idea che ognuno perseguiti i più deboli secondo la propria forza è autorizzata da grandi modelli, anche letterari: i capponi agitati da Renzo subiscono l’arbitrio e la violenza che, su altra scala, patiscono gli stessi protagonisti del romanzo.
Ma Anna Maria Ortese si spinge fin dove senso storico e morale consiglierebbero di non andare, proponendo l’equivalenza tra il dolore inflitto agli animali e quello subito dalle vittime del lager: tutto il male «che un certo stato europeo, venticinque anni fa, rivolse all’uomo, inflisse all’uomo europeo: deportazioni, viaggi nei vagoni piombati, inumano isolamento», adesso è inflitto agli animali, in Italia e in altri paesi (Il criminale prudente). «Provate ad andare in Lager…»: così Primo Levi, che pure ha riflettuto sulla sofferenza inflitta agli animali in Contro il dolore, rispondeva quando le sue Storie naturali venivano lette come adattamenti fantastici della Shoah.
Ortese prevede lo scandalo delle sue parole, anticipa le obiezioni, denuncia il ricatto morale; ma le sue posizioni, «certo discutibili, ingrate e radicali» scrive Angela Borghesi nel fine e partecipe saggio conclusivo «la consegnano all’isolamento, all’incomprensione dei più». Tuttavia certe espressioni – spiega ancora Borghesi – sono il prodotto di «un cumulo d’anni di rabbie gridate o represse, d’impegno misconosciuto, di scrittura ossessiva».
«Ossessione» è la parola che meglio definisce, in due sensi, gli scritti della seconda parte del libro. Da una parte, l’ossessione dell’autrice per i suoi argomenti (molti dei quali sacrosanti: contro la caccia, per esempio, e contro il folklore cruento della corrida, che nessun valore simbolico basta a riscattare). Dall’altra parte, l’ossessione suscitata nel lettore, che di pagina in pagina sempre più si sente tratto nell’inferno degli animali. Al netto delle critiche (anche sull’ambiguità di certe idealizzazioni: «La vita è buona. Alberi e bestie sono buone», un «cane è un angelo»: Una sentenza della Corte di Cassazione), perciò, Piccole persone è un libro che impressiona e che ammonisce al rispetto verso coloro con cui condividiamo una dimora, l’Umwelt, in senso biologico e sociale.

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