sabato 2 aprile 2016

Craveri romanza Taine

Gli ultimi libertiniBenedetta Craveri: Gli ultimi libertini, Adelphi

Risvolto
«Questo libro» annuncia Benedetta Craveri nella Prefazione «racconta la storia di un gruppo di aristocratici la cui giovinezza coincise con l'ultimo momento di grazia della monarchia francese»: sette personaggi emblematici, scelti non solo per «il carattere romanzesco delle loro avventure e dei loro amori», ma anche (soprattutto, forse) per «la consapevolezza con cui vissero la crisi di quella civiltà di Antico Regime ... con lo sguardo rivolto al mondo nuovo che andava nascendo». Sfruttando, infatti, le qualità migliori della loro casta – «la fierezza, il coraggio, l'eleganza dei modi, la cultura, lo spirito, il talento di rendersi gradevoli» –, il duca di Lauzun, il conte e il visconte di Ségur, il duca di Brissac, i conti di Narbonne e di Vaudreuil e il cavaliere di Boufflers non furono soltanto maestri nell'arte di sedurre, ma da veri figli dei Lumi ambirono ad avere un ruolo nei grandi cambiamenti che si preparavano, e dopo il 1789 seppero affrontare le conseguenze delle loro scelte – la povertà, l'esilio, perfino il patibolo – senza mai perdere l'incomparabile panache che li distingueva. A sua volta, con la «grazia somma della cultura, della curiosità, del pensiero, della scrittura magnifica» che le è stata riconosciuta dai critici, e ancor più dai lettori, l'autrice di Amanti e regine percorre queste sette vite parallele fino all'evento in cui tutte convergeranno – la Rivoluzione – e dopo il quale ciascuno degli «ultimi libertini» seguirà il proprio destino. 

Nobili, illuminati, sfarzosi Ecco gli ultimi libertini
Le vite di un gruppo di «cavalieri» spiegano che cosa fu davvero la Rivoluzione francese Tra fedeltà ai valori aristocratici e curiosità per le nuove idee liberali che si diffondevano
fuffington

