lunedì 18 aprile 2016

Brecht a Milano, ieri e oggi




BRECHT NEL DESTINO

L’OPERA DA TRE SOLDI TORNA DOPO STREHLER COSÌ L’AUTORE SCELSE IL PICCOLO COME EREDE L’appuntamento Nel 1956 il drammaturgo tedesco assistette allo spettacolo rappresentato dal teatro milanese e ne fu entusiasta. Da allora cominciò un legame in «esclusiva

Corriere della Sera 18 Apr 2016 di Maurizio Porro
«Lo spettacolo è magnifico. Molte grazie, BertoltB recht » . Con questo biglietto il 58enne drammaturgo di Augusta dà le sue stellette alla memorabile Opera da tre soldi in scena il 10 febbraio 1956 nella sala di via Rovello.
Schivo, non riconosciuto né particolarmente sorridente, giacca alla russa e rigorosamente senza cravatta, l’autore sgattaiolava via dalla pazza ed entusiasta folla radical chic. Solo la nota insistenza di Grassi lo convinse a mostrarsi al proscenio ad ora tarda, con i tram già in rimessa. Alla seconda recita, dedicata ai lavoratori, Bertolt si concesse invece volentieri sullo sfondo del «suo» siparietto brechtiano, ripreso dai flash: perché si sentiva più a suo agio col pubblico sindacalizzato, meno borghese. Poi ripartì. Era arrivato a Milano l’8 febbraio, aveva avuto incontri ravvicinati con l’intellighentia milanese, il futuro Nobel Quasimodo in testa, blindato nel foyer con la sinistra riformista made in Milano.
Lo spettacolo con Carraro, Carotenuto, Milly lo conquista talmente che al regista scrive poche parole poi sempre invidiate da tutti i teatranti: «Caro Strehler, mi piacerebbe poterle affidare per l’Europa tutte le mie opere, una dopo l’altra. Grazie». Non Milano, non l’Italia, ma l’Europa. Fu così e non fu così. Nel senso che la storia del Piccolo e di Strehler ha molte storiche coincidenze con Brecht fin dalle prime avvisaglie del 1948. A conti fatti, 14 titoli tra drammi, poesie, recital e canzoni, fra capolavori come L’anima buona di Sezuan (la Fortunato, la Jonasson), Schweyk col suo carro armato sotto la neve e Vita di Galileo (Buazzelli superstar), di cui rimane solo l’emozione di chi c’era e sentiva che le parole uscivano dal teatro e comunicavano col mondo. Ma ci furono anche appuntamenti saltati.
Non certo «L’opera» che sarà ripresa la stagione successiva e nel ‘72 come grande musical espressionista con Modugno, che sullo stesso palco del Lirico era stato Rinaldo in campo, Milva e Tedeschi: sarà il copyright, condiviso ora con un altro grande, Bob Wilson, complici i song meravigliosi di Kurt Weill, cui si era ispirato anche Rota per il refrain della Dolce vita. A parte un saggio a scuola con «La linea di condotta», il testo ispirato all’Opera dei mendicanti di John Gay, ridotto al cinema da Pabst e messo in scena da Bragaglia nel ’31, sigillò il matrimonio ideologico teatrale (ah, lo stile epico, la frase tra parentesi…) tra il primo stabile italiano e Brecht, genio esule prima in Usa, poi in Svizzera, infine a Berlino, col dispiacere che là l’Est duro e puro si teneva l’80 per cento dei diritti d’autore.
La scoperta del teatro brechtiano unito al genio di Strehler — non dimentichiamo mai che furono grandi poeti — fu l’evento più clamoroso del dopoguerra, con diramazioni all’estero quando Strehler allestì la Dreigroschenoper a Parigi e si vociferò anche di una edizione americana con Dean Martin.
Da qui partono le varie dispute, la gara con Luchino Visconti che parteggiava per le nevrosi borghesi, gli invidiati anni in cui il Piccolo tenne in cassaforte le priorità brechtiane facendo da filtro, da mediazione culturale per i teatri che facevano richiesta all’editrice tedesca Suhrkamp. «Grassi ha un ruolo tra il censorio e il garante sull’opera di Brecht in Italia» scrive Alberto Benedetto nell’informatissimo Brecht e il Piccolo Teatro (Mimesis). Questo ius primae noctis teatrale venne poi ufficializzato come esclusiva dalla «Vedova Coraggio» Helene Weigel dopo la morte dello scrittore, il 15 agosto 1956.
La telegrafata notizia cadde come un fulmine nella penombra del Piccolo dove Strehler, in fila 10, provava Arlecchino: si continuò il lavoro pensando a lui. La barca dei comici traballava. Da allora dire Strehler vuol anche dire Brecht e viceversa, gemelli monozigoti del famoso teatro d’arte per tutti insegnando col fascino del palcoscenico. Fino alla Santa Giovanna dei Macelli che mise a dura prova il cuore liberty di Valentina Cortese
La produzione Proposti negli anni 14 titoli. Tra i protagonisti Carraro, Carotenuto, Modugno, Milly, Milva e alla Madre Coraggio di Sarajevo con la grande Giulia Lazzarini, in scena per una sera in un periodo controverso, col regista esule politico. «Che vada a fare il canto del cigno altrove» dissero con consueto fair play i leghisti.
I progetti rimasti nella testa di Strehler comprendono Terrore e miseria del terzo Reich e chissà che altro, ma i suoi grandi spettacoli hanno segnato la strada, stregato gli attori, prima che ritrovassero il potere mattatoriale. Ma la grande magia di Strehler è stata quella di rendere amato, capito e accettato un autore scomodo, scandaloso ( Galileo rischiò di far chiudere il Piccolo e le autorità negarono il visto di ingresso al Berliner Ensemble che nel ’51 doveva recitare alla Biennale Madre Coraggio), senza smussarne gli angoli politici ancora attualissimi, (basti pensare a «Puntila e il suo servo Matti» rivisto all’Elfo Puccini), le azioni del tragico cabaret della vita e della storia: il problema della responsabilità della scienza, quello dell’ingiustizia e dell’amore che non basta a cambiare le cose resta sempre con noi. I comandamenti del teatro, con Strehler, si fanno emozioni.

