domenica 24 aprile 2016

Civil War: le opposte paranoie dell'ideologia americana si specchiano. Un appello all'unità suprematista per un XXI secolo americano


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Il conservatore di ferro Capitan America e il "progressista" Iron Man: supereroi politiciAlessandro Gnocchi Gioranle - Dom, 24/04/2016

È la disperazione l’ultimaDa stasera in tv la sesta stagione della serie cult Il canto epico di un Occidente sfiduciato, privo di ogni novecentesca speranza di emancipazioneAntonio Scurati Busiarda 25 4 2016
L’inverno sta arrivando. Quest’anno l’inverno arriva a primavera. Cambiano le stagioni e, con esse, le mitologie di questo nostro autunnale Occidente. Se fino a ieri il 25 Aprile è stato l’anniversario della Liberazione, adesso per molti è il debutto del Trono di Spade.
Il paragone tra la commemorazione della gloriosa lotta contro il nazifascismo e la spasmodica attesa della fortunata serie televisiva potrà apparire sacrilego - appare sacrilego anche a me che lo propongo - ma la concomitanza tra questi due appuntamenti dell’immaginario collettivo, per quanto casuale, non è insignificante. Il bisogno di epica che fino a ieri dalle nostre parti fu appagato dalla memoria storica della Resistenza è oggi, soprattutto per i giovani, soddisfatto dalla fantasticheria mediatica di Game of Thrones.
L’inverno sta arrivando
Lo affermo con una punta di malinconia, ma senza ironia, convinto che la formidabile serie tv basata sui romanzi di Martin, di cui stanotte andrà in onda la prima puntata della sesta stagione, sia in assoluto il più potente prodotto culturale dei nostri anni, romanzi compresi, e che lo sia perché in esso si esprime alla massima potenza la condizione storica della cultura occidentale in questa sua fase di decadenza. Il Trono di Spade verrà trasmesso in contemporanea in 173 nazioni, ma è roba nostra, è il canto epico di una cultura ancora egemone eppure declinante, di un Occidente secolarizzato, spoliticizzato, sfiduciato e, in ultima ipotesi, disperato. Non c’è nessuna «rossa primavera» all’orizzonte di questa epopea, solo «nozze rosse» di sangue, solo l’inverno, che sta arrivando.
«Non devi affezionarti a nessuno». Questo m’ingiunse, un po’ scocciato, anni fa un mio amico scrittore quando lamentavo che morissero tutti i miei personaggi preferiti. In questa regola severa è racchiuso il segreto creativo di una lunga narrazione che esordisce - alla fine della prima stagione - con la decapitazione di Ned Stark, il suo eroe più luminoso. Tutto il resto è come se fosse narrato dal punto di vista del decapitato. «Non devi affezionarti a nessuno». Ecco la regola fondativa dell’estetica di una Nuova Crudeltà, condivisa da milioni di fan con devozione monastica. Non si tratta semplicemente della violenza oscenamente esibita, comune a tanta odierna fiction di consumo, ma di una creatività che si esalta attraverso un diabolico attacco alle radici della propria creazione.
Universo apocalittico
Un eroe sorge per opporsi al caos del mondo, questo lo schema narrativo fondamentale di ogni epica. Nell’universo apocalittico di Game of Thrones, quell’eroe, però, sorge solo per essere abbattuto. Straordinari sceneggiatori inventano memorabili personaggi allo scopo di poterli poi crudelmente annientare davanti agli occhi degli spettatori scossi da ondate emotive di costernato terrore (su tutte, a mio parere, splende la morte di Oberyn Martell, la «vipera rossa», principe di Dorne, nell’ottavo episodio della quarta stagione). L’elenco delle morti creativamente crudeli si potrebbe allungare - in rete si trovano guide illustrate ai morti della serie - e si allungherà, in un arco narrativo la cui fine è strutturalmente procrastinata, ma il punto non è il conto dei morti, è che i morti non contano.
Valar Morghulis, «tutti devono morire», ammonisce la massima esoterica del culto tributato al Dio dai mille volti. Valar Dohaeris, «tutti devono servire», replicano gli sceneggiatori che lo hanno inventato. Servire con la propria morte al fine di far procedere il racconto, che non ha altro fine oltre se stesso. Attraverso questa disciplina crudele, Il Trono di Spade riesce nell’impresa di creare una nuova forma di continuità epica che si sostanzia delle proprie frequenti interruzioni drammatiche. Il prezzo è salato, epocale: l’Estetica della Nuova Crudeltà segna il trionfo di una violenza priva di ogni valore di redenzione, di una narrazione orfana di ogni novecentesca speranza di emancipazione, la rappresentazione di una lotta mortale uscita oramai dall’orizzonte della promessa politica.
Ai confini del mondo
La disperazione di cui si nutre la crepuscolare mitopoiesi di Game of Thrones non è, però, solo politica, è anche metafisica. Gli eroi del Continente Occidentale pregano tanti diversi dei, vecchi e nuovi, ma proprio per questo sanno che nessun dio li verrà a salvare. La neo-pagana teoria della mortalità che presiede a questo cosmo violento colloca nell’Aldilà solo un’Ade oscuro e terribile che condanna la vicenda umana a rimanere sola con se stessa.
La mossa geniale all’origine di questo fantasy anomalo - amato anche da chi non ama il genere - sta nel relegare l’elemento fantastico ai confini del mondo, sia geografici sia narrativi. I draghi crescono nell’esotico Oriente oltre il Mare Stretto, gli Estranei minacciano la specie umana dall’estremo Nord, oltre la Barriera di ghiaccio. Sono solo ombre di una profezia che si annuncia ai margini del mondo e del racconto, ma proprio per questa sua sapiente liminarità il fantastico assume una portata metafisica, sebbene maligna. Il gioco dei regni degli umani che si scannano per il potere, il denaro, il sesso e la gloria è indubbiamente, nel piccolo cerchio di luce del racconto, una storia narrata da un idiota, piena di urla e furore, ma ci appassiona perché oltre quel modesto confine si apre a infinito solo la tenebra più fitta.
«Se viene l’inverno, può essere lontana primavera?», ci chiedeva Shelley al principio dell’epoca romantica nell’Ode al vento Occidentale. Ora che quell’epoca è finita, nel Continente Occidentale la risposta non è più scontata.

