lunedì 11 aprile 2016

Citati e altri su Charlotte Brontë nel bicentenario

BIANCA GARAVELLI Avvenire 19 aprile 2016

LA PIÙ SOLA DELLE BRONTË

IPERSENSIBILE, DEVOTA ALLA SORELLA EMILY CHARLOTTE NON AMAVA «CIME TEMPESTOSE»
Corriere della Sera Citati 11 Apr 2016
La canonica di Haworth, nello Yorkshire, dove abitarono le sorelle Brontë, sorgeva dirimpetto a una piccola chiesa, vicino a un cimitero e a un giardino. La casa era di pietra grigia, a due piani, con un tetto di lastre pesanti, le sole capaci di resistere ai venti che giungevano dai quattro estremi dell’orizzonte, infuriando violentemente sulle «cime tempestose». Il vasto cimitero si trovava al di sopra della casa. Da ogni parte c’erano tombe. Chi entrava nella chiesa trovava le lapidi murali di Maria Brontë, morta a trentanove anni, della figlia Maria, morta a dodici anni, di Patrick Branwell Brontë, morto a trent’anni, di Emily Brontë, morta a ventinove anni, di Anne Brontë, morta a ventisette anni, e di Charlotte Brontë, morta — ultima — a trentanove anni.
Tutto era morte e ordine. «Non credo — scrisse Elizabeth Gaskell nella bellissima Vita di Charlotte Brontë, scritta nel 1857 e pubblicata dall’editore Castelvecchi, di aver mai visto un luogo più squisitamente pulito, e ordinato con maggior precisione. La vita vi si svolge col rito di un cronometro. Nessuno si reca in quella casa: nulla disturba il ticchettio dell’orologio della cucina, il ronzio di una mosca nel soggiorno». Sopra la canonica, in alto, c’era la brughiera: l’erica, ora di un fiammeggiante color porporino, ora rovinata dai temporali. I sei bambini Brontë vi si avventuravano stringendosi per mano: sopratutto Emily, la futura autrice di Cime tempestose, amava appassionatamente la brughiera.
Charlotte Brontë nacque, dopo Maria ed Elizabeth, il 21 aprile 1816: poi, in breve tempo, Patrick Branwell, Emily ed Anne. Dopo la nascita di Anne, la salute della madre cominciò a declinare: non chiedeva di vedere i bambini, perché sapeva di doverli lasciare presto: morì nel settembre 1821; e la vita di quei bambini silenziosi si fece ancora più quieta e solitaria. Il padre, curato, svolgeva i suoi compiti ecclesiastici nel villaggio. Era irlandese e cercava invano di controllare la propria indole furiosa.

I bambini non erano abituati alle gioie infantili: non cercavano compagni; e si tenevano stretti gli uni agli altri. Charlotte era brillante e vivace: la più chiacchierina tra le quattro sorelle; proteggeva maternamente soprattutto Emily, che aveva diciotto mesi meno di lei. Cuciva fino alle nove di sera: poi riponeva il lavoro, spegneva le candele; e cominciava a passeggiare su e giù per la stanza: avanti e indietro, avanti e indietro, a tratti illuminata dal fuoco del camino, e poi riassorbita dall’ombra. Con le sorelle parlava delle difficoltà passate e delle preoccupazioni presenti, e faceva progetti per il futuro. Negli anni successivi discuteva gli intrecci dei loro romanzi.
Nel 1831 Charlotte era una ragazza di quindici anni, molto minuta, «sottosviluppata», come diceva di sé stessa: gli occhi erano grandi, color bruno bruciato, sebbene l’iride avesse molte sfumature. Aveva un’espressione di quieta intelligenza. Ogni tanto splendeva, come se una lampada spirituale si fosse accesa in lei. Andò in un educandato: poi fece la governante; mestiere che detestava. Un’amica disse: «La vidi per la prima volta mentre usciva da una carrozza chiusa, vestita di abiti molto antiquati, con un’aria infreddolita e infelicissima». Aveva l’aspetto di una vecchia; ed era così miope che muoveva il capo di qua e di là per seguire le lettere dei libri.
