sabato 16 aprile 2016

Architettura e paesaggio: un convegno a Torino, la Biennale, Jacobs e Gehry




Il gusto amaro del paesaggio 

Città&campagna. Si aprirà il 20, al Lingotto di Torino, il 53/mo Congresso mondiale dell’International Federation of Landscape Architects. Un'intervista con Anna Letizia Monti, alla guida dell'Associazione italiana di settore

Andrea Di Salvo Manifesto 16.4.2016, 0:03 
Nella dichiarazione programmatica del 53/mo Congresso mondiale dell’International Federation of Landscape Architects, organizzato dall’Associazione italiana di architettura del paesaggio, la presidente Anna Letizia Monti si dice certa che «anche a livello nazionale i politici, gli amministratori, l’opinione pubblica stiano finalmente riconoscendo che il paesaggio è in ogni luogo un elemento importante per la qualità della vita delle popolazioni». Le abbiamo rivolto qualche domanda nei giorni che precedono l’arrivo a Torino di oltre mille specialisti del settore. 
Il paesaggio è spesso considerato soltanto come qualcosa da ammirare e tutelare. L’incontro torinese pone l’accento su un progetto che lo collochi operativamente al centro delle attività di crescita e sviluppo del paese. Come si conciliano questi diversi punti di vista?
Non è più il tempo di pensare al paesaggio come elemento iconico e celebrativo. È una realtà dinamica, che si evolve, muta e si trasforma. È parte integrante della vita quotidiana dei paesi e delle popolazioni e partecipa con essi al mutare delle necessità, ai nuovi usi. Il paesaggio si fruisce in molteplici modi e funzioni, si può declinare come spazio urbano e periurbano per favorire rapporti e relazioni; area cittadina e rurale con impianti arborei finalizzati alle attività ricreative e al miglioramento della qualità dell’aria; sito denso di stratificazioni e destinazioni passate che si rinnovano per produzioni alimentari di contiguità o per poetiche partecipative. L’Italia è in ritardo su molti di questi temi, ma è giunto il tempo di (re)agire. Il Congresso ha anche questo obiettivo: evidenziare le necessità, risvegliare gli animi, suggerire soluzioni per poter avviare coscientemente e sistematicamente realizzazioni paesaggistiche che siano parte integrante delle politiche di questo paese che – purtroppo – è in ritardo di decenni sulla realizzazione di normali progetti di paesaggio, reali e possibili. 
In questo tipo di consessi c’è spesso il rischio di parlare a se stessi invece di assumersi il rischio di dettare, quasi imporre al dibattito, alcuni temi forti. Quali sono le ragioni della scelta di un titolo come «Tasting the Landscape»?
Si è scelto di indagare gli ambiti del progetto di paesaggio a tutto tondo: la risignificazione sensibile dei luoghi, le criticità delle aree marginali, le coltivazioni di prossimità, i paesaggi stratificati, le poetiche del vivere quotidiano. A Torino si ragiona sui «paesaggi condivisi»: le aree fra città e campagna, residenza e coltivazione agricola, produzione industriale e abbandono. Sono paesaggi che possono e devono creare legami e riconsegnare valore a luoghi, persone, idee e produzioni; sono le aree per l’agricoltura urbana, sono i periurbani non più in attesa di essere urbanizzati ma che risorgono a vita nuova.
Ci confrontiamo sui «paesaggi connessi»: quelle infrastrutture verdi e blu, che servono per creare connessioni, unioni, continuità fra territori e persone contigue. Territori in cui coesistono produzioni e attività sportive, resilienza e turismi. Si affronta poi il tema dei «paesaggi stratificati»: il dialogo delle storie e le mutazioni dei siti. Quelli in cui passato e presente hanno codici di relazione precari e per i quali il paesaggista deve individuare semantiche per la complementarietà e la coesione. Si studiano infine i «paesaggi d’ispirazione»: aree dove si concretizza una risignificazione dell’esistente o si declinano nuove poetiche per il vivere. 

Vista la pluralità degli interventi e dei progetti che verranno presentati, può descrivere alcuni casi concreti dai quali vi attendete suggestioni, soluzioni tendenze per il futuro?
I lavori vedranno l’intervento di figure di primo piano del dibattito internazionale come Raffaele Milani, docente di estetica e filosofia del paesaggio; Henri Bava, paesaggista francese che ha all’attivo numerosi piani di riqualificazione di paesaggi degradati; Saskia Sassen sociologa ed economista statunitense che indaga da anni il tema della città globale. La novità, se tale la vogliamo considerare, è che non sono ormai soltanto i paesi europei e gli Stati Uniti ad avere politiche e consuetudini attuative per il progetto di paesaggio. A Torino verrà presentato un «programma» di mille ettari di agricoltura urbana a Pechino, ci saranno contributi dell’università di Teheran, piani di valorizzazione dei paesaggi turchi nell’entroterra di Mersin, piuttosto che del sud ovest della Nigeria: è lampante la sensibilità e la determinazione di molti paesi a realizzare politiche paesaggistiche cogenti, con finalità strettamente economiche e/o turistiche o per fare proprie le suggestioni e gli stimoli che provengono dai cittadini. 
Qual è in Italia lo stato dell’arte e il destino attuativo del progetto di paesaggio? Si può rilevare l’attenzione delle istituzioni e dei rappresentanti del potere politico?
Esempi virtuosi ci sono in tutto il territorio nazionale. Ma non fanno sistema. Non ci sono politiche stringenti e iter procedurali semplici per proporre e realizzare progetti di paesaggio. Si parla molto, ma sempre in maniera generica. Non si realizzano cose elementari, come la detraibilità fiscale per le opere a verde: un sistema adottato per caldaie, infissi, acquisto dei mobili e che non è riuscito a rientrare nella legge di stabilità di quest’anno, nonostante la mobilitazione coesa di tutta la filiera di settore: vivaisti, progettisti, aziende di opere a verde.
I politici di ogni schieramento discettano di paesaggio, ecologia, sostenibilità, promozione turistica del patrimonio paesaggistico, ma le azioni si limitano a pianificare e al «racconto», senza passare alla realizzazione. I progetti di paesaggio implicano investimenti di denaro esigui, a volta addirittura minimali rispetto alla maggior parte delle opere pubbliche. Occorre poco per fare molto: si investe in idee, alberi, arbusti, semi e terra e si ottengono ossigeno, benessere, turismo e presidio del territorio. È una situazione quantomeno paradossale che non si riescano a realizzare opere che hanno queste caratteristiche ma forse è proprio per i tempi lunghi che la natura richiede (che sono più lunghi di un mandato elettorale) e la minimalità economica di queste opere che a nessuno interessa sviluppare e promuovere un settore che – evidentemente – ha budget troppo esigui per essere interessanti, soprattutto per coloro che mirano a far girare molti denari. È un’affermazione grave la mia, ma Aiapp non ha paura a gridare che, in Italia, da troppi anni il re è nudo. 