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La guerra dei supereroi
Capitan America contro Iron Man, effetti speciali e politica «Due squadre in lotta, nella realtà anche i buoni si dividono»

Corriere della Sera 26 Apr 2016 DALLA NOSTRA INVIATA Stefania Ulivi
«Stai con Iron Man o stai con Capitan America?». Le cose, anche nell’universo Marvel, si sono complicate. Nel nuovo capitolo della saga Captain America: Civil War, in uscita da noi il 4 maggio per la Disney, presentato ieri a Londra (stasera la première ufficiale) è evidente che non basta più la supervisione degli Avengers per assicurare che il bene trionfi.
Troppi morti innocenti, troppe vittime collaterali causate proprio dai loro interventi, come accade nel precedente The Age of Ultron. È alto, per chi tiene le redini del mondo, il rischio di lasciare delicati equilibri in mano a personalità fuori dall’ordinario, non sempre in grado di misurare azioni e conseguenze. Il terzo capitolo della saga dedicata a Steve Rogers/Capitan America, di nuovo diretto dai fratelli Anthony e Joe Russo dopo The Winter Soldier, è costruito intorno al difficile dilemma: quale parte scegliere se anche i buoni si dividono? «La chiave del successo della saga sta proprio in questa capacità di parlare anche al presente», sostiene Paul Bettany, alias Visione, l’androide pieno di umanità. «Viviamo in un mondo dominato dalla paura e il film mostra, anziché un universo diviso in bianco e nero, una realtà dove è difficile scegliere da che parte stare».
Qui lo spunto narrativo è la richiesta a tutti gli Avengers da parte di un organismo sovranazionale che ricorda molto l’Onu — dopo che la città di Laos, in Nigeria, paga il prezzo dell’ennesimo incidente internazionale in cui sono coinvolti — di firmare gli accordi di Sokovia che li obbligano ad agire solo sotto la sua egida. Richiesta accettata, sebbene a malincuore, da Tony Stark ( Iron Man) e contrastata con tutte le forze (letteralmente) da Steve Rogers. Nel conflitto tra i due, a nessuno degli altri sarà consentito di rimanere neutrale. Visione, Vedova nera, il colonnello James Rhodes e le new entry Pantera nera (Chadwick Boseman) e l’atteso Spiderman adolescente interpretato da Tom Holland si schierano con il miliardario filantropo. Soldato d’inverno (Sebastiano Stan), Falcon (Sam Wilson), Occhio di Falco (Jeremy Renner), Scarlet (Elizabeth Olsen) e Ant-Man (Paul Rudd) al fianco del capitano.
«Non buoni contro cattivi, ma amici contro amici. Hanno diversi punti di vista e il tutto assume anche un significato politico. Le opinioni diverse su come risolvere un problema portano a un conflitto diretto». Una guerra civile dall’esito incerto. «Non volevamo cadere nella dinamica per cui gli Avengers iniziano in conflitto tra loro per poi unirsi contro un nemico da sconfiggere insieme. Sono tutti insieme protagonisti e antagonisti», spiegano i Russo.
Anche il cattivo, si scoprirà, ha le sue ragioni. Lo interpreta Daniel Brühl, che spiega: «Mi ha attratto perché è lontano dai cliché, ha motivazioni molto umane».
A Londra mancano Scarlett Johansson e Don Cheadle, mentre Robert Downey jr. è in prima fila con il suo carisma indiscusso. E per lui questo è una sorta di Iron Man 4.
Ci pensa Chris Evans a riportare in primo piano il suo personaggio. «È la prima volta che Captain America non arriva al compromesso, in nome del bene supremo e di ciò di cui gli altri hanno bisogno. Ora mette al centro i suoi desideri». Per i Marvel Studios, che prevedono per Civil War ulteriori soddisfazioni al box office, la saga continua con Avengers: Infinity War, la prima parte attesa per il 2018, la seconda per il 2019. E i due Justice League con Batman, Superman, Wonder Woman, The Flash. C’erano una volta i sequel. Ormai è lunga serialità anche sul grande schermo.