Era timidissima e nervosa: qualsiasi piccolo evento e ostacolo provocava in lei un violento mal di capo o un conato di vomito; tremava a ogni rumore improvviso, reprimendo un grido se qualcosa la faceva trasalire. Quando le ragazze dell’educandato la invitarono a giocare a palla, rispose che non sapeva giocare. Disegnava bene e rapidamente: composizioni fantastiche, a cui forse faceva difetto la capacità di esecuzione. Adorava il duca di Wellington. Non perdeva un minuto di tempo, rimpiangendo le ore concesse al gioco. Non aveva speranza né fiducia nel futuro. Mai, mai, a nessun costo, si inorgogliva di sé stessa. «La mia vita — scrisse ad un’amica — trascorre in una ininterrotta monotonia: null’altro se non insegnare e insegnare, dalla mattina alla sera».
Leggeva moltissimo. Amava Walter Scott e Wordsworth. Leggere la Bibbia suscitava in lei una sensazione soave. Aveva una profonda diffidenza e quasi disprezzo per Jane Austen: vi trovava visi comuni, giardini chiusi da alte staccionate, bordure impeccabili; ma «nessun schizzo di una brillante e vivida fisionomia, nessun suono di aperta campagna, non aria aperta, non azzurre colline, nessun bel ruscello. Non mi piacerebbe davvero vivere con le sue signore e i suoi gentiluomini, nelle loro eleganti e appartate dimore. Miss Austen è solamente accorta e osservatrice. In lei non c’è poesia. Aderisce al reale (al reale più che al vero), ma non può essere grande». Contro di lei rivendicava i diritti, gli slanci, i furori della fantasia: come diceva, l’invasamento. Molto presto cominciò a scrivere: progettò un romanzo alla Richardson, in sette o otto volumi.
Le sorelle Brontë cominciarono a morire: prima Maria, poi Elizabeth; così Charlotte si trovò investita delle funzioni di padre e di madre. Insieme a Emily progettò di aprire una scuola nella canonica, con un piccolo numero di alunne. Poiché non sapeva bene il francese, andò a Bruxelles, insieme a Emily, per apprenderlo, e acquistare qualche nozione di tedesco e di italiano. Vi rimase a lungo, nella scuola di Monsieur Héger. Le due sorelle sedevano nell’ultima fila della classe, così assorbite nello studio da non percepire il minimo rumore e movimento. Si strinsero l’una all’altra, tenendo lontane le ragazze belghe e soffrendo la nostalgia dell’esilio. Charlotte scrisse in francese un ritratto di Pietro l’Eremita, e racconti dell’Antico Testamento: Emily preferì Harold alla vigilia della battaglia di Hastings. Entrambe detestavano il cattolicesimo: il cerimoniale della Messa cattolica, il «papismo».
Nel gennaio 1843 Charlotte tornò a Bruxelles da sola, come insegnante nella scuola di Monsieur Héger. Aveva la responsabilità di una classe di studentesse. Emily rimase a Haworth. Charlotte era malata: la cattiva salute era accompagnata da una profonda depressione nervosa. Non riusciva a imporre la sua autorità alle allegre e ottuse scolare. D’inverno aveva i piedi rossi e gelati. «Qui — scrisse a Emily — vado avanti giorno dopo giorno, in un certo modo sola alla Robinson Crusoe, ma non importa». In francese scrisse un testo Sulla morte di Napoleone.
Decise di restare a Bruxelles nei mesi successivi. Durante le vacanze del 1843 rimase sola nella scuola. Trovava faticosi tanto il giorno quanto la notte: una febbre nervosa si impossessò di lei: non riusciva a dormire; tutto quanto era accaduto di spiacevole durante il giorno si ripresentava con un rilievo esasperato alla sua fantasia sconvolta. Ogni timore riguardo ai suoi cari diventava terribilmente reale. «Il giorno — scrisse a Emily — sono lasciata assolutamente sola, in quattro desolate e vaste classi vuote a mia intera disposizione: tento di leggere, tento di scrivere, ma invano». Aggiunse: «È domenica mattina: tutti quanti sono andati a quella loro Messa idolatra».
Verso la fine del 1843, Charlotte decise di tornare a casa.
