sabato 16 aprile 2016

E' un grande momento per i negri bianchi arruolati dalla Sinistra Imperiale

Reportage da Orano per incontrare lo scrittore e giornalista algerino che ha criticato su “Repubblica” l’arretratezza dell’islam radicale “Qui sono a casa mia la gente mi protegge e conosco i miei avversari Non voglio caricarmi una guerra sulle spalle”
Lo straniero 
La vita blindata di Kamel Daoud “Come Camus sono prigioniero di due culture”

RAPHAËLLE BACQUÉ Restampa 16 4 2016
ORANO Scesi dall’aereo proveniente dalla Francia, il poliziotto algerino esamina a lungo il visto «giornalista». Chiama un collega. Poi un altro. E ancora un terzo. «Perché volete incontrare Kamel Daoud?». «Perché è un grande scrittore algerino… ». «Sì, ma perché lo volete incontrare?»
«Appunto perché è un grande scrittore algerino…». Nella fila dietro di noi, nessuno si spazientisce, ma sembra che tutti ascoltino con estrema attenzione. Un signore molto elegante mormora, con quell’accento dolce degli oraniani: «Ditegli che ha quasi vinto il premio Goncourt…». Dietro di lui, un altro uomo sussurra, a voce abbastanza bassa da non farsi sentire: «Ma non parlate troppo dei suoi articoli…». Il timbro schiocca sul passaporto. Siamo passati. Benvenuti a Orano, la città di cui Kamel Daoud è al tempo stesso star e volto controverso.
Per telefono, nelle settimane precedenti, lo scrittore non aveva misurato le parole. Dopo il successo del suo romanzo Il caso Meursault – un brillante resoconto che restituisce un’identità all’”arabo” assassinato dal protagonista del famoso romanzo di Albert Camus, Lo straniero, e che ha vinto il premio Goncourt per il miglior romanzo d’esordio nel maggio del 2015, dopo la sua pubblicazione per i tipi della casa editrice algerina Barzakh nel 2013 e poi di quella francese Actes Sud nel 2014 – Kamel Daoud aveva paura di non avere più il controllo della sua vita. «Non posso più prendermi una birra senza che qualcuno me la voglia offrire », imprecava. «Se scrivo una parola in Algeria, la citano fino in Svezia. Potrebbe essere lusinghiero per l’autostima, ma è un inferno». Troppe sollecitazioni dal mondo intero (il suo libro è già stato tradotto in 29 lingue, in Italia è uscito per Bompiani), troppe tournée nelle grandi università americane , troppe trasmissioni televisive in Francia. A 45 anni, ci diceva non voleva «cedere alla vanità, che è nemica del talento».
In Francia, il suo editoriale Colonia. Il corpo delle donne, pubblicato il 10 gennaio da Repubblica e il 5 febbraio da Le Monde, un mese dopo le aggressioni ai danni di decine di giovani tedesche accorse a trascorrere la notte di San Silvestro a Colonia, ha lacerato la sinistra. In piena crisi dei profughi, Daoud vedeva in quell’episodio una manifestazione della «miseria sessuale nel mondo arabo-musulmano» e del suo rapporto malato con le donne. L’articolo gli ha attirato i rimproveri desolati di Adam Shatz, l’amico giornalista che un anno prima gli aveva dedicato un lungo ritratto sulle pagine del New York Times. In Francia, una quindicina di universitari lo ha tacciato di «islamofobia». Per tre settimane i media hanno ospitato le opinioni dei suoi sostenitori, favorevoli al «libero pensiero», e dei suoi avversari, che rifiutavano «lo scontro di culture». Perfino Manuel Valls gli ha espresso pubblicamente il suo sostegno. Il 2 marzo, stanco delle polemiche, lo Daoud ha annunciato la sua intenzione di abbandonare il giornalismo e la rubrica che tiene da diciannove anni sulle pagine del
Quotidien d’Oran.
