venerdì 15 aprile 2016

Il capo di tutti gli eversori




Falliti 6 referendum su 7 in 20 anni

di Roberto D’Alimonte Il Sole 15.4.16
Non occorre essere degli scienziati politici per prevedere che il referendum sulle trivelle molto probabilmente fallirà. In questi tempi di profonda disaffezione dei cittadini nei confronti della politica e delle sue istituzioni è azzardato ipotizzare che il 50% più uno degli elettori si rechi a votare. 
E come ben si sa questa è la condizione perché il risultato sia valido. Dovrebbero recarsi alle urne 23.452.578 elettori. Un traguardo molto difficile da raggiungere.
Tanto più che sul quesito l’informazione è scarsa e la mobilitazione è modesta. Inoltre la scelta tra il sì e il no configura un dilemma tra protezione dell’ambiente e difesa dei posti di lavoro che terrà lontano dalle urne anche una parte di coloro che sono più informati e meno distanti dalla politica.
In questi giorni abbiamo sentito appelli al voto come dovere civico. Non funzioneranno. Non riusciranno a mobilitare né gli elettori indifferenti né gli arrabbiati. Ma forse lo scopo di questi appelli è solo quello di demonizzare gli “astensionisti strategici”, cioè coloro che intendono astenersi per impedire il raggiungimento del quorum.
Ma per quale motivo coloro che sono contrari all’abrogazione della norma sottoposta al voto dovrebbero rinunciare a una strategia elettorale permessa dalle regole del gioco? I comportamenti politici non sono solo frutto di emozioni ma anche di incentivi.
La presenza di un quorum così elevato per la validità del referendum rappresenta un incentivo potente a favore della astensione strategica da parte degli elettori e dei partiti contrari alla abrogazione della norma in questione. Una strategia inaugurata con successo dai “cacciatori” nel 1990 e poi diventata uno strumento largamente utilizzato.
La possibilità di sommare l’astensionismo degli indifferenti e degli arrabbiati con quello dei contrari alla abrogazione rappresenta un vantaggio tale da rendere inefficaci gli appelli alla deontologia democratica. In questi casi è la razionalità politica a prevalere.
A partire dal 1995 la strategia dell’astensionismo strategico ha sempre avuto successo (si veda il grafico in pagina). L’unico referendum valido da allora è stato quello del 2011. Ma c’è voluto il disastro di Fukushima per portare gli elettori a votare.
Per cambiare le cose bisogna cambiare gli incentivi, cioè cambiare le regole del gioco. Così come è congegnato ora il referendum è diventato uno strumento inutile. In particolare occorre eliminare o modificare il quorum. Questo non farà aumentare drammaticamente l’affluenza alle urne.
L’astensionismo elevato dipende da molti fattori, sia di lungo periodo che contingenti.
Però, quello che realisticamente può fare una modifica del genere è eliminare l’incentivo che oggi consente ai fautori del no di godere di un vantaggio competitivo nei confronti dei fautori del sì. La cosa più semplice sarebbe eliminare completamente il quorum. Ma in questo caso il rischio è che pochi, anche pochissimi voti, decidano l’esito.
L’assenza di quorum tende a favorire le minoranze intense, cioè quei gruppi e quelle lobbies per cui la questione sottoposta a referendum rappresenta un interesse forte. Sono loro che si mobiliterebbero di più e tenderebbero a prevalere su maggioranze apatiche.
Una soluzione più equilibrata del problema è stata inserita nella riforma costituzionale approvata definitivamente martedì alla Camera. La nuova formulazione dell’articolo della Costituzione prevede due percorsi referendari.
Il primo è lo stesso con cui si voterà domenica sulle trivelle: 500.000 firme per chiedere il referendum e quorum del 50% più uno per la sua validità. Il secondo è la novità. Infatti se le firme raccolte saranno 800.000 il quorum diventa la metà più uno degli elettori che si sono recati alle urne in occasione delle ultime elezioni politiche.
Se questo meccanismo fosse in vigore oggi basterebbero 17.635.464 di votanti, e non 23.452.57, per assicurare la validità dell’esito. In termini percentuali si passerebbe dal 50% al 37,6%.
Sarà interessante vedere se domenica i votanti arriveranno a quella soglia. Una percentuale simile resta comunque una asticella elevata di questi tempi e su questi temi. Domenica scorsa nei Paesi Bassi su un referendum che chiamava in causa la politica di allargamento della Unione europea - tema quanto mai sensibile in questo clima di accentuato euroscettiscimo - è andato a votare solo il 32% degli elettori.
Ma non è questo il punto. Quello che interessa qui è che il nuovo meccanismo referendario renderà molto più rischiosa per i fautori del no la strategia dell’astensionismo strategico. Sono le riforme e non gli appelli che cambiano i comportamenti. 