Prima del diluvio 

Nel libro «Gli ultimi libertini» (Adelphi) Benedetta Craveri ricostruisce la vita quotidiana dell’aristocrazia parigina alla vigilia della Rivoluzione. Un’età dell’oro in cui contavano il divertimento, il lusso e la buona conversazione
2 apr 2016  Corriere della Sera di Pietro Citati © RIPRODUZIONE RISERVATA 
Omologazione I nobili erano degli irriducibili individualisti. Eppure, in quelle compagnie i tratti distintivi dei singoli tendevano a sbiadire; e poiché tutti seguivano la moda, tutto era uguale
Baratro Il conte di Ségur: «Noi giovani, senza rapporti con il passato e senza preoccupazioni per l’avvenire, camminavamo su un tappeto di fiori che nascondeva l’abisso» 
Quando abbiamo finito di leggere il bel libro che Benedetta Craveri ha dedicato a Gli ultimi libertini (Adelphi), ci sembra di vedere parole che volano nell’aria, domande e risposte incessanti e inesauribili. Siamo nel regno di Luigi XVI e di Maria Antonietta, nei primi anni della Rivoluzione, prima che ogni cosa precipiti nel Terrore: viviamo nella vasta aristocrazia francese, dove tutti sono legati in una immensa famiglia. «Niente era più bello — disse qualcuno — che avere vent’anni nel 1774», quando l’avvento al trono di Luigi XVI suscitò una moltitudine di speranze, e sembrò annunciare l’inizio di una nuova epoca; o addirittura la realizzazione dell’utopia. In realtà, come disse Caterina di Russia, «la Francia era molto febbricitante e molto malata». Élisabeth-Louise Vigée Le Brun (1755-1842) La marchesa de Pezay e la marchesa de Rougé con i figli Alexis e Adrien, 1787 
Le sette vite, che Benedetta Craveri racconta nel suo libro, hanno il loro cuore nella corte. Il duca di Lauzun disse di aver trascorso i primi anni della sua infanzia sulle ginocchia dell’amante di Luigi XV, madame de Pompadour. Spesso gli aristocratici erano figli di membri della famiglia reale: questi si intrufolavano nelle case dei sudditi e generavano dappertutto figli, che talvolta non conoscevano la propria origine. Quasi tutti avevano due padri: quello naturale e quello ufficiale. Dovunque c’erano ménages à trois, nei quali marito, moglie, amante della moglie vivevano in perfetto accordo. C’era molto libertinaggio: irrequietezza erotica; talvolta passioni trascinavano con sé aridi cuori. C’era sopratutto amicizia. «Il mio legame con il conte di Vaudreuil — disse Chamfort — è diventato così forte che non posso più pensare di lasciare la Francia. È la più perfetta, la più affettuosa amicizia che si possa immaginare». 
I nobili francesi erano degli irriducibili individualisti: ciascuno di loro volle formarsi un destino a immagine e somiglianza dell’idea che si faceva di sé stesso. Eppure, come disse il conte Louis-Philippe de Ségur, in quelle brillanti compagnie, per via delle frequentazioni quotidiane, i tratti distintivi dei singoli caratteri tendevano a sbiadire; e poiché tutti seguivano la moda, tutto era eguale. Opinioni e parole obbegran divano all’uso comune: il modo di parlare e di comportarsi finiva per uniformarsi. Esteriormente tutti portavano la stessa maschera, avevano lo stesso stile e lo stesso aspetto. A volte, l’impressione era sinistra. La società aristocratica sembrava a Chamfort formata da «automi» e da «marionette», condannate alla ripetizione di una commedia sempre eguale a sé stessa. Ma proprio questa ripetizione esercitava una fortissima attrazione magnetica. 
Se dovessi indicare una parola, tra le molte pronunciate nella società aristocratica, dovrei dire: divertirsi; divertirsi in qualsiasi modo e maniera. «Chi mai potrà unire il talento di brillare, il dono di piacere e la capacità di sedurre dell’amabile cavaliere di Boufflers?», scrisse nel suo elogio funebre il conte di Ségur. Lo stesso Ségur, che aveva straordinari doni di scrittore, insisteva: «Noi giovani aristocratici francesi, senza rapporti con il passato e senza preoccupazioni per l’avvenire, camminavamo gioiosi su un tappeto di fiori che nascondeva un abisso». Tutti volevano sopratutto piacere. Avevano molti talenti. Qualcuno fu, nel corso degli anni, generale, ambasciatore, consigliere di Stato, maestro delle cerimonie, senatore. Solo pochi tra loro si accorgevano che, in fondo a questo desiderio di piacere, c’era qualcosa di terribile: una brama di dominio, che non tollerava nemmeno l’eguaglianza, e voleva assoggettare gli altri. L’epicureismo sorridente era la maschera di predatori feroci, come quelli rappresentati nelle Relazioni pericolose di Laclos. 
Gli aristocratici francesi conducevano una vita dispendiosissima: molto più dispendiosa di quanto consentivano le loro entrate; ed erano costretti di continuo a contrarre prestiti. Avevano case magnifiche: viaggiavano in Germania, in Italia e in Russia; sovvenzionavano scrittori e artisti, collezionavano opere d’arte — salvo dover vendere all’asta le proprie collezioni. Avevano la passione di scrivere: per il principe di Ligne, «le charmeur d’Europe», era una vera necessità, l’unico mezzo per esistere; scrivere epigrammi, anagrammi, sopratutto lettere. «Scrivete mia cara — diceva il cavaliere di Boufflers a madame de Sabran — mandatemi interi volumi di lettere, scrivete come parlate, così faceva madame de Sévigné, non rileggete mai quel che avete scritto, dimenticate tutte le regole dell’arte di scrivere, non abbiate mai timore di ripetervi né di essere incoerenti, siate ora gaia, ora profonda, ora stravagante». 