Il 2 gennaio 1844 rivide la tragica monotonia della Canonica. Trovò Emily ammalata, il viso pallido, il corpo assottigliato, con le forze che venivano meno. Non era mutata: il suo spirito libero, selvaggio, indomabile non si sentiva a proprio agio che nelle solitarie pendici di erica attorno alla casa. Non veniva mai a contatto con gli altri: non accettava influenze; la sua unica legge era quanto le sembrava giusto. Aveva una mente logicissima, dominata da una volontà caparbiamente tenace. Non amava gli uomini: riservava il proprio amore agli animali, e specialmente al suo cane, Keeper. Nessuno aveva l’ardire di parlarle quando i suoi occhi si accendevano, il viso si sbiancava e le labbra si serravano rigidamente.
Nel dicembre 1847 Emily pubblicò Cime tempestose, il capolavoro della famiglia Brontë. Con la sua fantasia cupa e allucinata, con la sua ispirazione alta e sobria, con la sua ala che varcava superbamente le voragini e le tempeste, Emily parlava del male assoluto e del peccato, senza mai avvilirsi. Il peccato tremendo, senza speranza, senza salvezza, raggiungeva nel suo libro una grandezza e nobiltà come soltanto in un libro scritto pochi anni dopo: La lettera scarlatta di Hawthorne. Charlotte non amò Cime tempestose, né allora né quando, anni più tardi, lo rilesse. Trovò «immatura» quell’opera meravigliosamente compiuta ed eseguita. «La forza di Cime tempestose — scrisse — mi colma di rinnovata ammirazione: tuttavia sono oppressa: al lettore non viene quasi mai concesso di gustare un piacere puro; ogni raggio di sole si fa largo tra nere sbarre di nubi massicce; ogni pagina è sovraccarica di una specie di elettricità morale».
Presto Emily lasciò il mondo. Giorno dopo giorno, vedendo con quale stoicismo la sorella affrontava il dolore, Charlotte la osservava con una meraviglia piena di angoscia. Non aveva mai conosciuto una creatura che le fosse paragonabile. Era — pensava — della famiglia dei Titani: una pronipote dei Giganti, che in un remotissimo passato avevano abitato la terra. Provvedeva agli altri con estrema sollecitudine, senza la minima indulgenza con sé stessa. Il suo spirito era inesorabile verso la carne. Dalle mani tremanti, dalle membra spossate, dagli occhi sempre più appannati, Emily esigeva lo stesso impegno di quando era sana.
Alla fine del novembre 1848 non c’era più speranza. Il viso era scarnito, devastato: la tosse secca era incessante; al minimo sforzo, il respiro ansimava.
Quando Charlotte chiamò un medico, Emily rifiutò di riceverlo. Quando le fu portata una medicina, rifiutò di prenderla, negando di essere malata. Infine, il primo dicembre 1847, disse a Charlotte: «Se vuoi far venire un dottore, ora lo riceverei». Era troppo tardi. Verso le due del 2 dicembre morì. Il giorno dopo Charlotte scrisse: «Emily non soffre più di dolore. Non soffrirà mai più in questo mondo. È morta. Non c’è più Emily nel tempo, sulla terra, ormai. Ieri abbiamo deposto quietamente la sua povera spoglia terrena sotto il pavimento della chiesa. Siamo molto calmi. Perché dovrebbe essere altrimenti? L’angoscia di vederla soffrire è passata; lo spettacolo della morte è finito; il giorno del funerale è alle nostre spalle. Sento che è in pace». Il cane di Emily, Keeper, accompagnò il funerale, rimanendo quieto per tutto il tempo del servizio funebre: poi andò ad accucciarsi davanti alla porta della camera della sua padrona. Per anni, Charlotte non si stancò di parlare di Emily: era diventata, per lei, «un’idea fissa, più cupa, più ostinata che mai».
La morte non aveva finito di visitare Haworth. L’ultima sorella, Anne, si ammalò, sebbene in apparenza di una malattia che non aveva nulla di terribile. Il 24 maggio 1849 fu portata al mare, a Scarborough, dove morì quattro giorni dopo. Charlotte ritornò nella Canonica. La grande prova cominciava quando cadeva la sera. In quell’ora le sorelle si riunivano nella sala da pranzo, e parlavano tra di loro. Ora Charlotte sedeva sola, in un forzato silenzio, nella stanza vuota, udendo il pendolo che scandiva il silenzio. Porgeva l’orecchio all’eco di passi che non sarebbero mai più venuti, ascoltando la voce del vento.
