mercoledì 6 aprile 2016

Guerra psicologica da tutte le parti



Soros o non Soros, la pubblicazione dei Panama Papers è un normalissimo momento di guerra psicologica nell'ambito di un vasto conflitto globale che ha elementi di offensiva imperialistica (prevalenti), momenti di resistenza nazionale o regionale e momenti di lotta inter-imperialistica. Un conflitto che è sotto gli occhi di tutti e i cui caratteri sono studiati e dibattuti. Un conflitto nel quale, come sempre, è utile suscitare l'indignazione morale più vasta possibile, anche ricorrendo alle falsificazioni e ai depistaggi, al fine di isolare l'avversario mettendolo in contraddizione con i sentimenti morali ufficiali della società democratica.

Lo stesso però vale per l'operazione Snowden e per quella WikiLeak.
Non è che gli altri fanno complotti e noi o quelli che ci stanno simpatici siano il Bene in quanto tale (noi chi poi? E in nome di chi?). Non è che i loro complotti siano efferati e sautìni e gli altri bellissimi e legittimi.

Certamente gli interessi e i progetti in conflitto non sono tutti uguali e noi abbiamo il dovere di prendere posizione senza terzismi ipocriti e sappiamo bene da che parte stare.

E però se il nostro giudizio politico è legato al fatto che Putin non ruba o che Al Sisi è buono perché è suo alleato, siamo messi male.

Non cambia niente sul piano politico se Xi o Assad si sono portati i soldi all'estero, o se l'omicidio Regeni nasce nell'entourage di Al Sisi. È il contesto del conflitto ciò che decide.
Dobbiamo smetterla con questa mentalità binaria, manichea e da tifo calcistico per cui i nostri (?) sono sempre immacolati. Siamo ridicoli, tra chi immagina un mondo di care certezze alle quali aggrapparsi - questo di qua, questo di là... - e chi denuncia solo i complotti altrui.
Tutto è alla luce del sole, non c'è nessun mistero per quanto riguarda ciò che è essenziale.
Ma come in un famoso romanzo, proprio ciò che è più manifesto è per lo più ciò che rimane più occulto. In primo luogo il fatto che la politica non è la lotta del Bene contro il Male e la storia non è la narrazione morale di questa lotta [SGA].

Nuove ombre si addensano sugli Stati Uniti. La Cia avrebbe utilizzato servizi forniti dallo studio Mossack Fonseca per azioni coperte. Invischiati anche i servizi segreti di Arabia Saudita, Colombia e Ruanda


Panama Papers Il padrone che comanda la fabbrica degli scoop
diAlberto Negri  Il Sole 6.4.16
La fabbrica degli scoop questa volta ha battuto ogni record. Gli 11,5 milioni di file dei Panama Papers surclassano Wikileaks del 2010 e le rivelazioni di Edward Snowden nel 2013. Da dove vengono? Sono stati consegnati da una fonte anonima alla Suddeutsche Zeitung che li ha condivisi con il consorzio di giornalismo investigativo. Chi è la fonte anonima? Il suo nome non importa direbbero nei fogliettoni d’appendice, quello che conta è invadere la stampa mondiale di rivelazioni piccanti: miriadi di società e buona parte delle grandi banche mettono i soldi nei paradisi fiscali mettendo al sicuro una classe politica internazionale che fa le leggi e allo stesso tempo le aggira. Il bello che molti di loro sono eletti democraticamente. Ma attenzione: qui nessuno è innocente.
Chi è l’autore? Probabilmente una squadra di hacker: ma il suo committente? Anche questo non importa: non guardiamo la cornice né la parete dove il quadro è appeso ma quello che ci sta dentro. L’importante è rivelare che autocrati, monarchi, politici con personaggi della più varia estrazione, star dello sport comprese, fanno tutti la stessa cosa: evadono le tasse e nascondono i loro guadagni. Non è per sminuire uno scoop grandioso ma è così scandaloso scoprire che Messi fa in maniera più raffinata quello che faceva il suo più ruspante connazionale Maradona? Che Putin e il leader ucraino sono esportatori di capitali allo stesso modo? Forse solleva più curiosità individuare chi ci recapita questi faldoni e perché. Certo che il network di società riconducibili in qualche modo a Putin è una ghiotta notizia, così come il nutrito gruppetto di avidi leader cinesi del comitato centrale. Tutta gente che con il comunismo non ha più niente a che fare da un pezzo.

