venerdì 22 aprile 2016

I saggi linguistici di Tolkien

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Dimitra Fimi e Andrew Higgins: A Secret Vice: Tolkien on Invented Languages, HarperCollins

Risvolto
First ever critical study of Tolkien’s little-known essay, which reveals how language invention shaped the creation of Middle-earth and beyond, to George R R Martin’s Game of Thrones.

J.R.R. Tolkien’s linguistic invention was a fundamental part of his artistic output, to the extent that later on in life he attributed the existence of his mythology to the desire to give his languages a home and peoples to speak them. As Tolkien puts it in ‘A Secret Vice’, ‘the making of language and mythology are related functions’’.

In the 1930s, Tolkien composed and delivered two lectures, in which he explored these two key elements of his sub-creative methodology. The second of these, the seminal Andrew Lang Lecture for 1938–9, ‘On Fairy-Stories’, which he delivered at the University of St Andrews in Scotland, is well known. But many years before, in 1931, Tolkien gave a talk to a literary society entitled ‘A Hobby for the Home’, where he unveiled for the first time to a listening public the art that he had both himself encountered and been involved with since his earliest childhood: ‘the construction of imaginary languages in full or outline for amusement’.
This talk would be edited by Christopher Tolkien for inclusion as ‘A Secret Vice’ in The Monsters and the Critics and Other Essays and serves as the principal exposition of Tolkien’s art of inventing languages. This new critical edition, which includes previously unpublished notes and drafts by Tolkien connected with the essay, including his ‘Essay on Phonetic Symbolism’, goes some way towards re-opening the debate on the importance of linguistic invention in Tolkien’s mythology and the role of imaginary languages in fantasy literature.
In principio era il verbo. Pure nella Terra di mezzo

La HaperCollins pubblica i saggi linguistici annotati di Tolkien, che si rifaceva alle teorie di Platone e all’esempio dell’esperanto per creare i vari idiomi del «Signore degli Anelli»

Libero 22 Apr 2016 MARCORESPINTI RIPRODUZIONE RISERVATA
Se non si comprende il suo amore per le lingue, di J.R.R. Tolkien non si capisce nulla. Lo scrisse lui a metà del 1955 al suo editore statunitense, la Houghton Mifflin Co.: «L’invenzione delle lingue è il fondamento. I “racconti” sono stati creati più per fornire un mondo per le lingue che non il contrario», e dunque Il Signore degli Anelli è «principalmente un saggio di “estetica linguistica”». Non solo le lingue, cioè, stanno al centro della preoccupazione dello scrittore, ma il loro bello: la bellezza intrinseca di un idioma e la bellezza che esso veicola. Per questo il testo tolkieniano chiave è quello che l’allora professore di Anglosassone al Pembroke College dell’Università di Oxford preparò per una conferenza di filologi nel 1931 e che una ventina di anni dopo riaggiustò per una seconda lettura pubblica, probabilmente nel 1950.
Ora quel saggio viene pubblicato a Londra dalla HarperCollins con il titolo A Secret Vice: Tolkien on Invented Languages in una edizione critica curata da due specialisti, Dimitra Fimi e Andrew Higgins. Lettrice di Lingue e letteratura inglesi all’Università di Cardiff e autrice di Tolkien, Race and Cultural History: From Fairies to Hobbits (2009), la Fimi ha conseguito il dottorato di ricerca nel 2005 con una tesi sull’uso creativo che Tolkien faceva della cultura dotta. Andrew Higgins, suo allievo, si è addottorato l’anno scorso studiando la genesi della mitologia creata dal bardo di Oxford.

In realtà, Tolkien intitolò quel saggio A Hobby for Home. Fu il figlio Christopher, suo erede letterario, a ribattezzarlo A Secret Vice (Un vizio segreto) quando, pubblicandone la versione definitiva nella miscellanea The Monsters and the Critics and Other Essays del 1983, riprese la suggestione di una lettera scritta dal padre nel 1967 (in italiano il volume è uscito come Il medioevo e il fantastico ,a cura di Gianfranco de Turris, prima per la Luni nel 2000 e poi per Bompiani nel 2003).

Nella nuova edizione completa e critica il saggio è una miniera d’oro. Anzitutto perché reintegra le parti omesse nella versione di A Secret Vice del 1983 e propone le note appostevi dall’autore. Quindi perché si accompagna a una seconda perla, un altro saggio linguistico di Tolkien, inedito, Phonetic Symbolism, incentrato, dicono i curatori L'Unico Anello al dito di Sauron nel film «La Compagnia dell'Anello» di Peter Jackson. A sinistra, la copertina del volume «A Secret Vice»

Fimi e Higgins a Libero, «sull’idea che tra il suono che produce una parola e il suo significato vi sia una relazione diretta», un’idea «risalente al Cratilo di Platone», ma «marginalizzata nella linguistica moderna canonizzata da Saussurre».

Tutto molto bello, si sarebbe tentati di pensare, e però troppo elitario, lontano dalla pop culture che ormai si è impadronita di Tolkien. Falso. Dentro c’è infatti il cuore autentico della subcreazione tolkieniana, e forse persino il suo significato più profondo.

Narra il legendarium di Tolkien che quando Ilúvatar, il Padre di tutti, risvegliò alla vita gli Elfi agli albori della Terra di Mezzo essi iniziarono naturalmente a parlare. Crearono il Quenderin, l’elfico primigenio da cui sono poi discesi tutti gli altri idiomi tolkieniani. Prima di esso vi era solo il Valarin, la lingua parlata dagli Ainur, i “Santi” d’Ilúvatar, angeli e arcangeli, principati e potestà. In realtà non ne avevano bisogno, perché comunicavano con la mente, ma lo parlarono da che presero forma storica nella creazione d’Ilúvatar. Perché mai un rispettatissimo cattedratico della più blasonata università inglese dovrebbe perdere la faccia con giochini così? Perché il gioco di Tolkien è serissimo. Egli, che parafrasando la liturgia del Venerdì Santo esclamò: «Felix culpa Babel!», contemplava infatti nientemeno che il superamento della maledizione della Torre di Babele. È lui stesso a suggerirlo, facendo riferimento, in A Secret Vice, all’esperanto.

La lingua artificiale creata dall’oftalmologo polacco Ludwik Lejzer Zamenhof restò un interesse costante dello scrittore, forse persino un pungolo, come dimostra il recente J.R.R. Tolkien l’esperantista. Prima dell’arrivo di Bilbo Baggins (Cafagna, pp. 160, euro 15) curato, con inediti del professore di Oxford, da Oronzo Cilli ,i cui studi sul tema sono infatti opportunamente citati nel lavoro critico di Fimi e di Higgins. L’esperanto fu creato per superare la barriere tra gli uomini e produrne la fratellanza. Un’utopia, e Tolkien finì per rendersene conto. Ma per lui il punto nodale restava. E, non pago, creò l’elfico. Non si sognò mai di proporre una Società delle Nazioni che lo parlasse; mirava solo a puntare la questione centrale: cos’è una lingua, chi è l’essere che la parla, quali significati trasmette. La centralità del verbo, insomma, e quella del Verbo. La radice di tutto oltre la Torre di Babele in cui viviamo. Per questo Tolkien è (com’è stato detto di Joseph De Maistre impegnato con il principio primo generatore di tutto) un pensatore dell’origine. Il suo vizio segreto ne è la prova.

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