venerdì 15 aprile 2016

Generali italiani: la Nato, il "terrorismo" e il genio della strategia che vuole portarci le bombe in casa

Risultati immagini per giuseppe cucchiUsiamo la Nato per proteggere le nostre città 
Giuseppe Cucchi  Busiarda 15  4 21016
Gli attentati con cui l’Isis ha di recente insanguinato l’Europa, portando terrore e morte nel cuore stesso delle istituzioni comunitarie e della città che di esse è divenuta il simbolo, hanno innescato un dibattito tanto importante quanto tardivo sui provvedimenti da adottare per prevenire in futuro il ripetersi di simili attacchi. Fra tutte le misure suggerite ce n’è una che sembra raccogliere i maggiori consensi e appare in teoria come la più rapidamente realizzabile. 
È centrata sulla possibilità di un maggiore coordinamento fra le intelligence nazionali, di cui si potrebbe al limite arrivare a prevedere persino la fusione. Si tratta in realtà di una idea già prospettata anni fa, allorché si verificò l’attacco alle Torri Gemelle, cui però ora i recenti sanguinosi episodi e la coscienza della inadeguatezza dimostrata dall’Occidente nel campo della prevenzione informativa conferiscono rinnovata attualità e vigore. Del resto nell’ambito delle Organizzazioni Internazionali di cui siamo membri esistono già strutture che, qualora adeguatamente utilizzate, potrebbero se non altro servire da base per la costruzione di qualcosa realmente comune. Il caso più eclatante è quello della Unione Europea che dispone addirittura di un Coordinatore Anti Terrorismo inserito nell’ambito del Servizio per l’Azione Esterna. Per la sua opera egli si avvale non solo dello European Intelligence Analysis Center (Intcen), ristrutturato nel 2012 e dotato di circa 160 dipendenti ed un bilancio di circa 20 milioni di euro, ma altresì di quanto può pervenirgli dal settore informazioni dello Stato Maggiore Internazionale della Ue.
Per comune ammissione il vero limite dell’Intcen consiste però nel fatto che esso non disponga di fonti proprie per l’acquisizione delle notizie, finendo quindi col dipendere totalmente dalla disponibilità a cooperare dei vari Stati membri dell’Unione.
Più o meno analoga si presenta poi la situazione della Alleanza Atlantica, ove è stato creato nel 2006 il Nato Intelligence Fusion Center (Nifc), dislocato nel Regno Unito e dotato di un organico che impegna ormai più di 200 persone, fra militari e civili. Il compito del Nifc, che come il suo omologo europeo non dispone di proprie fonti informative, è definito con estrema chiarezza come quello di «to share and not to protect». Si tratta quindi di una vera e propria camera di compensazione ove dovrebbero confluire, per essere poi integrate in un tutto coerente, le informazioni provenienti dai 26 Paesi Nato che hanno aderito alla iniziativa.
Esistono quindi già, sia in ambito europeo sia nel contesto atlantico, strutture che potrebbero condurre ad una reale condivisione delle informazioni e dispongono altresì di mezzi, organici e finanziari, forse non del tutto adeguati ma in ogni caso di rilievo.
Non altrettanto, purtroppo, si può dire dei risultati sino ad ora conseguiti, anche se si tiene conto, come scusante, dell’abitudine dell’Alleanza Atlantica a concentrare la propria attenzione più sui reali o potenziali teatri operativi esterni che sul territorio dei Paesi membri.
Tanto per l’atlantico Nifc, quanto per l’europeo Intcen il vero problema dipende in ogni caso dalla esistenza o meno di una reale e corale disponibilità a cooperare, condividendo tutte le informazioni in possesso, che coinvolga e motivi i singoli Paesi membri delle Organizzazioni, e di conseguenza le loro intelligence. Sino ad ora ciò non si è verificato, cosa ben comprensibile se si considera come i servizi informativi siano di solito orientati alla difesa di interessi nazionali se non incompatibili per lo meno diversi, o addirittura divergenti, da quelli di altri Stati che pur restano alleati ed amici. Si tratta di un fenomeno che si era attenuato con il progredire della costruzione europea, ma che ha acquistato nuovo vigore nell’ultimo decennio con la progressiva rinazionalizzazione delle politiche dei membri della Ue.