A questi si aggiunge il solito manipolo di monarchi musulmani che nonostante le sfiorite primavere arabe e l’Isis stanno ancora lì, seduti su montagne di denaro, magari per finanziare in segreto i jihadisti e tenerli lontani dalla loro cassaforte segreta. Ma l'’slam non è sinonimo di giustizia, di prestiti senza interessi, di profitti da condividere con i più poveri?
Ma chi ci interessa davvero è il padrone della fabbrica degli scoop, l’autore, e le sue motivazioni. Altrimenti tutto questo ha un senso effimero e come tutti gli scoop per un po’ fa rumore e poi si sgonfia nell’assuefazione generale. Senza contare che non ci sono quasi mai conseguenze davvero rilevanti: gli evasori continueranno a veleggiare nei mari caldi dei paradisi fiscali, con l’eccezione forse di quelli che nelle autocrazie possono trovare giustizieri con il pelo sullo stomaco ansiosi di sostituirli a Panama, Anguilla o nelle Cayman.
Se questi Stati costituissero una Federazione forse avrebbero anche un peso contrattuale sulla scena internazionale. Oppure ce l’hanno già e facciamo finta di niente, varando leggi anti-riciclaggio che solo in parte vengono rispettate e violate magari proprio da quelli che le propongono. Al premier britannico Cameron forse fischiano le orecchie.
Al contrario non si capisce perché i paradisi debbano ancora esistere, visto che con acuminate sanzioni americane sostenute dagli europei si tengono a bada per anni Paesi come la Russia, Iran o Iraq. Mentre in questa rete della Mossack Fonseca troviamo la Corea del Nord e i suoi programmi nucleari, insieme ai banditi inglesi che negli '80 rubarono tonnellate d’oro. E pensare che a Panama gli Usa hanno fatto pure una guerra nel 1989 abbattendo “faccia d’ananas” Manuel Noriega: Washington occupò il canale per 10 anni prima di restituirlo. Ma qui abbiamo la memoria corta.
A tutto comunque c’è una spiegazione: è la banalità dell’evasione. Guardando i dati una delle sorprese più interessanti è scoprire che in realtà gli evasori - a parte i nomi eccellenti - siamo tutti noi o quasi. «Il 95% del nostro lavoro consiste nel vendere auto per non pagare le tasse», afferma un partner della Mossack Fonseca.
L’altro numero davvero rilevante è che delle 300mila società collegate alla rete panamense più della metà avevano sedi nei paradisi fiscali britannici, Virgin Island, Guernsey, Jersey, Isola di Man e la stessa Gran Bretagna. In un certo senso Londra la sua Brexit l’ha già fatta da un pezzo.
Siamo quasi certi però che la fabbrica degli scoop non si fermerà ma il suo padrone, dall’hacker misterioso a chi lo manovra, resterà nell’ombra. Ma questo è secondario, noi qui siamo assetati di colpi sensazionali, quasi quanto gli esilaranti giornalisti descritti da Evelyn Waugh in “Scoop”. Fu il primo Waugh a scoprire che Mussolini stava per invadere l’Abissinia, telegrafò il servizio in latino per non essere “hackerato” ma nessuno gli credette. Gli scoop oggi hanno una funzione più politica che giornalistica: fare indignare ma non ragionare, accreditare la versione della storia che il sistema ha i suoi “anticorpi” e può continuare a sopravvivere. Tanto rumore per nulla. 