Si parla di un documento conclusivo di sintesi che va in direzione di una complessiva maggiore responsabilizzazione di tutti i soggetti protagonisti? Può anticipare i suoi termini?
Il manifesto focalizza in pochi punti le questioni salienti: qualità dei paesaggi e qualità progettuale, necessità di politiche di governo del paesaggio cogenti, formazione adeguata a tutti i livelli: dall’università, all’aggiornamento professionale a tutte le scale, dai tecnici delle amministrazioni pubbliche ai liberi professionisti, dall’operatore al dirigente.


Luoghi da sentire 

Una convention mondiale a Torino degli studiosi del «paesaggio vissuto», dal 20 al 22 aprile 

Andrea Di Salvo Manifesto 16.4.2016, 0:03 
Stenta ancora ad affermarsi nel senso comune l’evidenza che quella complessa molteplicità di relazioni che chiamiamo paesaggio (variabili naturali, culture materiali, proiezioni mentali) non sia soltanto un lascito del lavoro e della sapienza delle generazioni precedenti, quanto piuttosto l’esito in divenire della nostra capacità di reinterpretarlo creativamente. Aggiungendovi ogni giorno il protagonismo contraddittorio delle nostre tante attualità. Eppure, questa consapevolezza comincia talvolta a farsi condivisa, fino alla presa di parola e di responsabilità da parte delle comunità dei luoghi. E ciò va insieme al progressivo diffondersi di una cultura del «paesaggio vissuto» fatta di educazione continua dello sguardo e dei sensi, delle emozioni e dei saperi, ma anche di formazione e divulgazione, del convergere di conoscenze ultradisciplinari, imperniate su una visione strategica e un’articolata metodologia progettuale. 
La figura connettiva dell’architetto del paesaggio gioca da tempo un rilevante ruolo specifico nel costruire e promuovere questa cultura. Prospettando anche in Italia, seppure con un certo ritardo, l’importanza di competenze che, nel quadro di un approccio interdisciplinare, intervengano nell’ideazione e nella progettazione di quelle che vengono oramai definite «infrastrutture verdi»: a dar conto della valenza di sistema che tale coordinata molteplicità di interventi assume innervando alla più diversa scala l’intelaiatura sociale, abitativa, produttiva, conformandone aspirazioni e immaginario.
Organizzato dai paesaggisti dell’Associazione italiana di architettura del paesaggio, si terrà quest’anno in Italia, dal 20 al 22 aprile al Lingotto di Torino, il 53/mo Congresso mondiale dell’International Federation of Landscape Architects, l’organismo che coordina settantaquattro associazioni nazionali, strutturate nel mondo in quattro macro regioni. Tasting the Landscape – questo il titolo della tre giorni di studi – è un invito accorato a considerare anche la componente emozionale e percettiva dei paesaggi, qui opportunamente privilegiati nella dilagante dimensione liminare costituita dai paesaggi peri-urbani, tra città e campagna. Una serie di realizzazioni dai più diversi contesti verranno proposte con la possibilità di valere come buone pratiche. 
Un documento conclusivo di sintesi e indirizzo verrà condiviso e portato all’attenzione di cittadini e politici, richiamandoci alla responsabilità comune che ci vede tutti operare sul paesaggio, magari in negativo, astenendoci e pagando così i costi del «non fare», oppure procedendo ex post, per emergenze. O invece assaporando il gusto di un paesaggio consapevolmente ipotizzato, sbilanciandosi nel segno della sperimentazione, enunciando indicazioni a procedere in dialettica serrata con altri pareri, idee, processi partecipativi.

Celebri progettisti come Renzo Piano si dedicano alle aree periferiche, in Italia e negli Stati Uniti La prossima Biennale apre all’inclusione sociale e alla riduzione delle disuguaglianze. Tornano in voga questioni già poste dal movimento moderno e accantonate da una ricerca esasperata di forme bizzarre e spettacolari. Ma è una vera svolta?