Per cambiare strada sarebbe quindi determinante il fatto che tutti riconoscessero al terrorismo internazionale una potenzialità di rischio tale da convincerli ad accantonare momentaneamente le differenze di visione e di obiettivi esistenti in altri settori. Da non dimenticare però come, anche se ciò avvenisse, la strada da percorrere rimarrebbe poi egualmente difficile, considerati la complessità ed il frazionamento della comunità dell’intelligence.
Gli Stati Uniti hanno diciassette organismi che operano nel settore, più uno per il coordinamento. Alla Francia ne vengono attribuiti diciannove. In Belgio sono tanti che nessuno azzarda una cifra. 
Da noi, grazie ad una buona legge mirata alla razionalizzazione del comparto, la situazione si presenta decisamente migliore, pur nella Inevitabile sopravvivenza di rivalità, doppioni e mentalità superate residuali.
Dobbiamo dunque limitarci a prendere atto di uno stato di fatto negativo e rinunciare definitivamente all’idea di una struttura sovrannazionale ed efficiente? Tutto il contrario, considerato anche come la molla più forte ed efficace di tutte, quella della necessità e della sopravvivenza, ci stia ineluttabilmente indirizzando nella direzione di una intelligence occidentale che risulti, se non unitaria, perlomeno strettamente coordinata.
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«L’invasione va fermata. E il Papa è un ostacolo»
«Necessario bloccare gli immigrati già nel deserto. Sul caso Regeni l’Italia sbaglia mira: bisogna indagare sui referenti locali di Giulio»
Libero 18 Apr 2016 ANDREA TEMPESTINI RIPRODUZIONE RISERVATA
Il periodo storico che più lo affascina è «il Risorgimento, per il pensiero militare che ha espresso l’Italia e per il modo in cui è stata composta la guerra regia con la guerra di popolo». Il personaggio storico che avrebbe voluto essere non lo rivela: «Avendo io ottant’anni, diciamo uno giovane». Va dritto al punto, afferma che «l’integrazione degli extracomunitari è fallita, pensi alla Francia. Non parliamo del Belgio». Poi ci ricorda che «la Nigeria nel 2100 avrà 500 milioni di abitanti, quelli che ha oggi l’Europa intera. Dove li mettiamo?». Dà per certo il decadimento del Vecchio Continente e della Russia «per ragioni demografiche», ma va oltre: «La Cina acquisterà potenza, ma a sua volta decadrà dopo il 2050 per la concorrenza degli indiani, che tra 80 anni saranno 1,5 miliardi». A parlare è il generale Carlo Jean: controcorrente per vocazione e autorevole per definizione, è a lui che ci si rivolge quando si ha un dubbio su strategie militari, scenari internazionali, geopolitica e “quisquiglie” di tal caratura. Al generale, tra le frivolezze, sarebbe stato bello chiedere se in vita sua, per caso, ha mai perso una partita a Risiko. Il suo analitico puntiglio ha relegato la domanda al regno delle ipotesi. Gli abbiamo però chiesto quale sia il più bello tra i film di guerra: «Aleksandr Nevskij», risponde senza esitazione. Si torna indietro nel tempo fino al 1938, a Sergey Ejzenštejn e alla sua epica cinematografica antinazista. Si torna (nel film) alla Russia degli zar che tanto affascina il generale, così come, forse, lo affascina lo “zar” Putin, definito «un maestro di strategia». Perché? «Pensi alla Siria. Annuncia il ritiro anche se non si ritira: mette pressione su Assad affinché conceda qualcosa ai negoziati di Ginevra. Dunque attacca e libera Palmira per rilegittimarsi davanti all’opinione pubblica internazionale. Tiene il piede in due staffe: appoggia Assad perché le basi militari in Siria gli fanno comodo, ma non si sbilancia troppo a favore del mondo sciita perché si metterebbe contro quello sunnita. Sa, il 18% della popolazione russa è islamica, e sono tutti sunniti. È spregiudicato al limite del cinismo, decide con rapidità, spiazza gli avversari. In Siria sta realizzando un capolavoro strategico».
Tutto il contrario rispetto a ciò che combinano Usa e Ue in Libia.