Perché è giusto svelare i segreti 
Vladimiro Zagrebelsky  Busiarda 6 4 2016
Quando c’è una fuga o, come ora si dice, «leak» di notizie è perché si tratta di notizie che sono segrete o che c’è chi ha interesse a tenerle segrete. L’ultima fuga, di una serie ormai nutrita, sollecita considerazioni generali che superano la pur importante occasione. E puntualmente l’articolo di Massimo Russo sul giornale di ieri segnala tanti aspetti delle fughe, di cui occorre tener conto per evitare di considerarsene beneficiari, essendo invece strumenti di disegni occulti. Occulti come i «segreti svelati». Occorre certo chiedersi a chi giova la fuga di notizie o, in generale, la pubblicazione di notizie. La risposta alla domanda, se è possibile, serve anche per farsi un’idea della credibilità della notizia. Ma spesso la notizia riflette fatti indiscutibilmente veri, anche se da interpretare. E l’interesse che l’uno o l’altro abbia a svelare il segreto non toglie valore informativo alla notizia sfuggita a chi la deteneva. E ciò tanto più per coloro che non abbiano motivo di parteggiare per chi si avvantaggia della pubblicità data o per chi godeva del segreto. 
Tuttavia la domanda a chi giova la pubblicizzazione deve essere accompagnata da quella che chiede a chi giova il mantenimento del segreto. Spesso la risposta è semplice, quando il riferimento è a fatti criminali o altrimenti illeciti o invece a circostanze intime della vita individuale o familiare. Ma vi è tendenza a estendere oltre misura il diritto a mantenere segreti o riservati – come si preferisce dire – ogni genere di fatti e condotte. È il tema della «privacy». L’inglese, come una volta il latino, serve a dare autorevolezza e indiscutibilità a un concetto piuttosto indefinito. E nel discorso pubblico si va molto oltre quanto prevedono le leggi in materia. 
La tirannia della trasparenza è denunciata da chi teme che venga travolta l’area di riservatezza indispensabile alla salvaguardia della dignità e della libertà della persona. Ma occorre definire quel nucleo insopprimibile e chiedersi se esso sia eguale per tutti o se vi siano restrizioni per chi esercita funzioni pubbliche o rappresentative, se il limite riguardi anche le condotte che concernono il rapporto con la società e lo Stato, come quelle fiscali, se il limite alla riservatezza riguardi non solo i fatti illeciti, ma anche quelli comunque incompatibili con i doveri propri del ruolo o dello stato professionale. Nella giurisprudenza europea la risposta è affermativa per tutti questi aspetti. I personaggi che sono in qualsiasi modo impegnati nella sfera pubblica sono soggetti a un tasso di pubblicità che la democrazia non richiede per le altre persone. I dati, che riflettono l’osservanza del fondamentale obbligo fiscale, hanno un interesse pubblico che supera quello privato individuale, tanto più quando riguardino persone dalle quali, per la loro ricchezza o posizione, è giusto esigerne il rigoroso adempimento. 
Il segreto o riservatezza di informazioni riguardanti le persone è solitamente protetto da norme di legge o dalla imposizione contrattuale di particolari doveri per chi lavora in ambiti privati. È naturale che sia così, poiché spesso chi è interessato al segreto ha anche la forza di imporne le regole. Tuttavia nella società democratica, per consentirne il funzionamento con la formazione di un’opinione pubblica (e un elettorato) consapevole, deve poter operare chi professionalmente o occasionalmente cerca di superare e forzare i segreti. Trovare fonti disposte a correre i rischi derivanti dalla violazione, controllare ed elaborare i documenti e le notizie ottenute, in questo consiste il lavoro del giornalista d’inchiesta. La sua esperienza e correttezza professionale è l’indispensabile condizione perché l’interesse pubblico alla informazione sia adeguatamente soddisfatto e che la pretesa del segreto non sia abusiva. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

IL DOPPIO STANDARD DELLA TRASPARENZAanama Le eruzioni di notizie riservate, adesso su paradisi fiscali e prima con Wikileaks, sono un fenomeno del nostro tempo: fanno luce su segreti, ma non solo. Nelle democrazie i contraccolpi sono evidenti, negli Stati autoritari non subito Corriere della Sera 11 Apr 2016 Di Maurizio Caprara
Le ondate di rivelazioni come quelle dei cosiddetti «Panama papers» su patrimoni custoditi in paradisi fiscali sono ormai un fenomeno ricorrente del nostro tempo. Di queste eruzioni di informazioni destinate in origine a non essere pubblicate le nuove tecnologie hanno accresciuto le dimensioni e Internet ha aumentato la velocità nella quale si propagano a livello planetario le scosse generate, le conseguenze della trasparenza inattesa.