«Un po’ Bach e molto jazz Spiazzante suonare Weill»

Grazioli dirige la Verdi. Per «riparare» ai tagli del passato

Corriere della Sera 18 Apr 2016 Di Enrico Parola
La particolarità «Eseguiremo tutto quello che ha scritto. Il problema è come: lui forniva molte opzioni strumentali» «Ripristinare le musiche originali non significa semplicemente aggiungere una certa quantità di musica rispetto alla versione voluta da Strehler qui al Piccolo: Giorgio aveva chiesto tagli e modifiche all’orchestrazione dettate dalla sua poetica, ma Weill aveva una visione sua e ben precisa dell’Opera da tre soldi». Giuseppe Grazioli è stato chiamato al Piccolo non solo per dirigere l’orchestra Verdi, ma anche per dirimere parecchi interrogativi che la partitura di Weill solleva. «Scegliere che cosa suonare è stato semplice: col regista Damiano Michieletto abbiamo deciso di eseguire tutto quello che Weill ha scritto; meno immediato è stato decidere come suonarlo: Weill aveva a disposizione degli abili polistrumentisti capaci di alternarsi al contrabbasso e al trombone, di passare dalla tromba alla batteria; la storia interpretativa ha codificato, ma anche incancrenito le scelte strumentali: una certa canzone viene accompagnata sempre da certi strumenti, mentre l’autore era più aperto sia perché poteva mancare un certo elemento all’organico sia perché l’esecutore poteva puntare su un certo effetto timbrico».
Uno degli esempi più folgoranti si trova nella Tango-Ballad: «La partitura riporta l’opzione di un mandolino, strumento che nessuno includerebbe negli stereotipi legati all’opera, al tango o al jazz; eppure l’indicazione ha un senso preciso: il mandolino è uno strumento che non si usa più nei teatri, è un retaggio nostalgico del passato e infatti Weill, con acuto senso teatrale, lo suggerisce in un momento particolarmente nostalgico». Secondo Grazioli la riflessione sulle molteplici opzioni strumentali e quindi sui contenuti stessi della musica va addirittura oltre l’Opera da tre soldi: «Ho appena registrato con la Verdi la suite dall’opera curata dallo stesso Weill: prescrive un organico molto più ampio, decisamente sinfonico, e compone appositamente delle ulteriori parti quasi siano un tessuto connettivo che lega le varie melodie. Cercando negli archivi, ho però scoperto che negli stessi anni Weill curò una versione per orchestra da salotto, ed è impressionante vedere come le stesse note che suonavano così intellettualistiche, sferzanti, corrosive in una veste sinfonica, affidate a un’orchestra da ballo diventano esse stesse note da ballo, sembrano fox trot o blues».
Analizzando l’intera partitura stupisce l’intima coesione: «Si esalta la straordinaria capacità di Weill di inventare melodie immediate e memorabili, divenute degli standard nel jazz; ma ha anche un controllo totale, direi bachiano, della struttura e dell’armonia: una cellula di tre note compare nella prima aria di Mackie Messer, compie in viaggio incredibile lungo tutta l’opera e ricompare nel corale finale; altri spunti vengono ripetuti a distanza semplicemente più lenti, ma basta questo per spingere il pubblico a riflettere sul passato, a leggere in chiave diversa quanto visto prima».