Le parole di Napolitano sono un sostegno a Palazzo Chigi
Sulle trivelle si gioca in anticipo la grande partita d’autunno
Il referendum sulla riforma del Senato costituirà per Renzi il match della vita
Ma il premier sbaglia a trasformarlo in un plebiscito su se stesso

di Stefano Folli Repubblica 15.4.16
NESSUNA figura della vita politica accende passioni e polemiche come Giorgio Napolitano. Segno che l’ex capo dello Stato continua a occupare uno spazio centrale in un dibattito pubblico spesso carente di argomenti e di protagonisti. Nell’intervista a “Repubblica” ha fatto scalpore la difesa dell’astensione nel referendum di domenica sulle trivelle. In realtà non c’è molto di cui stupirsi. Chi polemizza lo fa con un intento ben preciso: scaldare la platea degli elettori e spingerli al voto, visto che al momento solo gli ottimisti prevedono che il quorum del 50 per cento sarà raggiunto.
Napolitano è ovviamente libero di esprimersi in favore dell’astensione, un’opzione prevista dai costituenti nel momento in cui stabilirono una soglia minima per rendere valido il referendum. Quindi il “dovere” civico di votare, cui lo stesso Napolitano richiamava dal Quirinale gli italiani, riguarda semmai le consultazioni politiche e tocca il tasto delicato della partecipazione. Sul referendum ogni cittadino è libero di fare la sua scelta o anche di non farne nessuna, se ritiene il quesito troppo astruso ovvero tale da non potersi ridurre a un “sì” o a un “no”. Oppure semplicemente perché giudica che il fallimento del quorum sia il modo più spiccio per archiviare la questione di merito.
In ogni caso, un ex presidente della Repubblica dispone di una libertà di iniziativa ben superiore a quella delle autorità istituzionali in carica. Sarebbe strano, ad esempio, se Mattarella, Grasso e Laura Boldrini restassero tutti e tre a casa domenica prossima. Il messaggio agli italiani risulterebbe quanto meno ambiguo. E infatti il vertice delle istituzioni andrà a votare anche per rispetto dell’istituto referendario. Lo stesso, come sappiamo, farà il neo presidente della Corte Costituzionale. Al contrario, la campagna pro-astensione del premier Renzi, cui le parole di Napolitano hanno offerto un valido sostegno, ha sollevato un vespaio sia per i toni usati (“una bufala”) sia per il ruolo da lui ricoperto alla guida dell’esecutivo, ruolo che è insieme politico e istituzionale.
RENZI non si limita a restare a casa, ma svolge attiva campagna mediatica a favore dell’astensione. Il che sembra a qualcuno un po’ eccessivo, e quindi inopportuno, per ragioni politiche prima ancora che istituzionali. Il presidente del Consiglio è anche il segretario del Pd. E in quel partito, sia a Roma sia nelle regioni, si annidano numerosi sostenitori della tesi “No triv”. Anzi, ci sono alcuni fra gli stessi promotori del referendum, quasi tutti avversari di Renzi. È chiaro che sotto tale profilo un’accanita campagna volta a incoraggiare il non-raggiungimento del quorum diventa una battaglia contro coloro che usano il referendum come arma impropria contro Palazzo Chigi. Aiutare Renzi nel referendum, significa sostenerlo rispetto ai suoi nemici interni. E di questo Napolitano è ben consapevole.
Il premier sa che la vittoria, se così vogliamo chiamarla, è dietro l’angolo: sempre che domenica i partecipanti al voto rimangano al di sotto del 50 per cento. Il che significa che egli potrà menar vanto di un’affermazione a buon mercato. La leggerà come un anticipo del grande scontro d’autunno, il referendum sulla riforma del Senato. In realtà non c’è parentela fra i due passaggi, salvo che su un punto: in entrambi sono in gioco la credibilità e il peso del presidente del Consiglio. Domenica è una partita in apparenza facile, in autunno sarà il “match” della vita.
Ecco perché, volendo citare ancora una volta il presidente emerito, Renzi è invitato a non personalizzare il referendum costituzionale e a sfuggire alla tentazione di trasformarlo in un plebiscito su se stesso. Ci sono troppi rischi in un’operazione siffatta. Il giovane politico di Rignano non è ovviamente De Gaulle, ma anche il generale, che amava ricorrere ai plebisciti, alla fine soccombette avendo presunto troppo. Non si era accorto che i tempi erano cambiati e che i francesi non lo amavano più. 