Scriveva romanzi, il più noto dei quali è Jane Eyre. A volte passavano settimane, perfino mesi, prima che sentisse di avere qualcosa da scrivere. Poi una mattina si alzava avendo in mente, chiaro e luminoso, il seguito del racconto. Si sentiva invasata, come diceva. Ma non trascurava, nemmeno un istante, i suoi doveri domestici: a volte interrompeva i suggerimenti dell’ispirazione per andare a spelare patate in cucina. Scriveva per ore e ore con una grafia minuta, vicino al camino acceso. Teneva un quadernetto all’altezza degli occhi, tracciando a lapis la prima stesura.
Negli ultimi anni di vita andava spesso a Londra: «Una vera e propria Babilonia», diceva. Dapprima si incamminava sgomenta per le vie affollate, rimanendo a lungo ferma agli incroci, e disperando di riuscire a procedere. Andò a teatro. Vide Il barbiere di Siviglia di Rossini, «spettacolo brillantissimo, anche se, suppongo, vi sono cose che mi sarebbero piaciute di più». Ammirò Kensington Garden: il prato verde all’inglese, le morbide masse di foglie. Conobbe Thackeray: vide il duca di Wellington, un «vecchio maestoso», che idolatrava. Nel 1851 visitò per cinque volte la Grande Esposizione al Palazzo di Cristallo: «Uno spettacolo meraviglioso, eccitante, sbalorditivo — un misto di palazzo dei geni e di grande bazar; ma non è molto nel mio genere».
Sebbene avesse sempre rifiutato il matrimonio, nell’aprile 1851 Charlotte sposò Arthur Bell Nichols, che nel 1845 era divenuto curato di Haworth: un uomo grave, riservato, con un profondo senso della religione e dei suoi doveri. La sua vita non mutò: sempre uniforme e monotona, più uniforme e monotona — lei commentò — «di quanto dovrebbe essere». Col matrimonio cessarono i suoi terribili mal di capo. Il marito era, per lei, «il più affettuoso sostegno, il miglior conforto terreno». Nel marzo 1855 fu assalita da un lento, vaneggiante delirio: chiedeva di continuo cibo e perfino stimolanti. Il 31 marzo morì.

Il colore della scrittura 
Charlotte Brontë. Il duecentenario della scrittrice di «Jane Eyre» viene celebrato da una serie di libri, mentre la National Portrait di Londra le dedica una mostra con acquerelli che dipinse lei stessa, pagine di diari, lettere e opere della sua infanzia
Arianna Di Genova Manifesto LONDRA 20.6.2016, 0:03 
«Aveva i capelli di un castano luminoso che cadevano sulle spalle in riccioli pieni di grazia e occhi di un blu violetto, con sopracciglia marroni ben disegnate». È la descrizione di Anne Brontë fatta dall’amica di Charlotte, Ellen Nussey (la stessa con cui la scrittrice scambiò centinaia di lettere e che fu la prima ad essere messa al corrente della scomparsa dell’autrice di Jane Eyre). E quella sorella minore – che dette alle stampe Agnes Grey – venne dipinta rispettando in tutto questi canoni di bellezza. Appare proprio così nell’ovale esposto alla National Portrait di Londra la giovanissima Anne, intorno agli anni Trenta dell’Ottocento: è un acquerello, uno dei tanti con cui Charlotte Brontë si dilettava, copiando dai maestri paesaggi o scene mitologiche e facendo posare conoscenti e famigliari. Da principio, infatti, lei voleva diventare un’artista del pennello e condivideva con suo fratello Branwell la passione per la pittura e per le visite ai musei. 
Quest’ultimo, anzi, aspirava a diventare un ritrattista di professione: la piccola e preziosissima mostra che si può visitare nella sala 24 della National Portrait di Londra (in omaggio al duecentenario della scrittrice) ruota tutta intorno a un quadro eccezionale per il suo valore documentario. È il dipinto che Branwell fece a diciassette anni, intorno al 1834, con le tre sorelle in posa e al centro, una grande macchia di colore che, ai raggi ultravioletti, si è rivelata essere il residuo di una cancellazione, un «pentimento» in cui l’autore ha tagliato via se stesso da quell’immagine di famiglia. 