Sulla scena i migranti in gabbia «Diseguaglianze mai così attuali
Corriere della Sera 18 Apr 2016 di Giuseppina Manin
Questa non è un’Opera per vecchi. Aveva 30 anni Bertolt Brecht quando la scrisse, 28 Kurt Weill che ne compose la musica, 30 Lotte Lenya, fulva Jenny dei Pirati alla «prima» di Berlino del 1928, regia di Erich Engel, anni 37. E 33 anni aveva Giorgio Strehler nel ‘56, quando la portò al Piccolo di Milano, Tino Carraro, Mario Carotenuto, Milly in scena, Brecht in platea. E di nuovo Strehler la riprese nel ’72 con nuovo cast, Domenico Modugno, Gianni Agus, Milva, Giulia Lazzarini.
Adesso, a sessant’anni dallo storico debutto, a riportare al Piccolo L’opera da tre soldi è Damiano Michieletto, che con i suoi 40 anni si ritrova a essere il decano di tanta e tale compagnia di giovani. La sua nuova edizione, da domani allo Strehler, vedrà impegnati venti attori tra cui Marco Foschi (Mackie Messer), Peppe Servillo (Peachum), Rossy De Palma (Jenny), più l’orchestra Verdi diretta da Giuseppe Grazioli. «Quest’Opera è uno strano ibrido — sostiene Michieletto —. Non è lirica, non è musical, non è prosa. Eppure tutti recitano, cantano, ballano. Brecht aveva scritto: “È un pezzo con musica”. Prendo per buona la sua definizione».

Naturalmente da allora tanto tempo è passato. «Il mondo è cambiato e anche noi — ricorda il regista, noto per tante sue controverse letture liriche —. Ma come accade per i grandi testi l’Opera non smette di parlarci del nostro presente. Oggi più che mai » . Perché quella storia ispirata alla settecentesca «Beggars’ Opera» di John Gay, epopea grottesca e feroce di straccioni e ricconi, malavitosi e prostitute, guardie e ladri, tutti insieme delinquenzialmente, ai nostri occhi è vita vissuta.
« Il sottoproletariato che Brecht tanto disprezzava e che pareva destinato a scomparire con la rivoluzione industriale, è la nostra realtà. Il divario tra ricchi e poveri, tra Nord e Sud del pianeta, si è fatto abisso. La miseria dei tanti alimenta l’opulenza dei pochi, la diseguaglianza si è fatta sistema e il sistema, per tener fuori chi non ne fa parte, erige i muri…».
Una marea di diseredati che Michieletto farà comparire in scena come migranti, in mutande e giubbetto arancione di salvataggio, ammassati dietro una gabbia dalle cui sbarre protendono invano le braccia verso la ricca tavola traboccante di cibo che sta fuori. Mensa opulenta di un obeso gastroforo, che si ingozza solitario e impudico. La metafora è palese. «Il monito di Brecht, chi ha fame si ribellerà, dovrebbe essere il nostro allarme quotidiano. Non c’è barriera che tenga capace di contenere tanta urgenza e sofferenza».
Teatro-denuncia, epico e straniante, come voleva Brecht. «I due caratteri principali, Mackie Messer e Peachum, sono due facce della stessa medaglia. Il primo esponente di una categoria di farabutti artigianali in via di estinzione, destinata a venire assorbita dagli imprenditori dello sfruttamento modello Peachum, “l’amico del mendicante”, antesignano di una finanza criminale planetaria le cui malefatte affiorano di tanto in tanto e subito vengono insabbiate».
Pescecani di diverse nature, uno con il coltello sotto il braccio, l’altro che con i coltelli traffica, ci fa i soldi, arma le mani altrui. A finire sotto processo e rischiare la forca sarà naturalmente Mackie, spaccone, cialtrone, esibizionista, amante di quella «bella vita» che dà il titolo alla sua ballata: «La bella vita è quella che mi va/ con donne, soldi e amore a volontà/ La vita è bella quanti più ce n’è/ stai sempre libero, stai come un re». «Filosofia molto diffusa. Mackie mi fa pensare a Felice Maniero, il boss della mafia del Brenta, uno che sembra sempre pronto a sbarcare in tv», dice il regista.
Tra i colpi di scena del processo a Mackie, vero motore drammaturgico di questa lettura, anche il suo interrogativo, provocatorio solo in apparenza: è più immorale rapinare una banca o fondarla? «Alla fine ad accumunare tutti è il cinismo — conclude Michieletto —. Alla fine ha ragione Mackie, il denaro compra tutti». Perché queste sono le regole del gioco: «Apprendete la morale, gente piena di onestà/ A ‘sto mondo nulla vale per chi grana non ne ha/ Siamo giunti al lieto fine colmi di felicità/ Se ci sono le monetine, sempre lieto il fin sarà».