Tempi duri anche per i supereroi Gli Avengers uno contro l’altro Arriva “Captain America: Civil War”: il team in crisi di fronte all’Occidente minacciato Fulvia Caprara Busiarda 26 4 2016
Tempi duri per i supereroi. Abituati a muoversi su uno scenario fondamentalmente inamovibile, da una parte il Bene, dall’altra il Male, e loro uniti per combatterlo, si ritrovano per la prima volta in Captain America: Civil War, l’un contro l’altro armati, dilaniati dal trauma della spaccatura interna, amici contro amici, non più uniti e invincibili.
La frattura è dovuta alla lunga serie di incidenti provocata dal team Avengers, sguinzagliato in giro per il mondo con l’ordine di salvare l’umanità. Succede che le operazioni provochino un numero troppo alto di danni collaterali, che i vertici politici pretendano regole e controlli e che i super-combattenti abbiano opinioni completamente diverse. Da qui la scissione, con relative sorprese.
Steve Rogers, ben più noto come «Captain America» (Chris Evans), rifiuta la nuova legge, Tony Stark ovvero Iron Man (Robert Downey jr.), ribelle e anticonformista per natura, si schiera con il potere costituito. L’America degli Avengers poliziotti del mondo s’interroga sulle proprie responsabilità, magari s’insinua il dubbio che certi metodi non abbiano funzionato e che gli attacchi di cui sono oggetto i vari Paesi del globo siano la risposta a scelte del passato, troppo aggressive, troppo unilaterali.
Il soldato con lo scudo a stelle e strisce non ammette autocritiche, il filantropo play-boy Iron Man riflette invece su se stesso, sui suoi errori, sull’ideologia del fine che giustifica i mezzi: «È un film più con i piedi per terra - spiega Anthony, regista con il fratello Joe -, più radicato nella realtà. Nella storia sono presenti sottotesti politici che riflettono i problemi del mondo reale e questo rende il film più attuale». Lo scontro faccia a faccia con gli ex-compagni di strada aggiunge al film chiaroscuri inattesi, come se i realizzatori avessero deciso di rivolgersi a una platea più matura: «Per la prima volta - osserva Chris Evans - il mio personaggio non ha una risposta per tutto. Di solito non ha dubbi sul da farsi, sa sempre di essere dalla parte giusta, ma stavolta le differenze tra Bene e Male non sono così marcate, ci sono solo punti di vista, e questo rende tutto più difficile».
Protettori dell’umanità
Trasformato in suo antagonista, Iron Man potrà contare sull’appoggio di Natasha Romanoff-Vedova Nera (Scarlett Johansson), del colonnello James Rhodes-War Machine (Don Cheadle), di T’Challa- Black Panther (Chadwick Boseman) e di Visione (Paul Bettany), sempre in preda ai suoi dilemmi interiori: «Del mio personaggio - dice l’attore - mi piace che sia molto interessato a scoprire il senso dell’amore».
Per Scarlett Johansson, la scelta di Vedova Nera rispond e al desiderio di acquistare una leadership maggiore, mentre Don Cheadle (che ha appena portato sullo schermo la figura di Miles Davis), ammette di essersi divertito un mondo nei panni di chi deve «conciliare il suo ruolo militare con l’essere parte di un team di supereroi che si sono proclamati protettori dell’umanità».
Nel blockbuster da 200 milioni di dollari (nei cinema il 4 maggio, dopo l’anteprima londinese), si muovono nuovi acquisti come Daniel Bruhl nel ruolo del misterioso Barone Zemo e del 19enne Tom Holland in quelli del giovanissimo Spiderman cui si devono alcuni dei momenti più divertenti del film (soprattutto i duetti con Iron Man che fatica a prenderlo sul serio): «È stato il primo film di supereroe che ho visto da bambino, ne sono rimasto affascinato, conservo ancora un sacco di foto di me vestito da Spiderman, avevo tutti i giocattoli con il suo marchio, comprese le lenzuola del letto».
