sabato 2 aprile 2016

Cerco l'estate tutto l'anno: "Il caciocavallo più buono del mondo" e il paese immaginato dalle terrazze romane della sinistra populista e antimoderna



Adesso, si può votare sì per fare uno scherzo al PD.
Oppure si può andare al mare per fare lo scherzo definitivo alla sinistra populista nemica della modernità e del progresso, quella che dalle terrazze romane sogna l'idillio bucolico e "il caciocavallo più buono del mondo".
Votare contro il PD, sempre e comunque, è in realtà l'unico argomento che mi convince. Lasciare il concetto di moderità in mano ai liberali, per rimanere in compagnia di chi sogna "i fagioli di Sarconi, le melanzane rosse di Rotonda, i peperoni gialli di Senise... la vacca podolica, il caciocavallo più buono del mondo e le soffici mozzarelle d’altura", immaginando dal centro storico di Roma che la realtà coincida con i ricordi dei suoi safari estivi tra i selvaggi meridionali, no grazie.
Ovviamente, da nessuna parte c'è scritto qua che le trivelle sono una bella cosa. Non stento nemmeno a credere che il presidente di Federpetroli si intesti la rappresentanza della modernità. In questo senso però si trova perfettamente d'accordo con Medici - che sulla modernità sputa pur godendo dei suoi vantaggi - e con tre quarti di ciò che rimane della sinistra, come quella federazione del PRC che ha fatto quel ridicolo manifesto.
La mia impressione è che della sinistra sia rimasto solo quello che è rimasto anche e soprattutto per via di questa mentalità totalmente subalterna.
Le trivelle vanno contestate in nome di una modernità progressiva e di uno sviluppo all'avanguardia, vanno contestate perché sono invece la retroguardia di un concetto di sviluppo superato, non in nome di un paese dei balocchi mai esistito o dell'amore cosmico.
Tra "primavera referendaria" e "spallata d'autunno", insomma, Renzi dorme sonni tranquillissimi [SGA].

Il lupo della Val d’Agri e le mani dell’ex ministra 
Soltanto l’industrialismo miope di Federica Guidi può pensare che una terra di pascoli e vitigni possa basare il suo sviluppo su pozzi che si esauriranno lasciando il deserto 