Architettura povera 

Più attenzione al disagio abitativo e meno alla ricerca estetica. Cambia passo l’arte di costruire la città
CARLO OLMO Restampa 17 4 2016
Stiamo forse assistendo a un ennesimo ribaltamento del rapporto tra architettura e città, tra architettura e società? Rientra al centro dell’attenzione un’architettura che si misura con le necessità primarie dell’individuo, con l’inclusione sociale e che accantona la ricerca estetica portata fino alla bizzarria? E il pendolo di una sia pur debole teoria sta forse tornando a orientarsi sui temi dell’abitare di una popolazione che però non conosce quasi più il ceto medio per cui l’architettura e la città del Novecento sono state pensate?
La sensazione di disagio che oggi si vive per esempio scendendo alla Station Front Populaire della linea 12 del metro parigino e avviandosi verso il nascente Campus Condorcet, destinato a ospitare alcune delle più importanti università del Paese, nasce proprio dal percepire un modo di abitare fatto di case, vie e piazze pensate per una popolazione che non c’è. Il Diritto alla città, titolo di uno dei testi più citati su questi argomenti dal 1971 quando Henri Lefebvre lo pubblicò, fondamentale ascensore sociale allora, come si pratica oggi in luoghi che sono situati tra un centro abitato da chi è in grado di pagare il valore simbolico che le centralità incorporano e quella che si è abituati a chiamare città diffusa?
Periferie che hanno perso, per fortuna, la funzione di dormitori di una città moderna e industriale che non esiste più almeno in Europa, ma che conservano luoghi urbani molto identificabili e morfologie oggi criticatissime come, per restare vicino al Campus Condorcet, La Courneuve. Un grand ensemble di 4000 alloggi che Jean-Luc Godard nel 1967 rappresenta in tutti i suoi contradditori aspetti in quel film straordinario che è Due o tre cose che so di lei. E nei confronti della quale, la scelta di raderla al suolo ha trovato nelle comunità che la abitano non solo una resistenza insuperabile, ma una vera forma di patrimonializzazione dal basso del tutto inattesa. Ma gli architetti davvero oggi tornano a essere sensibili a un diritto alla città riproposto in maniera tanto diversa nelle periferie europee o nei più grandi slum del mondo?
Forse il ripensamento che porta Renzo Piano a soggiornare a New York per seguire il completamento del Campus della Columbia University ad Harlem (che firma con uno dei più famosi studi americani, la Skidmore, Owings & Merrill), ha, tra le ragioni, anche quella che ha portato Elisabeth e Christian de Portzamparc – due archistar dalla storia davvero diversa – a partecipare (vincendolo) al concorso per la biblioteca proprio del Campus Condorcet. E questo mentre un testo culto dell’architettura contemporanea,
Delirious New York, della più influente archistar di oggi, Rem Koolhaas, è usato come trama dall’Office of Human Theatre per ironizzare proprio sul mondo che Koolhaas più di tutti incarna.
Una crisi di valori profonda impone ad architetti e urbanisti una riflessione su alcune rotture che si sono prodotte nel mondo dell’architettura, rotture che la prossima Biennale di Alejandro Aravena e il Padiglione Italia sembrano segnalare. La prima, forse la più evidente rottura, è quella tra linguaggi e organizzazione spaziale. Non è forse inutile ricordare che l’esercizio più sofisticato che l’architettura del Novecento abbia conosciuto sono le autentiche variazioni Goldberg che quello straordinario migrante che fu Alexander Klein progettò dal 1927 al 1931, tra Berlino e Lipsia, lavorando sull’Existenz- minimum, vale a dire su come soddisfare i bisogni elementari di un essere umano. Esercitare intelligenza, fantasia, creatività sul modulo abitativo non solo più ridotto – il modulo Loucheur su cui anche Le Corbusier lavorò negli anni Venti in Francia è di 24 metri quadrati – ma che aveva l’ambizione di contenere l’abitare dell’uomo in tutte le sue funzioni essenziali, fu davvero una straordinaria scommessa. La rottura tra linguaggi e distribuzione a favore della ricerca estetica di talune archistar non ha solo messo in discussione lo stesso mestiere dell’architetto, a favore del designer e dell’ingegnere, ma ha favorito un’altra, fondamentale rottura: quella tra involucro e costruzione. Forse quella che stiamo vivendo è la stagione in cui la materia dell’architettura è più omologa, resa tale da società di ingegneria che hanno costruito un oligopolio della costruzione dal Bahrein a San Paolo e da imprese multinazionali che arrivano a costruire architetture in cui si entra, in qualsiasi parte del mondo, e si procede per riconoscimento: dall’ingresso sino alla camera, alla stanza di riunioni, alla sala d’attesa, il percorso, la distribuzione dello spazio è eguale ovunque. Architetture che sembrano richiamare un’estetica del vuoto, quasi lacaniana.
All’architetto e al suo rapporto con la materia resta l’involucro e il suo valore di simbolo estraniato dalla distribuzione spaziale. L’estetica del riconoscimento porta con sé, quasi automaticamente la ricerca di un rococò esasperato, di involucri che devono nascere, non diventare nel tempo e con la selezione delle architetture, landmark, senza però avere come i landmark nella cultura statunitense alcun rapporto con il territorio.
Essere ridotti a mascherare la realtà forse non sarebbe stato sufficiente, se il consumo del suolo, di una risorsa in sé limitata, non avesse quasi imposto la riformulazione del paradigma progettuale. Ritornare a pensare il progetto a partire da modificazioni di un patrimonio stratificato di segni e popolato di tracce, un patrimonio in cui però è sempre più il vuoto a segnare il paesaggio – l’alloggio, il capannone, l’ufficio abbandonati e sfitti stanno diventando la norma – rende quasi necessario calare la maschera. È la rivincita del piccolo sul seriale, della qualità sulla quantità, del metodo che Alexander Klein chiama il procedere per successivi incrementi a riportare in primo piano la necessità di architettura, assieme al mutamento radicale della stessa idea di città.
Nel 2010 esce L’aventure des mots de la ville: 240 voci e 160 autori si confrontano con il mutar di senso delle parole che accompagnano il rapporto tra architettura e città. L’architettura deve oggi misurarsi con mutamenti che interessano le parole che la raccontano e farlo dall’interno di mura non più disegnate da ingegneri militari, ma da un’economia morale della terra. Vincerà La grande trasformazione di Karl Polanyi e con lei un’architettura necessaria perché solo l’intelligenza progettuale può rispondere a questo nuovo paradigma insieme economico, sociale e culturale? Se si guarda ai tanti ribaltamenti anche solo di cosa siano centro e periferia a Neza-Chalco- Itza, lo slum situato alla periferia Nord del Distretto Federale di Città del Messico con 4 milioni di abitanti, o se si riconoscono i mutamenti intervenuti nella più grande favela di Rio de Janeiro, Rocinha, anche attraverso un’architettura che accompagna l’inclusione sociale, necessità e speranza sembrano poter almeno convivere.

