mercoledì 13 aprile 2016

Giustizia penale, moralità e garantismo nella crisi della democrazia moderna

Responsive imageDario Ippolito: Lo spirito del garantismo. Montesquieu e il potere di punire, Donzelli
Risvolto
«Invochiamo il potere di punire per difendere la nostra sicurezza. Ma come ci difendiamo dal potere di punire?».
È un potere tragico, il potere di punire. Protegge, minacciando. Contiene la violenza attraverso l’uso della forza. È uno scudo potente; ma può ferire quanto le armi da cui difende. La sua fonte di legittimazione risiede nella tutela della vita, dell’integrità e della libertà delle persone; che, in assenza di proibizioni legali munite di sanzioni, resterebbero in balìa della legge del più forte. Eppure, esso invade la sfera di immunità che presidia: inquisendo, imputando, costringendo e condannando. È un potere necessario e terribile, il cui esercizio può sempre degenerare in forme oppressive. Per questo, occorre limitarlo e modellarlo attraverso il diritto, al fine di renderlo aderente agli scopi garantistici che ne costituiscono la ragion d’essere. «È dalla bontà delle leggi penali – scrisse Montesquieu, oltre due secoli e mezzo fa – che dipende principalmente la libertà del cittadino»: dalla configurazione della sfera dei reati, dalla composizione dell’arsenale delle pene, dall’organizzazione giurisdizionale e dalle regole del processo. Questa lezione politica ha lasciato una traccia profonda nella civiltà del diritto. Ha ispirato Beccaria, ha fecondato il dibattito illuministico, ha inciso sul processo di laicizzazione, umanizzazione e razionalizzazione del sistema penale. Rileggere l’Esprit des lois, in un’epoca di espansione del potere punitivo, può essere un utile esercizio di resistenza contro la propaganda dogmatica del securitarismo. Con la sua critica dei divieti esorbitanti, dei castighi sproporzionati, delle accuse inverificabili e dei giudizi arbitrari, Montesquieu ci avverte che le fondamenta dello Stato di diritto poggiano sul terreno del garantismo penale.