Daoud ci fissa un appuntamento nel tardo pomeriggio. Ha scelto, curiosamente, un albergo ultramoderno e senza fascino, costruito in una di quelle nuove zone industriali che fioriscono un po’ dappertutto a Orano. «Il luogo è sicuro», ci ha detto al telefono. L’hotel si chiama Liberté. Lo scrittore arriva direttamente in macchina dalla nuova casa in cui si è trasferito, una di quelle residenze moderne dove si può entrare solo dopo aver dichiarato a un sorvegliante la propria identità. Fuma molto. Due occhiaie violacee sottolineano lo sguardo mobile sopra gli zigomi alti. «Scrivere », dice, «è il mio rimedio contro l’angoscia, il solo momento in cui sento di avere consistenza».
Un tempo amava leggere all’ombra delle magnolie, nei giardini pubblici di Orano affacciati sul mare. Gironzolava sotto i portici dove per molto tempo visse Camus, si fermava sui gradini della cattedrale del Sacro Cuore, trasformata trent’anni fa in biblioteca. Ma la città è diventata minacciosa. Quest’uomo capace di combattere senza tremare tutti i poteri ora ha paura che un giorno, girando in una stradina, possa saltare fuori un pazzo armato di coltello ad assalirlo. La Francia l’ha invitato a esiliarsi. Lui ha rifiutato recisamente. «Qua la gente mi protegge e conosco i miei avversari», vuole credere. «E poi», aggiunge sorridendo, «da voi sarei meno al sicuro».
L’8 marzo, una donna magistrato al tribunale di Orano ha condannato Abdelfattah Hamadache, un imam pressoché sconosciuto, ma sospettato di essere un informatore dei servizi segreti. Nel dicembre 2014 aveva scritto sulla sua pagina Facebook: «Lo scrittore apostata, miscredente, algerino, sionistizzato, criminale, insulta Dio. Facciamo appello al sistema algerino perché lo condanni pubblicamente a morte». Tre giorni prima di questa fatwa, Kamel Daoud era stato invitato alla trasmissione On n’est pas couché, su France 2, che gli algerini guardano grazie a quelle parabole appese un po’ ovunque alle finestre degli edifici. Lo scrittore algerino in quell’occasione non aveva fatto altro che ripetere le cose che scrive da tempo sulla religione, «questo male del mondo arabo che impedisce di avanzare». Ma dichiararlo in Francia, nazione perennemente sospettata di voler rieditare la colonizzazione, è tutta un’altra co- sa. Daoud mostra di non curarsene. «Se sei un intellettuale e un liberale, per molti algerini significa che sei filofrancese», dice alzando le spalle. In queste condizioni, il sostegno che gli ha espresso pubblicamente Manuel Valls rappresenta un problema aggiuntivo. L’interessato non è turbato più di tanto. Ha già detto a Valls che cosa pensava delle polemiche francesi sull’islam, «che rispecchiano, più che la realtà, le vostre spaccature. Siete ossessionati dalla radicalizzazione su internet, ma non vi preoccupate delle decine di televisioni religiose finanziate dall’Arabia Saudita che riversano i loro programmi da voi!».
Scende la sera. Nel gruppetto aleggia una sorte di ubriachezza e lo scrittore propone di andare a cenare. Si parla di Houellebecq, che lui ammira. «Mi piace prima di tutto il suo stile, quel modo di raccontare i particolari dell’esistenza. E poi: la gente è scioccata da Sottomissione? Ma è finzione, e la finzione ha tutti i diritti». Di recente ha incontrato lo scrittore di Algeri Boualem Sansal a Saint-Malo. Sansal lo sostiene. Anche lui è preso di mira, in Algeria. Non tanto per il suo libro di fantapolitica 2084, che immagina il Paese sotto il tallone totalitario di un potere religioso, quanto per quell’appello alla pace firmato nel 2012 insieme allo scrittore israeliano David Grossman. «A volte i miei detrattori scrivono che faccio il Boualem Sansal. E posso assicurarvi che in bocca a loro non è un complimento», sospira.