 L’INTERVISTA / RAUL PANTALEO

“È entrato in crisi l’assurdo sistema delle opere eclatanti” 

FRANCESCO ERBANI Restampa
«Sono vent’anni che lavoriamo in zone marginali, nelle periferie africane e asiatiche. E in effetti da un po’ di tempo i nostri progetti riscuotono attenzione, veniamo invitati a raccontarli. Poi è arrivato il segnale più forte: la curatela del Padiglione Italia alla prossima Biennale architettura, essa stessa dedicata da Alejandro Aravena al Reporting from the Front ». Raul Pantaleo, milanese, cinquantaquattro anni, è titolare insieme a Massimo Lepore e Simone Sfriso, dello studio TAMassociati. E Taking care. Progettare per il bene comune
s’intitola la loro rassegna, che dovrebbe documentare gli sforzi di un’architettura orientata in senso più etico e politico del passato.
Pantaleo e i suoi colleghi sono impegnati con Banca Etica, progettano ospedali per Emergency, operano in Sudan, in Uganda, nel Senegal, in Iraq, in Afghanistan. E anche in Italia, dove non ci sono guerre, ma dove infuria la camorra, per esempio nel quartiere napoletano di Ponticelli, o dove si accolgono i migranti, come a Polistena, vicino a Reggio Calabria.
La Biennale è dunque il riconoscimento di una trasformazione della scena architettonica: meno archistar, più società. È così?
«Indubbiamente. Se questa è una svolta reale lo vedremo in seguito. L’architettura nelle aree di acuto disagio e di conflitti non è una novità. Né, ovviamente, sono una novità quelle crisi. La novità è che quelle crisi sono giunte alle nostre porte e siamo indotti a concepire la storia non come un percorso lineare verso il progresso. L’effetto, per quanto ci riguarda, è il risalto di cui gode questa architettura. Ben venga che se ne parli. Ma occorre tenere alta la guardia ».
Teme un eccesso retorico?
«Spesso ci si nasconde dietro le parole. Prenda la “sostenibilità”. Fino a qualche anno fa, ora forse meno, tutti i progetti sfoggiavano quel termine. Ma quanti in concreto la realizzavano?».
In ogni caso, l’architettura potrebbe non essere più sinonimo di una grande personalità, di una singola espressione artistica.
«È entrato in crisi il sistema delle opere eclatanti, quelle che non si pongono in rapporto con il contesto, che scansano le compatibilità economiche o ambientali. Una novità è anche che il Padiglione Italia della Biennale sia stato affidato a una curatela collettiva».
Molto dipende da chi commissiona un lavoro. Voi lavorate con il pubblico e con il privato. C’è differenza?
«Ricordo sempre che Manfredo Tafuri, con il quale ho studiato a Venezia, diceva che l’architetto è come l’avvocato, è sempre di qualcuno. Dal punto di vista di un progettista, dovrebbe cambiare poco se il cliente è un privato, un’amministrazione comunale o una ong. Io credo in un’architettura politicamente orientata. Anche se realizzassi un ristorante, resto un architetto che agisce nella collettività».
Tanta attenzione viene dedicata alle periferie. Anche in questo caso ha paura che dietro le parole ci sia poco?
«No. Mi auguro proprio che gli sforzi siano seri. Concordo con quel che dice il ministro Dario Franceschini: finora abbiamo lavorato sui centri storici, per preservarli, ora dobbiamo concentrarci sulle periferie. L’importante è che non ci si riduca a considerarle solo nell’aspetto fisico, trascurando quello mentale o istituzioni fondamentali come la scuola. Fare una piazza aiuta, ma se non la si riconosce e non la si cura come spazio pubblico, non basta. E poi, occorre intendersi: cos’è periferia? Ci sono le grandi periferie metropolitane, diverse fra loro, e c’è, per esempio l’immensa periferia, un po’ città, un po’ campagna, che va da Trieste a Torino».
E poi c’è la periferia del mondo.
«Sotto i nostri occhi abbiamo visto Karthoum, la capitale del Sudan, crescere di otto, dieci volte».
Lei lavora con Renzo Piano e il suo G124.
«Quest’anno ho il compito di tutor per un gruppo impegnato a Marghera. Talvolta penso che ci vorranno 500 anni per riparare un secolo di danni ambientali ».
Un’ultima novità: nella vostra idea di architettura c’è anche un diverso modo di comunicare.
«Il graphic novel. Per Becco-Giallo sono usciti tre volumi, uno sulla speculazione edilizia, un altro sulle architetture resistenti, un altro ancora sui luoghi di Emergency. E anche il catalogo della Biennale sarà a fumetti ».



Intensi perimetri metropolitani JANE JACOBS. L’unica città funzionante è a misura di chi la abita. Contraria ai metodi di pianificazione, un ritratto dell’attivista e teorica critica dell’urbanistica moderna. Il suo saggio del 1961 ha segnato un punto di svolta per la sociologia urbana divenendo un punto di riferimento per accademici e non
Giovanni Campus Manifesto 21.4.2016, 0:06
Chiamato ad aprire il recente European Regional Meeting sugli habitat urbani Jan Gehl, probabilmente l’urbanista e designer di spazi pubblici più importante e rispettato oggi al mondo (o almeno in Europa) ha dedicato quasi interamente il suo intervento a Jane Jacobs. Nel successivo incontro tematico sugli spazi pubblici di Barcellona, il 4 e 5 aprile scorsi, sono stati pochi i relatori che non hanno fatto esplicita menzione del suo nome, o almeno implicito riferimento al suo pensiero.
In entrambi questi appuntamenti, promossi sotto l’egida dell’Onu in preparazione della conferenza Habitat III per scrivere la «Nuova Agenda Urbana» e, nelle intenzioni, le linee guida dello sviluppo futuro delle città del mondo, è sembrato finalmente che a cento anni esatti della sua nascita la sua figura e il suo pensiero, dopo aver conquistato accademici, attivisti e addetti ai lavori, stiano finalmente raggiungendo anche il campo dei «decisori».
Parliamo di Jane Jacobs, nata Jane Butzner a Scranton, Pennsylvania, il 4 maggio del 1916 e vissuta principalmente fra il Greenwich Village di New York – nell’amata casa al 555 di Hudson Street – e Toronto, in Canada, di cui fece la sua seconda patria.
Priva di uno status ufficiale nel mondo accademico, consegnò i suoi interventi critici intorno ad architettura e urbanistica all’autorevole Architectural Forum. Il suo acuto spirito di osservazione e il suo approccio inedito, basato sull’osservazione diretta della vita urbana e del comportamento dei cittadini vincolato alla fisicità degli spazi, la resero presto un’interlocutrice obbligata in tutti i luoghi in cui si discuteva – e se ne discuteva parecchio, nell’America degli anni ‘50 – di ripristino, rinnovo, o «miglioramento» urbano.
Vite insorgenti
Mentre veniva accusata di mancare di basi teoriche («rimedi domestici» aveva definito le sue proposte Lewis Mumford, che pure la stimava, in un celebre articolo sul «New Yorker»), Jane Jacobs non credeva invece nella pretesa scientificità dell’urbanistica moderna, che guardava alla stregua di una serie di «formule magiche» di natura ideologica, dagli esiti non prevedibili quando non notoriamente nefasti. Eppure, oltre che autrice, Jane Jacobs fu anche attivista, lottando dalla parte dei deboli insieme a tutte le comunità urbane con cui entrò in contatto – prima nella sua New York e poi in Canada, dove si trasferì nel 1968 come atto polemico contro la guerra del Vietnam, ma anche subito dopo aver subito un arresto per «incitamento alla sommossa» durante le proteste contro la costruzione di un’autostrada che avrebbe tagliato in due la Lower Manhattan.
Fu un’epica battaglia, di cui non fu l’unica ma certamente la più celebre protagonista, che la vide contrapporsi a Robert Moses, il più influente e potente pianificatore di New York, pari per autorevolezza, e anche per la radicale durezza delle sue soluzioni, a quel Barone Haussmann – cui lui stesso si paragonava – che aveva aperto i boulevard nella Parigi di Napoleone III, spianando interi quartieri della città vecchia considerati malsani, irrazionali e pericolosi. Con lo stesso piglio Moses voleva aprire grandi strade veloci nel cuore di New York, tagliando e spianando aree storiche come appunto una parte del Greenwich Village in cui però, per sua sfortuna, risiedeva Jane Jacobs. Il progetto di Moses procedeva dunque a gonfie vele, finché non si imbatté nell’opposizione di un gruppo di cittadini, e soprattutto cittadine, costituiti nel «Joint Committe to Stop the Lower Manhattan Expressway»: «Non c’è nessuno, nessuno contrario al progetto, tranne un gruppo di mamme», avrebbe gridato in occasione di un incontro uno stupito quanto contrariato Moses proprio all’indirizzo di Jacobs.