«Lì il problema è che nell’est del Paese ci sono Egitto e Francia che perseguono obiettivi differenti rispetto a Stati Uniti e Gran Bretagna: Parigi mira ai campi petroliferi, gli altri invece a distruggere l’Isis. La Comunità internazionale è ancora divisa su quali fazioni locali debbano essere appoggiate nella lotta a Daesh». E l’Italia? «Fino ad ora abbiamo mantenuto una posizione molto cauta e del tutto logica, che forse sarà vincente. Evitiamo che i libici considerino l’intervento internazionale come una specie di conquista coloniale. L’Italia persegue i suoi obiettivi indirettamente, appoggiandosi agli Stati Uniti: per noi il problema fondamentale non è l’Isis, ma l’immigrazione. Per questo è decisivo il controllo delle coste, che si può raggiungere solo stabilizzando la Libia e con l’aiuto dei libici: ciò spiega la cautela del nostro governo».
Lei dice che per l’Italia, più dell’Isis, il problema saranno i flussi migratori. Dopo le sue considerazioni sulla Libia ne deduco che ci attende un periodo drammatico.
«Il punto è che l’Ue non è in condizioni di gestire le ondate migratorie: servirebbero una forte coesione politica e responsabili all’altezza delle sfide da affrontare. Poiché tutto ciò non esiste, e poiché la politica estera non si può fare con le lacrime della Mogherini, ogni paese deve provvedere da solo, secondo i suoi interessi».
Pare chiaro il riferimento all’Austria: prima gli scontri al Brennero, poi la minaccia di chiudere il confine. Arriveremo a quel punto?
«Sì, per un semplice motivo: si tratta del confine che porta la rotta Mediterranea dei migranti verso l’Europa centrosettentrionale. Anche la Svizzera, infatti, sta mobilitando l’esercito. E per l’Italia, a peggiorare il quadro, c’è il fatto che con la quasi completa chiusura della rotta Balcanica, quella del Mediterraneo centrale e quella Adriatica acquisiranno maggiore importanza». Soluzioni? «La priorità è creare una barriera libica, selezionare e respingere i migranti economici. Detto in termini più brutali, sia chiaro si tratta di una provocazione, far morire gli aspiranti migranti nel deserto, dove nessuno li vede, e non nel Mediterraneo: altrimenti il polverone che si alza, anche a causa di un Papa che si agita un po’ troppo, impedisce di gestire l’emergenza. Per creare questa barriera servono accordi con Tunisia ed Egitto, nonostante l’assassinio di Giulio Regeni».
Ecco, il caso Regeni: dovremmo chiudere un occhio per interesse?
«Assolutamente no. E comunque l’interesse è congiunto: l’Egitto non vuole avere problemi con il suo maggiore partner economico. Con il richiamo dell’ambasciatore, però, abbiamo fatto una figuraccia: non pos- siamo imporre un’escalation, anche perché oggi l’Egitto, per i nostri partner occidentali, è strategicamente più importante. Siamo isolati».
Un’idea su ciò che è successo a quel ragazzo se l’è fatta?
«Nei regimi autoritari agiscono molti attori differenti, nessuno ha le mani pulite. Pensi a quanti italiani ha fatto fuori il tribunale speciale di Mosca, il cui segretario era Togliatti. Non so cosa sia accaduto a Regeni, ma chi lo ha spedito là senza protezioni e vie di fuga è stato un disgraziato. Lo ha mandato allo sbando».
Parla della sua professoressa di Cambridge, Anne Alexander?
«Esattamente. Fino a oggi la sua responsabilità è stata considerata molto poco: lo ha mandato a sfrugugliare gli affari più sporchi di un governo autoritario. È come spedire qualcuno in Corea del nord a protestare contro gli esperimenti nucleari di Kim Jongun».
Perché nel Regno Unito si parla del ruolo di questa signora e in Italia invece no?
«Andava contro l’emozione e l’opinione pubblica, da cui la Farnesina, soprattutto in periodo elettorale, è troppo dipendente. E l’opinione pubblica ha subito deciso che a uccidere Regeni siano stati i servizi segreti egiziani: non ha voluto sentire argomenti differenti e non ha voluto individuare altri colpevoli. Ma quella donna sapeva che Giulio era in pericolo: perché non lo ha fatto rientrare, e subito? Per capirci qualcosa, però, dovremmo indagare anche sui referenti locali di Giulio, sull’italiano che ha telefonato all’ambasciatore subito dopo la scomparsa. Era legato alla rivista di Cambridge per cui scriveva Regeni, rivista diretta da un ex agente della Cia...».
Chi accusa l’Italia di una reazione troppo blanda sbaglia?