Rimpiange ancora di non aver vinto il premio Goncourt, assegnato nel 2014 a Lydie Salvayre. «Vi immaginate che evento sarebbe stato nei Paesi francofoni? Per la lingua francese?», dice, divertito al solo pensiero. Parla perfettamente l’arabo, al punto che ha supervisionato la traduzione del Caso Meursault. Ma il francese resta per lui «la lingua in cui ha imparato a essere libero». Ha ancora da scrivere i due prossimi romanzi, di cui accarezza l’idea da parecchio tempo. Ma prima deve terminare, il 30 aprile, la sua rubrica settimanale per Le Point. E consegnare un ultimo editoriale al New York Times. «Il giornalismo è come l’amore: se menti, si capisce», sentenzia.
Le strade di Orano sono completamente vuote ora, anche se non è ancora mezzanotte. Daoud sognerebbe di passare due giorni in libertà a Parigi. Ma quando lascia la sua città per più di qualche settimana ne sente già la mancanza. «Anch’io, come Camus, sono preso fra due culture, e questa cosa mi tormenta», dice sorridendo. E poi, come per associazione di idee, proprio mentre ci stiamo congedando, si lascia sfuggire: «Non voglio caricarmi una guerra sulle spalle».

I corsi alle madri musulmane per prevenire il terrorismo
Corriere della Sera 16 Apr 2016 Lorenzo Cremonesi

«Ha poco tempo a disposizione una madre per cercare di fermare il figlio o la figlia che intendano partire volontari per combattere con i ranghi di Isis in Siria, Iraq, oppure unirsi a qualche sua cellula in Europa. L’esperienza ci insegna che possono trascorrere meno di tre mesi da quando i giovani mostrano i primi segni di aver aderito al radicalismo islamico al passo concreto di rompere con la famiglia e imbracciare il fucile». E tre mesi sono davvero nulla, specie se non si è abituati al dialogo con i figli adolescenti o poco più, distratti dal lavoro, dalla casa da tirare avanti. «Proprio per insegnare alle mamme ad ascoltare ed essere ascoltate abbiamo istituito corsi speciali in Austria con l’idea di diffonderli in tutta Europa. Prevenire è meglio che combattere in ritardo gli effetti della predicazione salafita e del terrorismo, quando la violenza è già scoppiata. Questa è anche la strategia della polizia austriaca», racconta Edit Schlaffer, 65 anni sociologa all’università di Vienna, che dal 2001 dirige l’organizzazione non governativa «Donne Senza Confini».
Incontrarla nella sede in centro città, dove al momento una cinquantina di madri seguono i programmi dell’organizzazione, equivale ad immergersi nella pieghe dello scontro-incontro con l’Islam in uno dei Paesi europei storicamente più coinvolti. Le donne sono quasi tutte musulmane. Tante bosniache e specialmente cecene. Ma anche qualche cristiana, visto che circa un quarto dei militanti austriaci di Isis sono convertiti. «In genere le madri dei jihadisti sono estremamente sospettose di tutto ciò che appare sui social media, per loro la Rete è il nemico che ha corrotto i figli, temono i leader religiosi locali, ma neppure si fidano della polizia. In sostanza non sanno a chi chiedere aiuto. Isis sta perdendo terreno in Medio Oriente, ora punta all’Europa: loro sono in prima fila. Abbiamo osservato sul campo che in circa 100 ore di incontri a quattr’occhi un bravo predicatore filo-Isis è in grado di indottrinare alla sua causa un qualsiasi ragazzino in crisi d’identità», aggiunge, puntando il dito contro l’Arabia Saudita, responsabile a suo dire di finanziare alcune delle moschee più radicali in Austria. Un fenomeno che ricorda le madrasse (scuole coraniche) pachistane pagate coi petrodollari sauditi e del Golfo, che furono tra le culle di Al Qaeda.