È storia che alla fine la battaglia fu vinta dalle «mamme» e che l’autostrada urbana non si fece, anche grazie a un piano sperimentale, promosso proprio da Jacobs, che andava nella direzione opposta e proponeva di chiudere completamente al traffico delle auto l’area del quartiere attorno al Washington Square Park. Il libro cardine di Jane Jacobs, The Death and Life of Great American Cities, uscito negli Stati Uniti nel 1961 e relativamente presto tradotto anche in italiano grazie a Einaudi (Vita e morte delle grandi città, 1969) è considerato da alcuni come il singolo libro più importante nella storia della pianificazione urbana, e l’affermazione non è lontana dall’essere vera.
Liberazioni urbane
Esplicitamente polemico: «questo libro è un attacco contro gli attuali metodi di pianificazione e di ristrutturazione urbanistica» recita l’incipit, e primo fra i suoi diretti obiettivi era l’urbanesimo modernista della «Città Radiosa» di Le Corbusier, che aveva proposto una forma urbana, poi diventata canonica, concepita in funzione di una vita isolata (le celebri «unità di abitazione», che non mascheravano troppo il loro intento disciplinare) e dominata dagli spostamenti in auto. Allo stesso modo Jacobs non risparmiava critiche all’idea di «Città Giardino» propugnata da Ebenezer Howard che, apparsa anch’essa come un’utopia possibile per il risanamento materiale e morale delle città, aveva contribuito nella pratica a promuovere la forma dispersa e inefficiente dei moderni suburbi.
Accomunava queste visioni, secondo la lettura di Jacobs, l’idea di separare, insieme con le funzioni degli edifici (con quartieri per negozi, per case, per uffici) e dei collegamenti (strade per le auto, per i mezzi pubblici, per i pochi pedoni rimasti) anche i cittadini, con la falsa pretesa di liberarli, perché la liberazione era intesa solo come liberazione dai loro bisogni.
La presenza di grandi aree verdi – che pure accomunava i due disegni di Le Corbusier e di Howard – non poteva essere – e si rivelò non essere – una soluzione al «problema urbano», perché il tipo di problema che la città rappresentava era del tutto particolare. La città – dice Jane Jacobs – è una complessità auto-organizzata che procede per tentativi ed errori: toglierle con una pianificazione «ideologica» la possibilità di rigenerarsi attraverso scambi e combinazioni anche casuali significava ucciderne la vitalità e minarne il successo. La città funzionante è dunque un intensificatore di vita ed è piuttosto questo tipo di liberazione, tendente verso un incremento delle possibilità per chi le abita, che i pianificatori dovrebbero perseguire; uno dei suoi grandi lasciti da rimeditare oggi, in presenza di un’intensificazione dei fenomeni di urbanizzazione senza precedenti.
Impegno diretto
Certo il suo lavoro non è stato e non è esente da critiche. A partire da quelle originarie sulla debolezza dei suoi presupposti teorici fino ad altre più recenti che le rimproverano una certa fede aprioristica nelle capacità taumaturgiche del mercato. In effetti Jane Jacobs non mise mai in questione le strutture sociali e il predominio dell’economia (dopo The Death and Life of Great American Cities molti dei suoi successivi studi furono dedicati a questioni economiche, e lei stessa riteneva di aver dato in questo campo i suoi migliori contributi), ma valga come attenuante che il suo interesse fu sempre per il piccolo mondo della vita di quartiere, per le botteghe artigiane e un tipo di vita urbana che stimolasse la creatività.

La si è anche accusata di «depoliticizzare» i cittadini, attraverso un’idea di auto-organizzazione che rischiava di apparire meccanicistico-organicista. Ma chi le ha mosso tale critica, come sottolinea bene Carlo Olmo nell’introduzione all’edizione italiana di The Death and Life, lo fa muovendo da una concezione politica che si risolve nel modello della democrazia liberale di tipo rappresentativo. Ben diversa dall’idea – e dalla pratica – di impegno diretto promossa da Jacobs, che mostra di aver retto alla prova del tempo.