Quel dovere nella Carta

di Michele Ainis Corriere 115.5.16
E tu, ci andrai a votare? In ogni referendum la domanda che martella gli italiani è sempre questa: non più come votare, bensì piuttosto se votare, se aggiungersi al popolo del quorum.Succederà pure domenica, nella consultazione sulle trivelle in mare; e alla chiusura dei seggi conosceremo immediatamente il risultato, perché ormai conta l’affluenza, non già la preferenza.Diciamolo: è una deriva ingannevole, sleale.
Approfitta della quota d’astensionismo fisiologico per sabotare il referendum, sommando agli indifferenti i contrari, mentre i favorevoli non hanno modo di moltiplicare il «sì», mica possono votare per due volte. Dunque l’appello all’astensione è un espediente, se non proprio un trucco, come affermò Norberto Bobbio nel 1990.
Un tempo, durante la gioventù della Repubblica, la sfida si giocava in campo aperto. Nel primo referendum della nostra storia – quello sul divorzio, nel 1974 — le truppe di Fanfani e di Pannella si contarono alle urne, non davanti alla tv; e infatti andò a votare l’87,7% degli elettori. Percentuali intorno all’80% segnarono altre consultazioni degli anni Settanta e Ottanta: il finanziamento ai partiti, l’aborto, l’ergastolo, la scala mobile. E in molteplici occasioni i referendum vennero respinti con un voto — libero, esplicito, diretto.
Dopo di che s’ingrossa la slavina. Tutti i partiti, nessuno escluso, hanno invitato gli elettori a disertare le cabine elettorali, in questa o in quell’altra occasione. Talvolta l’ha fatto anche la Chiesa: celebre l’appello del cardinal Ruini, al referendum del 2005 sulla fecondazione assistita. Non meno celebre l’«andate al mare» di Craxi, al referendum del 1991 sulla preferenza unica. Nel primo caso l’appello fu raccolto, nel secondo no. Ma al di là dei suoi esiti alterni, questa strategia un risultato complessivo l’ha prodotto, depotenziando il referendum. Tanto che la riforma costituzionale corregge al ribasso il quorum (se il referendum è sostenuto da 800 mila firme), anche per ostacolare la reiterazione del giochino astensionista.
Ecco perché si rivelano fallaci le critiche al presidente della Consulta, Paolo Grossi. Ha detto: il voto è un dovere, esprime la pienezza della cittadinanza. E che altro avrebbe dovuto dire? Che il referendum è uno spreco di tempo, che l’elettore virtuoso coincide con il non elettore, che le sole urne democratiche sono le urne cinerarie? I guardiani della Costituzione non possono ignorare le sue norme più pregnanti: il voto è un «dovere civico», recita l’articolo 48. E nei doveri costituzionali risuona il timbro etico della nostra Carta, vi si riflette la lezione di Mazzini. Difatti il presidente Mattarella ha già fatto sapere che lui, sì, andrà a votare.
Poi, certo, il voto è anche un diritto. E ciascuno resta libero d’esercitare o meno i diritti che ha ricevuto in sorte. Tanto più quando s’annunzia un referendum, la cui validità è legata al quorum. Ma questo vale per i cittadini, non per quanti abbiano responsabilità istituzionali. Loro sono come i professori durante una lezione: non possono dire tutto ciò che gli passa per la testa, perché hanno un ascendente sugli allievi, e non devono mai usarlo per condizionarne le opinioni. Come scrisse Max Weber, la cattedra non è per i demagoghi, né per i profeti. Anche perché i profeti dell’astensionismo, nel nostro ordinamento, rischiano perfino la galera, secondo l’articolo 98 del testo unico delle leggi elettorali per la Camera, cui rinvia la legge che disciplina i referendum. Norme eccessive, di cui faremmo meglio a sbarazzarci. Ma c’è anche un equivoco da cui dobbiamo liberarci: sul piano dell’etica costituzionale, se non anche sul piano del diritto, l’astensione ai referendum è lecita soltanto quando l’elettore giudichi il quesito inconsistente, irrilevante. Altrimenti è un sotterfugio. 


Napolitano senza quorum
17 aprile. L’ex capo dello stato dà man forte a Renzi difendendo l’astensione. Il quesito sui cui si voterà domenica, dice, è pretestuoso e infondato. Sconfessando così la Consulta e il suo presidente. Il premier entusiasta dell’assist: «Magistrale. Il referendum voluto dai consigli regionali è una bufala»