Da un momento all’altro, enormi fughe di notizie scuotono equilibri politici e irrompono, cambiandole, nelle agende di politica interna di alcuni Paesi e della politica internazionale. Era già accaduto nel 2010 quando Wikileaks pubblicò rapporti riservati o segreti di diplomatici e militari statunitensi. Qualcosa di analogo si è ripetuto nel 2013 quando il contrattista della National security agency Edward J. Snowden rese noto che l’agenzia compiva controlli su telefoni e posta elettronica di milioni di persone.
Vampate di trasparenza del genere mettono a nudo potenti, malefatte, giochi e vizi del potere. Se ciò è per certi versi attraente c’è però da domandarsi se sia soltanto questo.
Innanzitutto le ripercussioni non sono identiche, almeno nella tempistica, tra i Paesi democratici e non democratici. Dimissioni da cariche pubbliche, proteste, esami parlamentari dei casi venuti alla luce si riscontrano nelle democrazie anche se, in un’epoca nella quale la censura a tenuta stagna è stata indebolita da tv satellitari e Web, non va escluso che gli Stati autoritari subiportato scano ripercussioni dilazionate. I crolli a catena di regimi durante le «primavere arabe» sono avvenuti nel 2011, età della Rete, non ai tempi della tv in bianco e nero.
La fonte anonima che ha svelato il contenuto di archivi dello studio legale panamense Mossack Fonseca è stata in grado di appropriarsi di 2,6 terabyte di materiale, undici milioni e mezzo di documenti. Finora l’eruzione di rivelazioni proveniente da Panama, che non è terminata, non ha causato scosse tellurico-politiche in Cina, Russia e Arabia Saudita, pur presenti nei documenti con citazioni di proprietà di personalità di rilievo o loro referenti. Invece in Islanda ha alle dimissioni del primo ministro Sigmundur David Gunnlaugsson che non aveva dichiarato al fisco la comproprietà di una società alle Isole Vergini. In Gran Bretagna i documenti su suoi investimenti all’estero mettono sotto pressione il premier David Cameron (e nel referendum del 23 giugno possono danneggiare la sua posizione, contraria all’uscita dall’Unione Europea). In Argentina il presidente Mauricio Macri si trova obbligato a promettere di affidare i suoi beni a un fondo cieco gestito da terzi.
Le novità del nostro tempo non consistono nelle «talpe» o nelle falle, ma nel volume di informazioni che queste possono sottrarre ad archivi protetti, nella rapidità della loro diffusione e nei modi per sottrarle, anche a distanza. E nell’apparente anarchia della Rete, nella sua orizzontalità priva di gerarchie, nei terremoti provocati dalle fughe di notizie si liberano spazi che portano a redistribuzioni di potere non paritarie. A colmare i vuoti possono essere il consolidarsi di vecchie oligarchie o l’imporsi di nuove.
È su Internet e sull’accesso a reti protette che i servizi segreti spendono buona parte delle loro energie. Nel 2013 un rapporto della multinazionale Verizon Business, segnalò Antonio Teti su Gnosis, la rivista dell’Aisi, il servizio segreto civile italiano, ravvisò «la proliferazione di gruppi di hacker (pirati informatici, ndr) organizzati su un modello gerarchico-militare, spesso coordinati a livello planetario da strutture governative, lobby e gruppi di potere», formazioni «al soldo del miglior offerente» anche se «non di rado mascherate come gruppi liberaldemocratici o attivisti animati da nobili ideali».
Teti, le parole tra virgolette sono sue, già tre anni fa ha fatto presente che una richiesta di amicizia su Facebook può nascondere sistemi per sottrarre dati. Che false identità virtuali possano influire sugli orientamenti di comunità in rete non va escluso. Anche in mancanza di cattive intenzioni, il potere si ridistribuisce non necessariamente a vantaggio delle istituzioni democratiche. Google conosce di ogni suo utente interessi e curiosità, ne può ricavare ritratti personali che i servizi segreti del passato non sarebbero stati capaci di tratteggiare. Il potere degli Stati viene di fatto battuto da soggetti privati. Il mondo è cambiato. Le legislazioni non a sufficienza.