Wade Graham, quando affronta la sua figura nel recente Dream Cities, Seven Urban IdeasthatShaped the World (Harper) lo fa in un capitolo intitolato «Corals»: coralli, come le strutture che crescono e si sviluppano per azione collettiva in una forma cangiante e senza direzione.

La sua critica riguarda la possibilità di creare nuove zone urbane – nuove edificazioni – che riprendano la varietà di forme e di funzioni delle città del passato senza cadere nell’artificialità. In effetti però Jacobs non sembra parlare mai di urbanizzazioni nuove, ma sempre del miglioramento o del mantenimento di quelle esistenti, e dunque la critica è da indirizzare non tanto a lei, quanto a una parte del movimento del «New Urbanism» che anche dalle sue idee prese ispirazione.

L’urbanistica per Jane Jacobs non opera mai nel vuoto, e se dovessimo applicare il suo metodo all’espansione futura delle megalopoli dovremmo invece guardare a quella fascia di slums e insediamenti informali che le caratterizza come vita sorgente – verrebbe da dire: come potere costituente – con la sua dignità e le sue formazioni sociali spesso inedite, la cui energia e i cui equilibri sono l’energia e gli equilibri della città stessa,e non una sorta di tumore da debellare tramite l’uso ideologico della ruspa.
Ma se queste sono lezioni utili per urbanisti, per politici e studiosi di fatti urbani, cosa possiamo imparare invece tutti e tutte da Jane Jacobs? Per esempio a guardare le città con i nostri stessi occhi, ad altezza d’uomo – e più ancora di donna – e a valutare con il nostro buon senso, perché non sempre i professori hanno ragione.

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RICORRENZE. Il mondo festeggia i cento anni di Jacobs con iniziative da New York a Roma
Per i cento anni di Jane Jacobs sono tante le iniziative in giro per il mondo pensate per ricordare il suo pensiero e la sua azione. Conformemente, si tratta per lo più di iniziative a carattere partecipativo e aperto. Il «Center for The Living City», fondato nel 2005 a New York per promuovere e continuare il suo lavoro ha lanciato «Gifts to Jane», una raccolta di contributi delle comunità alla vita delle città. L’iniziativa è legata all’Urban Acupunture Network, rete per l’agopuntura urbana: come nell’agopuntura bastano infatti piccolissimi interventi per migliorare la vita di un vicinato, di una strada o un quartiere (www.janes100th.org).
Sempre a New York La Municipal Arts Society si è mobilitata con «Celebrating the City: Jane Jacobs at 100». Il tutto ruota attorno a un sito: www.jj100.org, un aggregatore in cui è possibile inserire o ricercare gli eventi. La stessa Municipal Arts Society è anche partner della «Jane Jacobs Medal» assegnata annualmente dalla Fondazione Rockfeller (che finanziò la ricerca alla base di The Death and Life of Great American Cities) a studiosi, attivisti o politici che hanno introdotto nuove visioni o strategie urbane. Per la prima volta nel 2016 le candidature saranno aperte anche al di fuori dagli USA.
In Canada, patria di adozione della Jacobs, il contenitore si chiama «Jane100» (www.janejacobs100.ca) e fra le proposte spicca il New Urbanism Film Fest di Toronto, ma anche qui la formula – non potrebbe essere altrimenti – è aperta a nuovi contributi.
In Europa la Facoltà di Architettura dell’Università di Delft organizza una più tradizionale conferenza dal titolo Jane Jacobs 100: her legacy and relevance in the 21st Century, che si svolgerà fra Delft e Rotterdam il 24 e 25 maggio.
In Italia da un anno sono approdate anche a Roma le Jane’s Walk: passeggiate guidate alla scoperta della città, degli angoli dimenticati e delle storie dei quartieri. L’appuntamento è per il 7 e 8 maggio (http://janeswalk.org)

Un monumento chiamato paesaggio A Torino mille architetti si interrogano sui rapporti mutevoli tra natura e umanità Busiarda 21 4 2016
«Tasting the Landscape», assaggia il paesaggio. E poi sognalo, ammiralo e pensalo. Sono le idee dell’edizione numero 53 del Congresso internazionale dell’Ifla, l’International Federation of Landscape Architects, della quale fa parte l’Associazione italiana degli architetti del paesaggio (l’Aiapp) che ha organizzato l’evento a Torino. Fino a domani sono mille gli specialisti: non soltanto architetti, ma agronomi, sociologi e filosofi. Tutti per confrontarsi sul significato degli interventi nei paesaggi e, quindi, su come «modificare» la natura, tenendo conto dell’uomo e dell’ambiente. «L’architetto del paesaggio nel nostro Paese ha difficoltà a trovare committenti - ha osservato Anna Letizia Monti, presidente dell’Aiapp - e il suo lavoro è affidato ad altri professionisti». Le aree urbane e le periferie, come pure l’agricoltura, sono al centro della discussione. «Il paesaggio italiano è un monumento di cui troppo spesso ci si dimentica», ha osservato il sottosegretario alla Cultura Ilaria Borletti Buitoni. La strada da fare è ancora tanta.
[a. mar. ]