La forza dei nostri personaggi, osserva Kevin Feige, presidente dei Marvel Studios e produttore del film, sta nell’essere «complessi e imperfetti». I titoli precedenti hanno regolarmente battuto tutti i record d’incassi (Avengers: Age of Ultron aveva raggiunto nel primo week end oltre 191 milioni di dollari), Captain America: Civil War promette di non essere da meno.
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“I nostri Supereroi sono una metafora dei politici d’oggi” 
Chris Evans è il soldato Usa nella saga degli Avengers “Stavolta ci diamo battaglia, ma il fine è il bene comune” 
Fulvia Caprara Busiarda 3 5 2016
Se ci si ferma alla prima impressione, si rischia di sbagliare. Oltre i muscoli c’è un cervello, un modo consapevole di vivere la celebrità, un’attenzione alle metafore che caratterizzano il plot di Captain America: Civil War, ultima creazione di casa Marvel, firmata dai fratelli italo-americani Anthony e Joe Russo, pronta per invadere le sale da domani. Palestrato al punto giusto, noto per flirt con bellezze tipo Jessica Biel, venerato da eserciti di ragazze, Chris Evans, il soldato Usa della saga degli Avengers, figlio del dentista Bob e della ballerina Lisa Capuano, non ha timore di scomparire dietro il suo scudo stellato. 
InCaptain America: Civil Wargli Avengers, per la prima volta, si danno battaglia. I garanti della sicurezza nel mondo sono spaccati. Vede somiglianze con la realtà contemporanea?
«Sì, credo proprio che ce ne siano molte. Nonostante si tratti di un film d’azione immerso in atmosfere da supereroi, la storia riguarda esseri umani. Ed è proprio questo il bello. Stavolta il soldato Steve Rogers e il suo braccio destro Tony Stark hanno idee completamente diverse, anche se vogliono raggiungere lo stesso obiettivo. È un po’ quello che succede tra personaggi politici, ognuno afferma di volere il bene della comunità e promette di fare il massimo per ottenerlo. Sui modi per raggiungerlo le idee, però, sono opposte e anche fortemente radicate».
Questo capitolo della serie ha un grado di complessità più elevato, i dialoghi sono densi, i personaggi tormentati. Crede che il pubblico più giovane farà fatica a seguirli?
«No, i ragazzi di oggi sono abituati ad appassionarsi alle avventure complicate. Mi stupirei se vedessi i miei nipoti in difficoltà con una storia così». 
In che modo si prepara per interpretare Captain America?
«Mi alleno con i pesi in palestra, ma non più di tanto... Credo che la ginnastica sia molto legata allo stato mentale, se non la fai per niente stai peggio, dormi male e dopo un po’ ne risente tutto il fisico». 
Non ha mai avuto paura di restare intrappolato nel ruolo di un supereroe così popolare?
«No, non penso proprio che Captain America mi precluda altre possibilità di lavoro».
Secondo lei a che cosa è dovuto l’immenso successo degli Avengers?
«A una combinazione di fattori, le storie avvincenti dei fumetti, i personaggi problematici, con molti chiaroscuri, le relazioni che li legano e, naturalmente, le tecnologie che permettono un livello così alto di resa cinematografica». 
Ha debuttato dietro la macchina da presa con «Before We Go». Pensa di ripetere l’esperienza?
«Sì, e ho anche molta voglia di farlo. Non ho mai seguito una scuola di regia e quindi ho tanto da imparare, ma credo che la cosa più importante sia trovare la storia giusta». 
La fama ha i suoi lati fastidiosi. Le pesano?
«Per il momento no, mi basta un paio d’occhiali scuri per andarmene in giro tranquillo. Certe volte succede pure che qualcuno mi riconosca e ci rimanga male, perchè mi immaginava diverso, più alto, più forte...». BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

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