E «l’Opera da tre soldi» diventa processo alla storia
Gli immigrati sui barconi? Il nuovo sottoproletariato. Dopo 60 anni, L'opera da tre soldi torna in scena al Piccolo Teatro di Milano. E subito va a processo.
Libero 19 apr 2016 IRENE VALLONE . RIPRODUZIONE RISERVATA


Il capolavoro del grande drammaturgo tedesco, questa volta passerà sotto le forche caudine di Damiano Michieletto. Il regista cult della lirica, Oliver Awards 2016 per i Cavalleria Rusticana e Pagliacci alla Royal Opera House, non si è lasciato intimidire. E se Bertolt Brecht alla prima applaudì la messinscena di Strehler dando il via ad un lungo sodalizio artistico con il teatro milanese, la sentenza da stasera passa al pubblico. «Lo spettacolo ruota attorno al processo contro il bandito Mackie Messer, ogni personaggio della storia é chiamato sul palco a testimoniare. A giudicare saranno gli spettatori» spiega il regista veneziano. Per rendere più evidente lo sfondamento della «quarta parete», il cult della lotta di classe tra ricchi e poveracci, dai malavitosi della Londra vittoriana (Brecht) agli immigrati italiani in America della crisi del 1914 (Strehler), la vicenda arriva ai nostri giorni. «Borghesia e proletariato oggi sono il nord e il sud del mondo. C'è un nuovo proletariato che preme, quello delle valanghe di immigrati di cui noi non riusciamo a distinguere nemmeno la provenienza» precisa. Dunque la storia del delinquente che osa sposare la figlia del boss dei mendicanti di Londra e per questo finisce al patibolo ma Brecht lo farà graziare e nominare baronetto dalla Regina , porta in dote da parte degli ultimi lo stesso quesito: «chi ci costringe a questa esistenza alla quale difficilmente possiamo sottrarci? Questo mondo vive nell'opulenza a dispetto di chi ha fame! E allora lasciateci in pace. Siate pure indifferenti ma non fateci la morale».
Per dare il turbo all'effetto di straniamento della musica di Kurt Weill in buca ci sarà l'organico semicameristico dell'Orchestra Giuseppe Verdi diretta da Giuseppe Grazioli. In scena, non attori ma cantanti che sanno anche recitare, dal protagonista Marco Foschi (Mackie), Beppe Servillo (Jonathan Peachum), Maria Roveran (Polly) e la musa di Pedro Almodòvar Rossy de Palma (Jenny delle spelonche). Oltre allo spettacolo, in scena fino all'11 giugno, il Piccolo dedica a Brecht 1956-2016. Sessant'anni di Teatro, un ciclo di incontri nel chiostro Nina Vinchi e una video installazione interattiva in via Rovello, realizzata dal dipartimento Design del Politecnico


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