i Panama Papers e l’operazione trasparenza Valdis Dombrovskis* Jonathan Hill** Busiarda 12 4 2016
I Panama Papers hanno portato ai vertici dell’agenda politica la questione della trasparenza fiscale. Oggi la Commissione europea presenta proposte volte a rafforzare la trasparenza fiscale delle multinazionali che operano in Europa, per gettare luce sul mondo complesso e talora oscuro del fisco internazionale.
Le nostre economie e le nostre società dipendono da un sistema fiscale percepito come equo. A generare una sensazione di ingiustizia è il fatto che le grandi imprese, grazie alle risorse e alle strutture su cui possono contare, riescono a trovare il modo di ridurre notevolmente la loro aliquota fiscale effettiva.
Se alcune imprese pagano meno tasse, le altre saranno costrette a pagarne di più. Le piccole che non si possono permettere adeguate consulenze fiscali, che consentano loro di ridurre al minimo le tasse, si ritrovano in sostanza a pagare per le multinazionali. Ciò è inammissibile in termini di equità e di concorrenza leale.
Per questo motivo proponiamo norme che prevedono l’obbligo per tutte le grandi multinazionali che operano in Europa di rendere pubbliche le informazioni sul luogo in cui realizzano gli utili e quello in cui pagano le tasse, fornendo i dati paese per paese. Le norme interesseranno circa 6.500 imprese con un fatturato di oltre 750 milioni di euro. Le imprese sarebbero inoltre tenute a comunicare l’ammontare complessivo delle tasse che pagano fuori dall’Ue, fornendo informazioni specifiche per le imposte versate nelle giurisdizioni fiscali problematiche (i «paradisi fiscali»).
Le informazioni sarebbero rese disponibili, per un periodo di cinque anni, su un sito Internet della società, in modo che chiunque fosse interessato possa sapere dove pagano le tasse le multinazionali. Per far sì che le imprese europee non siano le uniche a dover sottostare a tali obblighi, le stesse norme sarebbero applicate anche alle grandi filiali di imprese non europee che operano in Europa.
La proposta è un modo semplice, efficace e proporzionato per contribuire agli sforzi compiuti affinché le grandi multinazionali paghino la giusta quota di imposte e si basa su un’attenta valutazione d’impatto. Non chiediamo la divulgazione di segreti aziendali né intendiamo danneggiare la competitività globale delle multinazionali, ma dobbiamo far fronte con decisione allo svantaggio competitivo di cui soffrono attualmente le Pmi.
Le misure descritte fanno parte di un più ampio programma di riforma, precedente ai Panama Papers. A livello internazionale abbiamo collaborato strettamente con l’Ocse e con il G20 per promuovere principi globali di buona governance in materia fiscale. Riteniamo che una maggiore trasparenza possa contribuire in misura determinante a sostenere questo programma. Le violazioni della legge vanno punite con condanne penali e sanzioni severe. Se invece la legge non è stata violata e le attività smascherate non sono altro che metodi legali per eludere il pagamento delle tasse, la trasparenza può aiutarci a capire se le normative in vigore sono appropriate. Qualora non lo fossero, bisognerebbe provvedere a eliminare le scappatoie. Le imprese dovrebbero chiedersi se agiscono per tutelare gli interessi superiori a lungo termine dei loro azionisti in termini di reputazione.
Affinché le imprese possano prosperare c’è bisogno di un contesto fiscale competitivo, ma sono i governi che devono pensarci, non legali e consulenti fiscali scaltri che escogitano sistemi ancora più complicati per alleggerire il carico fiscali di alcuni privilegiati. Per generare l’occupazione e la crescita necessarie, abbiamo bisogno di imprese forti e che ispirino fiducia. Una maggiore trasparenza può contribuire a rafforzare la fiducia nelle imprese e ad assicurare una concorrenza equa.
*Vicepresidente Commissione Europea
** Commissario Ue per i mercati finanziari
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