“Dobbiamo costruire sintonizzandoci sempre con i luoghi” Antonella Mariotti
«Io sono un sognatore in ogni senso: un sognatore nella vita e quindi un architetto paesaggista sognatore». Jordi Bellmunt ha 61 anni (è direttore della Biennale del Paesaggio a Barcellona), è professore di Pianificazione Urbana e Progetti di Paesaggio alla Escuela de Arquitectura di Barcellona ed è considerato tra i più grandi paesaggisti al mondo. Lui è un convinto sostenitore di una progettazione sostenibile e condivisa. Racconta la sua idea di paesaggio come elemento vivo, che ospita, sì, la natura, ma anche l’uomo, mettendoci anima e cuore, perché «noi siamo mediterranei e questo paesaggio l’abbiamo fatto noi con la fame».
Cosa vuol dire disegnare un paesaggio, essere un architetto che modifica un luogo della natura?
«Una volta Michel Corajoud (paesaggista francese; ndr) mi disse “quando devi fare un lavoro vai nel luogo, l’idea ce l’hai dentro e stando nel luogo capirai se è una buona idea”. Ecco io ora faccio così e nei luoghi trovo le risposte».
Durante il congresso si è parlato anche di rapporti con le popolazioni.
«Sì, ma senza cadere nel populismo. Il paesaggio è una religione l'architetto paesaggista può fare del bene intervenendo sui luoghi. Quando interviene un architetto non so se fa del bene, forse lo pensa ma se lo pensa si sbaglia. E così mi sono fatto molti amici...»
Cosa vuol dire che l’architetto, non paesaggista spesso commette errori ?
«Le faccio un esempio. Qualche anno fa alla Biennale di Venezia erano esposti plastici di lavori di architetti famosi, molto belli. Erano però idee di opere prive del contesto, del paesaggio che le avrebbe circondate, galleggiavano nel nulla. Nelle sale sono arrivate centinaia di studenti, ho pensato: cosa impareranno questi ragazzi? A fare opere che non sono collegate con i luoghi. Che senso ha?».
Quindi le grandi opere di architettura sono inutili?
«Non dico questo, dico che di Torre di Bilbao ce ne può essere una, non centinaia. Sono eccezioni».
Si pensa al paesaggio solo come natura, mentre qui si è detto che i paesaggi naturali sono opere umane. Cosa vuole dire?
«Io amo moltissimo la Camargue, è stupenda. Uno se la guarda dall’altro dice “che splendida opera della natura”. E sbaglia. La Camargue è un’opera di alta ingegneria, sono tutti canali artificiali, tutto è stato modificato dall’uomo e dalla sua fame, dalle sue esigenze di sopravvivenza».
Dalla fame? Dall’agricoltura allora?
«Attenzione. L’agricoltore non guarda il paesaggio ma ai suoi guadagni, è un industriale del paesaggio. Ma sì a volte anche l’agricoltore è un paesaggista, a modo suo».
Il futuro delle città, dei luoghi è nelle mani degli architetti paesaggisti?
«Lo scopriremo alla Biennale del paesaggio che stiamo organizzando a Barcellona. Il titolo è “Tomorrow Landscapes”, ci interrogheremo su cosa interessa di più alla gente».
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“La nuova estetica si ispira alle città del Rinascimento” Busairda 
Yu Kongjian è nato da una famiglia che lavorava la terra, nella provincia dello Zhejiang (dalla quale provengono molti cinesi che vivono in Italia e Piemonte, a Barge per esempio). Con la natura ha sempre avuto grande dimestichezza, l’architettura del paesaggio è una vocazione con radici profonde.
Architetto, come valuta l’urbanizzazione forzata di milioni di contadini cinesi, che hanno dovuto abbandonare villaggi e campagne per essere trasferiti dalle autorità in megalopoli nuove di zecca?
«La rilocalizzazione è un grosso problema. Ora è un po’ meno accentuata ma prosegue, anche se il governo comincia a capire che è problematico distruggere le culture locali, la memoria del passato. Oggi tutti vogliono andare in città, ma natura e paesaggio hanno giocato un ruolo fondamentale nella cultura cinese, vanno tutelate e rivalutate».
La Cina è dunque davanti a una riflessione politica sull’importanza della natura, del paesaggio e della sostenibilità?
«Certo. Non è facile, ma un dialogo esiste. Chi decide però sono sempre i politici. Il nostro è un lavoro più umile, non è facile essere ascoltati, a meno di avere una grande credibilità internazionale».
Lei vive tra Cina, Usa ed Europa, ha avuto tanti riconoscimenti internazionali (tra cui 9 Asla Honor Awards dell’American Society of Landscape Architects), a quali modelli si ispira?
«Non alle megalopoli americane come Los Angeles o Las Vegas, disegnate male e cresciute peggio, piuttosto alle teorie, ad esempio, di Jane Jacobs, che molto ha scritto sulle città americane a misura d’uomo. Credo sia necessaria una nuova estetica basata sulla sostenibilità e l’ambiente. In Cina esisteva, ma negli ultimi 30 anni l’abbiamo persa. Ora la stiamo recuperando. Mi ispirano molte città italiane medievali e rinascimentali, a misura d’uomo come Firenze, Venezia, Bergamo, Torino stessa».
Ha creato un’azienda che si chiama Turenscape, cosa significa?
«Tu significa terra, Ren gente, essere umano. Bisogna ricreare l’armonia fra la terra e le persone. La applico ai miei progetti, ai materiali: spesso reperiti in loco come le impalcature di bambù, materiale economico, componibile, sostenibile, a volte sono moderni come il vetro e l’acciaio; bisogna comunque adattarsi ai luoghi, mai stravolgere la natura, dobbiamo lasciarla fare».
Italia e Cina hanno qualcosa in comune, per dialogare?
«Sicuro, condividono una profonda estetica del paesaggio, amano la bellezza, le nostre culture si sono sviluppate dalla natura. Siamo differenti ma entrambi abbiamo un’alta densità di popolazione, molti dialetti, cibi, climi, tecniche di costruzione diversificate. Le culture possono incontrarsi, imparare l’una dall’altra, lo fanno da millenni».
Quali tecniche può introdurre in Occidente?
«Nuovi modi di fertilizzare i giardini, ad esempio, tecniche agricole ormai dimenticate in Occidente con l’agricoltura meccanizzata».
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La civiltà oltre la cartolina Cesare Martinetti  Busiarda
Il bosco dei Paduli, laggiù nel Salento, da uliveto secolare, era diventato un abbandono di polvere ed erba secca. Ora grazie a un gruppetto di professionisti prima emigrati e poi tornati a casa è diventato il più vasto parco agricolo d’Europa. A Bagno di Romagna, invece, intorno alla ricostruzione di una mulattiera crollata s’è innescato un processo sociale che ha portato alla rinascita non solo del paesaggio ma di lavoro e mestieri perduti. In Iraq il progetto di un’italiana, Elena Cattarossi, ha permesso il recupero dell’ecosistema paludoso tra Tigri ed Eufrate, spianato a suo tempo da Saddam, secondo il vizio comune dei dittatori di voler dominare la natura, oltre agli uomini.