«Cosa dovremmo fare, bombardare il Cairo? Di sicuro, però, stiamo facendo una figuraccia. Pensi al discorso di Al Sisi di pochi giorni fa: in sostanza ci ha detto di non rompergli i cosiddetti, perché l’Egitto non è la Svizzera. E in effetti quando si fanno certe cose in certi paesi bisogna essere consapevoli dei rischi che si corrono. E chi sostiene che l’Italia possa piegare l’Egitto con sanzioni economiche è ridicolo».
Torniamo in Europa, agli attacchi in Belgio. Lei ha criticato chi accusa di incapacità l’intelligence di Bruxelles. Un’altra opinione controcorrente: nulla da rimproverare?
«(Sbuffa) Ancora quest’affare delle colpe dell’intelligence... Ricorda il detto di Napoleone? La qualità maggiore di un generale non è l’intelligenza, ma la fortuna. Ovvero: il rischio non è mai zero, può capitare di tutto. Anche in Italia: fino ad ora siamo stati capaci, ma anche fortunati».
Mi sta dicendo che la prevenzione è impossibile?
«Esiste un’asimmetria strutturale tra attacco e difesa. Il terrorismo sceglie l’obiettivo e il tempo dell’attacco, e se l’obiettivo è protetto ne sceglie un altro. Inoltre le reti operative, in Europa, sono già strutturate e pronte a colpire: per organizzare un attacco co- [Ansa] me quello di Bruxelles basta una telefonata. Le forze di sicurezza dovrebbero difendere tutto per 24 ore al giorno: mi spiega come è possibile?». E dunque? «La cosa migliore da fare è quella che fu decisa dagli Usa al tempo di Bush: eliminare le centrali del terrorismo all’estero per non soffocare i nostri Paesi con le misure di sicurezza».
Ma con i foreign fighters, che sono già qui, come la mettiamo?
«Il punto fondamentale è che i loro attacchi sono ispirati a una particolare escatologia, che fa riferimento alla profezia di Maometto relativa alla vittoria finale dell’islam a Dabiq. Per sconfiggere il terrorismo dobbiamo vincerne l’ideologia, colpirla al cuore. Oggi Daesh ha una scarsa capacità operativa, ma quella simbolica è ancora fortissima: una volta che verrà distrutto lo Stato islamico in Siria e Iraq la profezia di Maometto si rivelerà per quello che è, ovvero un apocalittico bidone. Decadrebbe la possibilità che giovani frustrati si radicalizzino trovando una nuova identità nell’essere terroristi».
Ne deduco che per lei quella combattuta dall’Isis sia esclusivamente una guerra di religione.
«Rispetto a quasi tutte le altre guerre non vedo motivazioni strettamente economiche. Le malefatte sono ispirate da una particolare lettura del Corano».
Cosa risponde a chi dice che i morti in Siria sono come quelli di Parigi e Bruxelles?
«Che sbaglia: se loro sono così contenti di andare nel paradiso di Allah, aiutiamoli a farlo. E in fretta».
Massimo Fini ha detto che il kamikaze islamico ha una sua nobiltà. Cosa ne pensa?
«Come battuta va bene. Di sicuro tutti i fanatici disponibili a sacrificare la propria vita hanno una loro nobiltà. Mi spiego: ci credono davvero, sono convinti dell’interpretazione coranica che ispira il loro martirio. Se per questo intendiamo nobiltà, ha ragione Fini».
Passiamo agli Usa, Donald Trump: e se vincesse?
«Non cambierebbe assolutamente nulla. Chi parla di minaccia planetaria sbaglia: quali sono, realmente, i poteri del presidente americano in politica estera? La politica estera viene stabilita dall’establishment: è quasi immutabile, per variarla servirebbe un nuovo evento traumatico come il crollo delle Torri».
Cala il sipario su Obama. Un brevissimo bilancio?
«Ha combinato molti guai. Il surge in Afghanistan è stato quello che è stato. È andato in giro a esaltare le cosiddette primavere arabe, sostenendo che si trattasse di una specie di democratizzazione dal basso, ma non sapeva neppure di cosa stava parlando. Poi l’Iraq: il ritiro è stato ideologico, frettoloso, non ha tenuto conto né della realtà né del parere del Pentagono. Ha lasciato i sunniti in balia di al-Maliki, e il risultato è stato la nascita dello Stato islamico».

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