Noto agli studiosi perché ripreso nella celebre biografia che Elisabeth Gaskell dedicò a Charlotte Brontë per rinverdire la sua reputazione – affinché il ricordo della sua figura non si fermasse al suo ruolo di istitutrice presso case di campagna – e farne una figura potente e tragica, è il fulcro della mostra: è il solo ritratto sopravvissuto probabilmente a molti disegni realizzati in quegli anni e le sue condizioni non buone sono dovute al fatto che per cinquant’anni è rimasto piegato, nell’armadio della fattoria dove visse il vedovo di Charlotte, il reverendo Arthur B. Nicholls con la sua seconda moglie. Fu lei, Mary Anne, a scovarlo nel 1914 e la National Portrait lo acquistò. 
Il comitato scientifico del museo decise poi di non restaurarlo per lasciare visibili le tracce della sua particolare storia. Insieme a quel dipinto, nello stesso armadio, venne ritrovato anche quello dell’altra sorella Anne (che troviamo nel percorso espositivo). Il volto di Charlotte Brontë lo conosciamo anche grazie all’opera di George Richmond, fatto su commissione dell’editore Smith nel 1850: la leggenda vuole che lei fuggisse in lacrime di fronte alla richiesta del pittore di cambiare pettinatura, sciogliendo i capelli per levarsi di dosso quell’aria ammuffita e da vecchia. n acquerello della scrittrice esposto in mostra 
La rassegna, visitabile con entrata gratuita fino al 14 agosto, si presenta come una imperdibile occasione per chi non può spingersi fino a l villaggio di Haworth, nello Yorkshire, dove la famiglia Brontë visse e dove oggi, nella loro casa, c’è il Parsonage museum. Molti degli oggetti che raccontano la vita privata e l’infanzia della scrittrice provengono da lì e sono concessi molto raramente in prestito. Nelle teche e sulle pareti sono narrate due storie che si intrecciano. C’è quella pubblica e letteraria che si dispiega attraverso le prime edizioni del romanzo Jane Eyre, della sua biografia scritta da Gaskell, con le lettere più «professionali» e i ritratti dei personaggi di riferimento nella costellazione «Brontë», da Byron al duca di Wellington, l’eroe che sconfisse Napolone a Waterloo fino al critico Lewes. George Henry Lewes, influente critico e giornalista, ebbe uno scambio epistolare tempestoso, nel corso degli anni, con la scrittrice: la redarguì per le sue produzioni letterarie «melodrammatiche» (la sua stella era Jane Austen) e disse anche che per le donne era meglio occuparsi di gravidanze. Lei non si scoraggiò e più volte rispose per le rime. 
Poi, c’è il secondo racconto che si snoda in mostra insinuandosi tra i ventisei oggetti appartenuti a Charlotte Brontë. Pagine di diario, lettere più intime, ritratti eseguiti a gessetto delle amiche, un paio di stivaletti di stoffa che era solita indossare. Bellissimi, infine, i libri lillipuziani con pagine cucite a mano, scritti fitti e corredati da allegri disegni. Li creavano tutti insieme a Haworth, e soprattutto Charlotte con Branwell. I due avevano inventato un regno fantastico, Glasstown, scrivevano le avventure dei loro personaggi e ne illustravano le storie. La loro era già una coppia di smaliziati fumettisti.

La letteratura è una felicità senza nome Charlotte Brontë. Un percorso di libri, tra nuove traduzioni (per la prima volta anche il romanzo «Il professore»), biografie e racconti , in occasione del bicentenario della nascita della scrittrice inglese
Alessandra Pigliaru Manifesto 20.6.2016, 0:04
Crescere è un atto di immaginazione. Così Lyndall Gordon descrive l’inclinazione di Charlotte Brontë nell’esercizio della sua grandezza. Decisiva è stata «la sua capacità di scrivere dall’oscurità – le tenebre di un sé non visto». Di Gordon, che ha all’attivo altre biografie tra cui quella di Emily Dickinson e un volume dedicato a T.S. Eliot, ora si può leggere anche Charlotte Brontë. Una vita appassionata (Fazi, pp. 496, euro 18, traduzione di Nicola Vincenzoni), che ripercorre la vita della scrittrice di cui quest’anno ricorrono i 200 anni dalla nascita.
Nell’occasione del bicentenario dell’autrice di Jane Eyre, sono state pensate alcune pubblicazioni anche in Italia.