«La comunità cecena è tra le più difficili da contattare per noi. E questa è una novità nella lunga storia di dialogo con l’Islam tipica del nostro Paese», osserva ancora Schlaffer a sottolineare gli sforzi per rapportarsi con gli immigrati delle province musulmane dell’ex Unione Sovietica. Le memorie delle antiche regioni islamiche dell’Impero asburgico costituiscono infatti tutt’oggi la base per la tradizione di convivenza. Qui ricordano che nel 1912 l’Islam fu persino riconosciuto religione ufficiale al pari di quella cattolica.
Eppure l’estrema destra usa le simbologie guerriere dell’ultimo assedio ottomano di Vienna nel 1683 per galvanizzare il Paese contro «una nuova invasione». La statua di Marco d’Aviano, il frate Cappuccino di origine italiana che al tempo dell’assedio fu tra i più accesi predicatori della guerra santa contro i «barbari musulmani», domina la chiesa in centro dove sono sepolti gli imperatori asburgici. «Date un’anima all’Europa in cui, senza sminuire le altre religioni, si dà più forza alla nostra identità cristiana», si legge sui pamphlets nella cripta dove è sepolto. «Curioso che Isis non parli dell’assedio ottomano nei suoi proclami, lo citano invece gli xenofobi nostrani » , spiega Rudiger Lohlker, professore di islamistica all’Università di Vienna.
I dati comunque sono chiari: tra tutti i Paesi europei, l’Austria è uno di quelli con il tasso più alto di volontari di Isis rispetto alla popolazione. Oltre 260 militanti su otto milioni e mezzo di abitanti. Età media meno di 25 anni, per lo più di origine cecena, seguiti da bosniaci e siriani. Tra loro anche 25 donne. Il censimento del 2014 parlava di 600.000 musulmani (il 7% degli austriaci), di cui quasi 120.000 turchi, 51.000 bosniaci e 34.000 afghani. Anche Lohlker non esita a mettere l’accento sul «problema» ceceno, nonostante la loro comunità si aggiri solo sulle 30.000 persone: «Sono ottimi combattenti con la fama di uomini duri e crudeli. Molti vedono la guerra in Siria contro Assad e il suo alleato Putin come la logica continuazione della lotta contro l’occupazione russa della Cecenia con il suo bagaglio di orrori, massacri e soprusi».
Non è dunque strano che diversi tra i frequentatori della «Altun Alem», la moschea più radicale di Vienna ricavata nelle cantine di un palazzo anonimo nel quartiere che porta lo stesso nome, siano giovani ceceni. Pochi mesi fa qui la polizia ha arrestato l’imam bosniaco Mirsad Omerovic, meglio noto come «Ebu Tejma», accusato di aver radicalizzato nel 2014 Sabina Selimovic (16 anni) e Samra Kesinovic (17), ragazzine partite cariche di entusiasmo per diventare spose degli «eroi del Califfato» e morte poco dopo. Una, si dice, sotto un bombardamento e l’altra forse uccisa dai jihadisti perché cercava di fuggire.
Incontrare i frequentatori della moschea per un giornalista dichiarato è quasi impossibile. C’è stato anche il caso di minacce con la pistola contro una troupe. Venerdì scorso un giovane albanese ci ha bloccato prima di raggiungere la porta: «La stampa non è gradita». Ci dicono che il nuovo imam sarebbe disponibile a un’intervista, ma non si fa trovare. «Qui i non musulmani non possono entrare e men che meno i giornalisti», ripete determinato un giovane dalla barba talebana.
Molto più semplice è parlare con il cinquantenne Adam Bisaev, immigrato a Vienna da Groznij e cultore di arti marziali in una palestra che fa da centro sociale per i ceceni. «Lo sport aiuta l’integrazione e combatte il pregiudizio. Noi siamo stigmatizzati come terroristi. Ma la stragrande maggioranza della nostra comunità aspira a vivere in pace», lamenta. Con un dettaglio in più per intendere le ragioni del malcontento ceceno: «Siamo un piccolo popolo di un milione mezzo di abitanti. In 15 anni l’esercito russo ha massacrato oltre 300.000 ceceni. E il mondo si è girato dall’altra parte».

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