Sandro Medici Manifesto 2.4.2016, 23:59 
Il fatale emendamento petrolifero di Federica Guidi non rivela soltanto una miserabile storia di interessi privati in pubbliche funzioni, di indegne corruttele, di ingordi accaparramenti, di parassitismi servili, di favoritismi, clientelismi e meschinerie varie. 
Dietro la sua spregiudicata e insistita inclusione nella legge di stabilità traspare nitidamente la rovinosa strategia economica di tutti i governi italiani che si sono avvicendati tra un secolo e l’altro. Berlusconi, Prodi, Monti, Letta, Renzi, e diversi altri prima di loro. 
Nel suo scarno e burocratico linguaggio, quell’emendamento esemplifica un modello di sviluppo basato sul danneggiamento progressivo della natura, da prolungarsi fino a stremare tutte le risorse ambientali. Fino all’ultima goccia di petrolio. Fino all’ultimo soffio di metano. Un’avidità accumulatoria, uno sfruttamento feroce, un impulso devastante, una smania distruttrice. Per poi lasciare i territori al loro destino desertificato. 
Siamo in Basilicata, terra ancora largamente selvaggia, anzi selvatica. Un paese quasi perfetto, recita un delizioso film attualmente nelle sale. È una riserva naturale della nostra smozzicata e scrostata Italia. Ebbene, in uno dei suoi nuclei incontaminati, lungo le valli racchiuse tra le montagne del Potentino, le ultime creste del Cilento e le prime cime del Pollino, da decenni si estraggono idrocarburi. Frantumando la crosta profonda per farne sprizzare olio combustibile o ansimare gas naturale. 
Successivamente incapsulati nei due impianti di raccolta, uno a Viggiano, in Val d’Agri, e l’altro in Val di Sauro, l’ormai noto Tempa Rossa. E poi dirottati nei tubi di un lungo oleodotto che finisce la sua corsa nel girone degli inquinati, a Taranto, dove viene infine stivato nelle petroliere, per andarsene in giro per i mari del mondo. 
La produzione petrolifera lucana assicura il fabbisogno energetico nazionale tra l’8 e il 15% (un’oscillazione che dipende dalle diverse fonti: se più rigorose o se più compiacenti). È la più estesa e voluminosa piantagione idrocarburica di terraferma in Europa. Prende impulso negli anni successivi al terremoto del novembre del 1980. E nei decenni dissemina di pozzi l’intera regione. Fino agli ultimi generosamente concessi, che si sono arrampicati fin sulle colline che circondano il Monte Vulture, scavando e perforando accanto ai filari dell’Aglianico, uno dei rossi italiani più prestigiosi, un vino di caratura internazionale. 
Ma è nella Valle dell’Agri che si registra la maggiore concentrazione di impianti. In una morbida e assolata vallata, coltivata da secoli e da secoli popolata da mandrie e armenti. C’è un’agricoltura d’eccellenza e un allevamento pregiato. Ci sono i fagioli di Sarconi, le melanzane rosse di Rotonda, i peperoni gialli di Senise; c’è la vacca podolica, il caciocavallo più buono del mondo e le soffici mozzarelle d’altura. C’è anche un meraviglioso (quanto insolito e misterioso) sito archeologico: Grumentum. Tutto ciò convive faticosamente con i pozzi, le autobotti, le raffinerie, e purtroppo sembra destinato a soccombere. 
È come se tutti quei pozzi, decine, centinaia, succhiassero il midollo vitale di quella valle, via via impoverendo e scarnificando la terra, offuscando e contaminando l’aria. E non casualmente proprio quell’area produttiva è attualmente sotto inchiesta da parte della procura di Potenza. I reati ipotizzati sono smaltimento illegale delle scorie di lavorazione e inquinamento atmosferico, con tanto di arresti, incriminazioni e avvisi di garanzia; e tra i coinvolti c’è ovviamente anche Gianluca Gemelli, il compagno dell’ex ministra Guidi, imprenditore petrolifero di risulta, efficiente intermediario al servizio delle grandi compagnie. 
Da qualche anno la ricerca si è poi spostata nella contigua Valle del Sauro, dove per la considerevole quantità di greggio si è reso necessario realizzare un nuovo centro di raccolta, per l’appunto a Tempa Rossa. Un impianto che sorge su un territorio mosso e aspro, ora roccioso, ora verdissimo, a scarsa densità insediativa. 
È uno di quei gioielli naturali incontaminati, che sono rimasti tali proprio perché la mano umana, per caso o per ragione, si è sempre tenuta alla larga. Vi hanno trovato rifugio nel passato le bande dei briganti e oggi si aggirano solo pastori e boscaioli. Ma nel complesso quei monti e quelle foreste sono disabitati, frequentati semmai da falchi e gatti selvatici, cinghiali, volpi e perfino lupi in branco. All’incirca, la vita da quelle parti scorre come quella descritta in Cristo s’è fermato a Eboli di Carlo Levi, che consumò il suo confino proprio ad Aliano, uno dei paesi che rispettosamente circondano quell’area, senza tuttavia mai azzardarsi a sconfinare. 
Di fronte a questo stridore, a questa incompatibilità, di fronte al confliggere tra opposte civiltà, viene da chiedersi se c’è davvero una ragione preminente nel volersi assicurare (ancorché parzialmente) una riserva energetica, pur se a scapito di un equilibrio ecologico, un’economia locale, una condizione umana sostenibile. Davvero abbiamo bisogno di gas e petrolio, e dunque d’inquinare irrimediabilmente terre, mari, cieli e la nostra stessa salute, oltreché arricchire ulteriormente, anche corrompendo e truffando, chi già detiene patrimoni produttivi e finanziari stratosferici? 
Insomma, che senso ha investire in un settore destinato a esaurirsi e necessariamente a contrarsi, per far posto ad altre fonti d’energia? Oppure, prima che questo modello tramonti definitivamente siamo cinicamente autorizzati a raschiare gli ultimi barili lucani e chissenefrega della Basilicata? 
Del resto, come si fa a contrapporre i «fili d’erba» di Rocco Scotellaro ai fieri e svettanti pozzi di petrolio del signor Total o del signor Shell? È una battaglia persa, per quanto molti possano essere affascinati dalle battaglie perse e continuino a battersi per salvare la marmotta del Pollino o la fragola di Metaponto. 
Un paese intelligente e con la schiena dritta avrebbe da tempo abbandonato la via idrocarburica al progresso e dirottato le proprie risorse alla ricerca e alla produzione di energia alternativa. Invece siamo ancora qui a scavare petrolio per conto terzi: sciocchi, subalterni, servili. E corrotti.
E lo faremo ancora, almeno finché avremo ministri come Federica Guidi. Che dopo aver assicurato appalti milionari ai suoi affetti, travolta da accuse e contumelie e forse da un tantino di vergogna, nella sua lettera di dimissioni dice d’aver agito «in buona fede». Sarà sconcertante, ma lei è davvero convinta che solo all’ombra dei pozzi di petrolio ci sia crescita e sviluppo: e per raggiungere questo scopo, non c’è etica o opportunità in grado di frenarla. Nella sua attardata e modesta cultura industrialista proprio non riesce a capire come ci possa essere qualcosa di meglio che sporcarsi le mani di nero. 
E come lei, la gran parte dei politici, degli imprenditori e perfino di qualche sindacalista.
Con tutti costoro abbiamo tuttavia un appuntamento, tra un paio di settimane. 
Quando andremmo a votare sì al referendum contro le trivelle petrolifere. Ecco, questa potrebbe non essere una battaglia persa.