Dario Ippolito insegna Filosofia del diritto e Sociologia del diritto all’Università Roma Tre. Ha svolto attività di ricerca e didattica presso la Luiss, l’Università di Bari Aldo Moro e l’Università di Roma La Sapienza, dove è stato docente di Storia delle dottrine politiche e Storia moderna. Professeur invité presso l’École Normale Supérieure (Lyon), ha pubblicato numerosi saggi, tradotti in varie lingue. Ha lavorato come autore per Radio3 Rai.
In nome della legge 
Patrizio Gonnella Manifesto 13.4.2016, 0:05
Se Dario Ippolito non avesse scritto in modo cristallino, sincero, politicamente corretto undici pagine di Prologo al suo libro Lo spirito del garantismo. Montesquieu e il potere di punire (Donzelli, pp. 112, euro 16,50) non sarebbe incorso nelle attenzioni critiche e rancorose della destra giornalistica italiana.
Avrei potuto in questa recensione parlare della relazione tra libertà e diritto, di Hobbes e Beccaria, di Voltaire e Jefferson oppure di pena di morte, habeas corpus, Stato confessionale e Stato laico. Ma nel solco di Guido Vitiello (il Foglio del 26 marzo) e Nicola Porro (il Giornale del 20 marzo) mi soffermo anch’io sul tema liberali di destra, liberali di sinistra, nonché collocazione politica del garantismo. E anch’io parto dall’incipit del Prologo di Dario Ippolito: «Garantismo è parola svilita, deturpata dall’abuso. Spesso, e comprensibilmente, suscita sospetto, insofferenza. Evoca nell’immaginario di molti, cavilli procedurali e scaltrezze curiali. È equivalente, per chi ne diffida, di impunità e privilegio: di legalità sacrificata sull’altare del formalismo giuridico. Irrita come il fumo negli occhi».
Il nobile pensiero e la illustre storia garantista – ha ragione Dario Ippolito – sono stati violentati, derisi nel ventennio berlusconiano. Si sono contrapposti in modo corporativo, irriguardoso per le nostre intelligenze i fronti del garantismo specioso, opportunista (della destra non liberale italiana) e del giustizialismo forcaiolo, proibizionista, populista (della sinistra non liberale italiana). Porro chiede a Ippolito perché la lotta per le garanzie si debba fare per Adriana Faranda e non per Silvio Berlusconi? Provo a rispondergli.
Gli anni Settanta del secolo scorso sono stati una palestra – su scala europea – di giustizia repressiva, di scivolamento verso il sostanzialismo penale nel nome della lotta al terrorismo. La parole chiave era «emergenza» che ha giustificato la riduzione delle garanzie. La legge Reale (che non si può dire fosse un liberale autentico) ha prodotto una compressione dei diritti fondamentali a partire da quelli di difesa e di libertà di movimento. Arresti arbitrari e pene elevatissime per reati di opinione hanno colpito un po’ chi capitava. Era il 1978 quando i radicali promossero il referendum per l’abrogazione della legge Reale. 7 milioni e mezzo di persone votarono per cancellare quella legge illiberale. Ma ben 24 milioni si schierarono per il no, ovvero per la sua permanenza nella legislazione italiana. Tra quei 24 milioni c’erano i non garantisti di destra, di centro e di sinistra. Dunque la Faranda, citata da Porro, ha subito le leggi emergenziali decise da altri nel nome dello stato di eccezione. Nel caso di Silvio Berlusconi, essendo lui il decisore politico, le leggi sono state cambiate ma nel senso opposto a quello che un garantista di ispirazione illuminista avrebbe voluto: la giustizia è diventata strumento di classe, duro, inflessibile con i poveri e clemente, generoso, lassista con i colletti bianchi. Dunque Silvio Berlusconi, a volte riuscendoci a volte no, ha provato da premier e politico a scardinare il principio liberale dell’uguaglianza davanti alla legge. Lui le leggi le faceva a differenza della Faranda.
Negli anni che era al Governo, insieme alla Lega, ha fatto carta straccia del principio di offensività penale. Cosa dice Porro della legge Cirielli che prevedeva tempi lunghi di prescrizione solo per taluni reati (quelli dei ricchi) e pene severe per altri reati (quelli dei poveri di solito pluri-recidivi)? Se Silvio fosse stato un garantista liberale avrebbe tagliato la prescrizione a tutti o ridotto le pene per tutti. E cosa pensa Vitiello dell’opposizione della destra (e di parte della sinistra) all’introduzione del delitto di tortura nel codice penale? Spieghi a Ippolito cos’ha di liberale prevedere il reato di immigrazione irregolare, fattispecie penale priva di qualunque offensività criminale?
Il libro di Ippolito è un memorandum colto, storicamente preciso, filosoficamente profondo che dovrebbe essere letto più volte da tutti coloro che si auto-definiscono liberali e di sinistra. Dovrebbe essere recitato nelle aule di tribunale e nelle aule parlamentari. Dovrebbe essere conosciuto a memoria da chi si ritiene parte di un campo liberale e progressista del quale però, va ricordato a futura memoria, ha fatto parte anche chi affermava quanto segue: «L’immigrazione onesta, quella di chi viene per trovare un lavoro è un bene per l’Italia. Siamo però convinti che ci voglia intransigenza nei confronti di altri tipi di immigrazione: quella criminale, che deve essere penalmente perseguita subito e duramente, e quella clandestina, contro cui bisogna intervenire per evitare che l’Italia diventi il vespasiano d’Europa» (Antonio Di Pietro, 2008).
Dunque la lettura e la rilettura dei classici si spera facciano chiarezza, ridiano dignità alla parola «garantismo» e tolgano terreno sotto i piedi a chi invece si definisce orgogliosamente «giustizialista» e di sinistra.

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