Queste ed altre storie si apprendono al congresso mondiale degli specialisti dell’architettura del paesaggio che si è aperto ieri a Torino. Non si pensi ad un club di esteti illuminati e nostalgici del tempo che fu. Negli Stati Uniti Frederick Law Olmsted, che a metà dell’Ottocento ha disegnato Central Park a Manhattan, ha codificato la «Landscape architecture» con il moderno e democratico concetto di «diritto». Non un appannaggio aristocratico (com’era nella vecchia Europa) ma un qualcosa che deve servire a migliorare la vita di tutti.
Ed è questo il messaggio del congresso: il paesaggio ha un ruolo sociale, economico, biologico. Non è una cartolina, è il lavoro dell’uomo espresso nelle geometrie delle vigne, nell’equilibrio tra boschi e pascoli, nei terrazzamenti che strappano terra da coltivare dove non ce n’è. È l’alternarsi di viali, campi, mulini, boschi e bialere della pianure. Tutti codici sapienti e secolari della storia d’Italia spesso rovesciati e violentati. Basti pensare alle centinaia di capannoni cresciuti senza regole nel boom del Nord-Est, e ora abbandonati, che assediano il dolce paesaggio intorno alle Ville Venete.
A Matera si è riusciti a recuperare uno dei «Sassi» e ora uno dei suoi promotori, Pietro Laureano, è impegnato nel recupero di villaggi rurali cinesi secondo il precetto confuciano del «mutamento» e nella costruzione di un’oasi negli Emirati. Il mondo si muove. E l’Italia? Anna Letizia Monti, presidente dell’Associazione architettura del paesaggio che ha organizzato il congresso, parla della necessità di una conservazione «attiva»: il paesaggio è vita e tra Tigri ed Eufrate, per esempio, sono tornati gli «arabi delle paludi» con la loro tradizionale economia. Nel sistema Italia si dovrebbe disboscare la moltitudine di leggi e leggine, semplificare, assumere la concretezza come metodo. Non altre norme, ma meno norme che consentano una sostenibilità reale di un paesaggio multiforme e unico.
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L’intervento a Battersea Park, Londra Architettura che s’interroga Coerenza e libertà di GehryCorriere della Sera 21 Apr 2016 Di Vittorio Gregotti
ALondra, oltre agli ormai famosi 123 grattacieli i cui progetti attendono l’approvazione per essere realizzati, è in avanzata costruzione il grande triangolo di circa 330 mila metri quadrati che affaccia sul Tamigi, a est di Battersea Park, attorno alla Battersea Power Station, monumento della prima era industriale, per molti anni difeso dall’attacco speculativo. Oggi però la speculazione è vincitrice e l’interpretazione praticistica del linguaggio della modernità, oltre alle previsioni di un aumento di due milioni di nuovi abitanti nei prossimi cinque anni per Londra, ha offerto il sostegno decisivo.
All’interno di questo ampio e centralissimo nuovo contesto, uno degli edifici diversamente concepiti sarà costruito su un progetto, noto da qualche tempo, di Frank Gehry, la cui prospettiva viene utilizzata sui quotidiani come materiale di propaganda per la vendita degli appartamenti.
Le qualità del disegno di Gehry sono come sempre, anche se collocate in un discutibile contesto, di grande interesse, forse anche proprio per gli interrogativi delle speciali soluzioni rappresentative dello stato delle cose proposto dal celebre architetto. Si tratta di interrogativi diversi piuttosto che proposte di indicazioni fondate sul difficile futuro della pratica artistica dell’architettura dei nostri anni, ma certo, nel caso di Frank Gehry, assai più interessanti, proprio perché dubitative, e soprattutto lontane dalle proposte che sono oggetto della notorietà televisiva di alcune delle archistar sempre alla ricerca di novità formali, provvisorie e mercantili.
Ho conosciuto Frank Gehry
una quarantina di anni fa negli Stati Uniti, e poi a Milano in occasione del concorso delle aree di Pirelli Bicocca; è stato mio ospite a Venezia, poi ci siamo rivisti a Bilbao, a Roma e ancora nel suo studio negli Stati Uniti. Ho seguito sempre con grande interesse l’evoluzione del suo lavoro e la sua complicata relazione con la tradizione della modernità che si era divisa, dopo il convegno Ciam del 1951, in due parti: una che guardava ad una nuova relazione, senza imitazioni, con il contesto e la storia, l’altra che pensava alle supertecniche come unico futuro per l’architettura.
Queste complicate riflessioni intorno a una diversa concezione delle sequenze spaziali trovarono una prima riposta compiuta nel museo di Bilbao e con la sua tesi di una distinzione tra spazi di uso e libere forme esterne di ciò che appare della costruzione, forse una nuova interpretazione dell’idea di decorazione. Poi il suo lavoro è divenuto un’intelligente variazione continua e coerente di quei principi. A quel punto la critica alle convenzionalità di alcune interpretazioni praticistiche del movimento moderno è ciò che caratterizzerà il suo lavoro. Si tratta di un lavoro di architettura che cerca la libertà, sovente operato con talento e misurate eccezioni anche rispetto alla consolidata tradizione della qualità delle opere stesse di Gehry.
Tutto questo mentre alcune altre archistar, con motivazioni assai diverse, sembravano volersi aprire a nuove modalità di linguaggio come illustrazione del globalismo finanziario compiuto. Tutti cercavano, specie a partire dagli anni Ottanta, punti di riferimento anche nelle arti visive, anch’esse in crisi e a loro volta disperatamente alla ricerca di ogni originalità stilistica assai incerta nelle indicazioni di un futuro possibile e necessario di fronte alle contraddizioni del presente.
La soluzione proposta da Frank Gehry nel caso di Battersea Park sembra, o meglio potrebbe essere interpretata, pur nella grande qualità e astuzia del disegno, piuttosto come un ritratto del tremblement de terre a cui la cultura, ed in particolar modo le arti, sono sottoposte nei nostri anni, e di un caos inutilmente alla ricerca della diversità temporanea che attraversa anche la pratica artistica dell’architettura.
Un ritratto certamente di grande qualità della nostra condizione quello di Gehry, che offrirà anche suggerimenti futuri, ma destinato però a descrivere una condizione di crisi senza alcuna indicazione per il possibile necessario per risolverla.

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