La sinistra punta sul referendum-trivelle “Prova generale della spallata d’autunno”
Renziani tranquilli: azzurri e leghisti non voterannodi Carlo Bertini La Stampa 2.4.16
Non è tanto la mozione di sfiducia dei grillini il terreno di scontro che attende il governo di qui alle prossime settimane: quella non preoccupa granché, tanto più che all’appello dei 5stelle, definito «patetico» dal vicesegretario Guerini, la minoranza Pd ha ovviamente risposto picche, «non potendo fare altrimenti pena l’uscita dal partito», allarga le braccia uno degli uomini del premier. E’ piuttosto la data del 17 aprile, quella del referendum sulle trivelle, ad infiammare gli animi, perché nelle intenzioni della sinistra fuori dal Pd può costituire la prova generale della «spallata» che si vorrebbe infliggere a Renzi a ottobre col referendum sulle riforme costituzionali. Le opposizioni per due settimane proveranno a cavalcare la vicenda Guidi per svegliare gli elettori e convincerne il maggior numero possibile ad andare a votare. Non tanto con la speranza di superare il quorum, quanto piuttosto di usare questo referendum come primo attendibile sondaggio di ciò potrebbe accadere in autunno al secondo round.
In un corridoio della Camera, prima di infilarsi in una riunione di Sinistra Italiana, l’ex piddì Alfredo D’Attorre, svela il calcolo che c’è alla base di questo auspicio, che parte dalla previsione di affluenza: «Se al referendum sulle trivelle votasse il 40% di elettori e vi fossero 16 milioni di sì, sarebbe sufficiente per poter sperare in un esito positivo in autunno. Siccome gli aventi diritto al voto in Italia sono circa 50 milioni, si è calcolato che potrebbero votare al referendum costituzionale 32-34 milioni di italiani e quindi basterebbero 17-18 milioni di no in quel caso per mandare a casa questo governo. Non è impossibile...»
Ragionamenti tutti sul filo, che danno per scontate molte cose, come la circostanza che tutti coloro che andranno a votare contro le trivelle, in contrasto col dettato del Pd sull’astensione, sono automaticamente da considerare a sfavore delle riforme del governo nella tornata referendaria successiva. Ma questi calcoli degli oppositori fanno capire come lo scandalo che ha investito il governo sia considerato un buon viatico per affrontare la prima prova del 17 aprile. Ma gli uomini del premier sono tranquilli assai, malgrado la sinistra interna, cioè i bersaniani, sollevi grida contro «i fatti inquietanti» e lunedì in Direzione chiederà di «non mettere la testa sotto la sabbia», come ha già avvertito il lucano Speranza. I renziani - in un antipasto dello scontro che andrà in scena lunedì - già ricordano che non uno della minoranza fosse contrario a suo tempo a quell’emendamento su Tempa Rossa. E fanno i loro conti, «loro alzeranno i toni e proveranno ad aprire un fronte politico sulla trasparenza, ma è difficile che questa vicenda, pur grave, possa spostare una quota importante di italiani al referendum sulle trivelle». La convinzione è che l’elettorato leghista tutto concentrato al nord sia poco sensibile, così come quello berlusconiano. E il rammarico casomai è non aver già approvato la normativa sul conflitto di interessi ancora ferma alla Camera, che forse avrebbe evitato anzitempo questo pasticcio... 

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