di Andrea Colombo il manifesto 15.4.16
La contromossa di Matteo Renzi è scattata ieri, con la piena complicità, impossibile dire se e quanto coordinata, di Giorgio Napolitano. Che solo il premier tra tutte le cariche istituzionali inviti all’astensione pare brutto? Niente paura, tanto in Italia c’è il presidente, ma anche il presidentissimo che nel suo stesso cuore non è mai uscito dal Quirinale. E se Mattarella, il capo dello Stato formalmente in carica, predilige i toni soffici, il collega adopera il martello.
L’astensione è sacrosanta, essendo «un modo di esprimere la convinzione dell’inconsistenza e della pretestuosità di questi referendum», risponde Napolitano intervistato da Repubblica. Non pago, l’ex presidente che dichiarò da solo la sciagurata guerra libica e che era abituato a forzare quanto più possibile i limiti del ruolo assegnato dal capo dello Stato, rincara di brutta: «Ci si pronuncia su quesiti specifici che dovrebbero essere ben fondati. Non è questo il caso».
E’ lo stesso Napolitano che nel 2011, ai tempi del referendum sull’acqua, dichiarava: «Io sono un elettore che fa sempre il suo dovere», quello che esaltava «la valorizzazione dello strumento referendario come elemento di democrazia diretta»? Sì è proprio lui, ma si sa che solo i cretini non cambiano opinione col tempo e con la convenienza politica.
Con un tempismo perfetto e che è molto difficile immaginare casuale, Renzi impugna il pronunciamento di Napolitano e lo rilancia, amplificandolo quanto più gli riesce: «Come ha magistralmente spiegato Giorgio Napolitano se un referendum prevede un quorum la posizione di chi si astiene è costituzionalmente legittima al pari delle altre, ha la stessa identica dignità. Il referendum voluto dai consigli regionali e non dai cittadini è una bufala». E’ l’opposto di quanto affermato dal presidente della Consulta, ma con Napolitano alle spalle Renzi può permettersi di smentire sia la Corte che i presidenti delle Camere, contrari all’astensione.
Quelle di Giorgio Napolitano sono parole in realtà pesantissime. Perché l’ex presidente della Repubblica revoca in dubbio l’ammissione del quesito da parte della Corte Costituzionale e si scaglia di fatto contro il presidente della stessa Paolo Grossi, che aveva invece detto che votare nel referendum «fa parte della carta d’identità del buon cittadino». Ma anche perché, con le sue parole, Napolitano mette in oggettiva difficoltà l’attuale inquilino del Colle.
Sergio Mattarella ha già deciso di andare a votare, ma ha fatto in modo di dare alla sua scelta il minor clamore possibile proprio per non creare ulteriori problemi al giovanotto di palazzo Chigi che, con la sua gratuita sovraesposizione, si è messo da solo in una situazione difficile. Ora però, dopo il fragoroso affondo di Napolitano, Mattarella rischia di passare per una specie di presidente-fantoccio. Tuttavia resta deciso a non prendere una posizione aperta, al solito per non mettere nei guai lo scavezzacollo che guida il governo.
Il soccorso di Napolitano è certamente prezioso perché aiuta Renzi a tirarsi fuori dal vicolo cieco istituzionale in cui si era cacciato. Anche se formalmente a parlare è solo un senatore a vita, la benedizione di un ex presidente, oltretutto abituato a considerarsi assai vicino a un monarca, legittima la sua inaudita scelta di capeggiare il partito dell’astensione. E’ però dubbio che l’appello del presidente emerito si riveli fruttuoso anche sul fronte del consenso. Napolitano non gode più della popolarità che lo ha circondato per alcuni anni e la sensazione che abbia oltrepassato di molto i limiti del suo mandato è diffusa. La sua discesa in campo potrebbe rivelarsi persino controproducente.
Movimento 5 Stelle, Forza Italia, Lega e Storace attaccano senza perifrasi il tandem astensionista, che per Renato Brunetta è «spudoratamente fuori dalla Costituzione» mentre il vicepresidente della camera Luigi Di Maio rivendica: «Su Napolitano ci avevamo visto giusto». Ma anche chi si mantiene più prudente, come Roberto Speranza per la minoranza Pd e Sel, bersaglia Renzi prendendo in realtà di mira anche il suo autorevole guardiaspalle.
La sfida, comunque, non sarà solo sul filo del quorum. Il Pd spera in un’affluenza inferiore al 30%. Sarebbe un trionfo e il miglior viatico per il referendum di ottobre, il quale, non c’è neppure bisogno di dirlo, ha già incassato il sostegno totale del solito Giorgio. Le voci fatte filtrare dal Nazareno, anzi, giurano che Renzi aveva sì chiesto una mano all’ex capo dello Stato, ma con l’obiettivo di farlo presidente onorario dei comitati per il referendum sulla Costituzione, idea giudicata dall’interessato «inopportuna», non con quello di spingerlo all’intervista a spada tratta di ieri. In compenso una percentuale di votanti intorno al 40% sarebbe vissuta al Nazareno come una Caporetto. Il quorum superato, invece, sarebbe Waterloo.

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