È di qualche mese fa la riedizione per Castelvecchi della biografia scritta dalla sua cara amica Elizabeth Gaskell, tradotta la prima volta nel 1987 per La Tartaruga. E poi le lettere (1847- 1853), tra cui spiccano alcune traduzioni inedite raccolte nel volume Ho tentato tre inizi, edito per L’Iguana, in cui si può ammirare il carattere indomito e schietto che Brontë attivava nelle sue interlocuzioni con amici ed editori – sia con il suo nom de plume che dopo lo svelamento della sua vera identità. Newton Compton, invece, ripropone Shirley, per la cura di Fedora Dei. Tuttavia, in questo scenario piuttosto articolato, il volume di Lyndall Gordon e la prima traduzione italiana – a cura di Martina Rinaldi – sempre per Fazi, del romanzo Il professore (pp. 304, euro 18) sono da leggere con grande attenzione.
Intanto riguardo alcune collocazioni biografiche della scrittrice, lo sguardo di Gaskell che consegnava la scrittrice a una insopprimibile postura tormentosa, assume nelle parole di Gordon una torsione di libertà, apertura sulla stoffa esistenziale e di scelte che Brontë è riuscita a portare a compimento. Proprio il tratto introspettivo già notato da Gaskell e definito moderatamente come «carattere domestico», Lyndall Gordon lo fa esplodere di forza luminosa riconoscendo alla minuta autrice dello Yorkshire una rara e consapevole tenacia guerriera.
Il professore, primo romanzo scritto da Brontë e pubblicato postumo nel 1857, consente invece di ricostruire l’arco lungo che arriva fino alla scrittura di Villette. Il professore William Crimsworth nella sua relazione con la studente Frances Henri, interroga allora le consonanze esperienziali della giovane Charlotte nella sua relazione con Constantin Heger, insegnante incontrato nel 1842 durante il suo soggiorno a Bruxelles per imparare il francese.
«Un esserino nero», dotato di grande acume e capace di una collera da «iena delirante» e irascibilità. Crudeltà, patimento e passione sono al fondo delle parole che Heger dedicava alla giovane allieva. Primo e significativo ricettacolo di desiderio, erotico e intellettuale, elementi sinestetici permangono ancora in Villette e anche in alcuni punti del ben più noto Jane Eyre in cui Rochester accusa un’aria di famiglia con Heger. L’eccitazione provata da Brontë non era tuttavia imputabile a una banale e scolastica infatuazione verso un mentore che manipola la propria posizione dispari.
Non è un apprendistato alla sessualizzazione del conflitto, né del fascino verso il potere maschile. In carne viva, è «una felicità senza nome», l’idea di essere vista attraverso un reciproco e «potente sentimento», amalgama in preda a vertigini ondivaghe senza nessun preavviso, «che mettono a repentaglio le nostre vite». Grazie a questo impeto, solo una donna già liberata come lo era Brontë poteva concedere a se stessa di moltiplicarsi nella scrittura, corpo del desiderio e del godimento insieme. Che ciò abbia determinato lo stare sulla faglia, dinanzi a un’eccedenza pericolosa vien da sé. Come il genio, avventato e «audace sforzo dell’io» in cui far convergere la disciplina – perché a Charlotte Brontë, nonostante l’inaddomesticato che la abitava, controllo della parola ed esercizio formale non mancavano affatto.
E se sono questi gli elementi che la restituiscono a un orizzonte che non sia puramente di emancipazione bensì di libertà femminile, non stupisce constatare che ancora oggi Charlotte Brontë sia letta e interpellata seriamente. Nasce così il volume a più voci L’ho sposato lettore mio (Neri Pozza, pp. 300, euro 18) a cura di Tracy Chevalier e composto da 21 racconti di altrettante scrittrici a partire dalla celebre frase contenuta in Jane Eyre. Tra le mani di Tessa Hadley, Sarah Hall, Helen Dunmore, e poi ancora Susan Hill, Francine Prose e altre, il fascino di quella affermazione di un io che sporge dalla pagina, diviene l’invenzione per ulteriori narrazioni. Amori, risentimenti e atti di trasformazione multipla, arrivano a risignificare un posto nel mondo che non cede al mero risultato matrimoniale ma è unione di desiderio in cui non vi è riscatto, ancora una volta, se non nel simbolico atto di saper enunciare se stesse.

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