I principi del sangue, le dame del più alto rango, i finanzieri adoravano il gioco, poiché la vita era e doveva essere un gioco; e, per avvicinarsi al loro ideale, baravano «con tranquilla audacia». Amavano i pittori, specialmente Madame Vigée Le Brun: dipingevano; facevano collezioni d’arte, specialmente di pittura olandese e fiamminga, ma anche di statue antiche e moderne, armi d’epoca, mobili, oggetti preziosi, porcellane. I teatri erano vuoti: mancavano gli attori professionisti; i nobili e i grandi finanzieri dotavano le proprie dimore di sale private, dove esibirsi in compagnia degli amici. «Il talento della recitazione — scrisse la “Correspondance secrète” — sembra essersi ritirato esclusivamente nelle case aristocratiche, mentre il Théâtre français è decaduto». 
Tutto era gioco: anche la religione della Chiesa; Voltaire diceva che non si poteva chiedere ai sacerdoti di salvare le anime, ma di rallegrarle. Era un gioco la guerra: le imprese nei Paesi più lontani; «una qualche spedizione in India, diceva Lauzun, ecco quello che farebbe per me; andare a cercare la gloria a quattromila leghe da qui». Fonte di gioco era l’Inghilterra, che spesso si voleva invadere e conquistare, ma più spesso si cercava di imitare. Dopo il 1763 un flusso ininterrotto di visitatori cominciò ad attraversare la Manica nei due sensi: «La nostra passione per tutto ciò che è francese, scrisse Horace Walpole, non è nulla se paragonata alla passione francese per tutto ciò che è inglese»; cavalli, carrozze, cani, stoffe, romanzi inglesi conquistarono il mercato francese. Le aristocratiche inglesi arrivavano a Parigi insieme ai loro mariti, «facendo girare la testa», diceva madame du Deffand, «a tutta la nostra bella gioventù». I nobili inglesi erano affascinati dalla naturalezza con cui i nobili di Parigi si mettevano in scena sul grande teatro del mondo. 
Il culmine del gioco era la conversazione: lo spirito della conversazione, che dominava da secoli la civiltà francese, gettando la sua eco sia nella esistenza di ogni giorno sia nella vita diplomatica. Era un’arte e una scienza: il cuore della socievolezza e dell’arte di piacere. Vi trionfava l’allegria, la fatuità, l’edonismo, il dono mimetico, l’arte della improvvisazione, la finezza di spirito, la leggerezza frivola e grave: il dono di alternare tutti i toni; battute felici, scherzi di buongusto, follie spiritose, ricordi dei molti libri letti si inseguivano volubilmente sulle labbra dei conversatori. «In Francia — disse Madame de Staël — la conversazione non è, come altrove, un semplice modo di comunicarsi idee e opinioni, o di scambiare informazioni sulle questioni pratiche della vita: è uno strumento che noi amiamo suonare, e che rallegra e rinvigorisce la mente, così come la musica in alcuni Paesi, e il vino in altri». 
Nel marzo 1793 il conte di Vaudreuil si trasferì a Vienna. Di qui scrisse a Lady Foster: «Apprendo la notizia delle più disastrose catastrofi, la tragica morte del migliore degli uomini e dei re, del benefattore dei miei amici. I dettagli di questa morte, il coraggio di questo sventurato monarca, l’atroce, incredibile crudeltà dei suoi nemici, quel suo testamento sublime, la più bella testimonianza che un uomo possa lasciare delle sue virtù morali e cristiane, i pericoli che corre la regina e tutta l’augusta famiglia, la vergogna, il disonore incancellabile del mio Paese, tutte queste lugubri cose hanno talmente sconvolto il mio cuore e la mia mente che ho dovuto soccombere». Molti aristocratici ascoltarono la sentenza che li condannava alla ghigliottina «con la stessa indifferenza che se si fosse trattato di andare all’opera». Ciò che importava non era la vita, ma l’eleganza. 
Nell’agosto-settembre 1789 arrivarono a Londra Talleyrand e tre amici, tutti salvati da Madame de Staël, i quali abitarono una casa a Kensington Square, che diventò un luogo di ritrovo. Essi si ritrovavano vivi, in un posto sicuro, ed esorcizzavano la nostalgia della patria perduta grazie all’arte magica di conversare. Madame de Staël, con la quale il libro di Benedetta Craveri si conclude, arrivò per ultima, il 25 o 26 gennaio 1793. Talleyrand si trasferì a Kensington Square, dove parlava e parlava con Madame de Staël, con grazia e senza il minimo sforzo, in una atmosfera di calma e di agio perfetto. Intanto in Francia venne ucciso Robespierre. Venti giorni dopo la sua morte, i teatri di Parigi tornarono liberi; ed uno di essi mise in scena Le false confidenze di Marivaux. “Le false confidenze”: la rivoluzione era finita.

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