domenica 24 aprile 2016

"Il capo e la folla" di Emilio Gentile: le radici novecentesche del bonapartismo postmoderno

Politica Emilio Gentile e le insidie dell’uomo forte
La democrazia recitativa nasce dalla crisi dello Stato

di Marco Gervasoni Corriere La Lettura 29.5.16
 Mai come in questi ultimi tempi si è diffusa la trita metafora dell’«uomo solo al comando». E la convinzione che le democrazie, per essere tali, non debbano avere un capo o debbano averlo il più fragile possibile. Ma la filosofia politica, le scienze sociali e last but not least l’esperienza storica ci dicono che è vero esattamente il contrario: più una società è democratica e più ha bisogno di capi forti (o di leader, se si preferisce).
L’Italia liberale e la Repubblica di Weimar sono crollate di fronte ai totalitarismi perché non avevano capi in grado di far fronte ai processi di democratizzazione. Benché non convinti che Emilio Gentile sia totalmente d’accordo con la nostra conclusione, questa ci è sorta spontanea dopo la lettura del suo bel libro Il capo e la folla (Laterza). L’autore, uno dei massimi storici contemporanei, e non solo italiani, si assume qui una sfida temibile e avvincente, risalire fino all’antica Grecia per studiare il rapporto tra capo e folla. In particolare Aristotele si può dire avesse già capito tutto: il demos può condurre uno Stato solo se opportunamente selezionato e guidato, altrimenti si cade nella tirannide; e ad aprire le porte della polis al despota è proprio la folla, cioè il demos bruto, una questione che intriga la filosofia politica dell’età moderna, da Bodin a Machiavelli a Hobbes.
Se gli attori della rivoluzione americana temono la folla e plasmano un sistema che ne impedisca il sopravvento, in Europa i rivoluzionari parigini le folle invece le utilizzano, ora contro il cosiddetto ancien régime ora nelle lotte politiche interne, finendo, come mostrò a suo tempo Furet, per esserne schiacciati. C’è qui, nelle pagine dedicate da Gentile al XIX secolo, un continuo ricorso a Tocqueville, il più lucido analista delle derive dispotiche della democrazia rivoluzionaria e il teorico delle due democrazie, quelle americana che salva la libertà e quella europea che invece la distrugge.
Le pagine di Tocqueville non sono solo profetiche riguardo all’avvento del bonapartismo di Napoleone III, ma pure sull’evoluzione della democrazia del XX secolo. Qui il testimone passa a Gustave Le Bon, uno scienziato sociale oggi ingiustamente dimenticato che, osserva Gentile, coglie un elemento fondamentale: la folla desidera essere domata, è come un fiume in piena finché non trova la sua diga nel capo. Questi però deve disporsi di fronte alla folla come un attore e indossare una maschera. Siamo a quella che Gentile chiama «democrazia recitativa» incarnatasi soprattutto in Charles de Gaulle e in John Fitzgerald Kennedy.
Le previsioni di Gentile sul futuro sono pessimistiche: la democrazia recitativa si è ormai imposta ovunque e, con la sua «personalizzazione», la partecipazione dei cittadini sta diventando un’illusione. Se è così, tuttavia, occorre capire perché i fondamenti della democrazia partecipativa, il parlamento e i partiti, perdano potere e legittimità. Probabilmente perché non sanno rispondere alle spinte di quest’ultima fase della modernizzazione. E perché si fondono, l’uno e gli altri, sullo Stato nazione che, se non è in via di sparizione come molti credono, è un’entità sempre meno visibile: Stato-nazione di cui — è lezione di questi giorni — proprio il demos sembra volere il ritorno.


Il ruolo delle masse e dei loro leadersul palco della democrazia recitativa 
Nel saggioIl capo e la follalo storico Emilio Gentile analizza 2500 anni di politicaNapoleone fu il primo esempio moderno di governo personale e uso della propaganda 

Mario Toscano Busiarda 14 6 2016
Nel 1992, il politologo americano Francis Fukuyama reputava ormai definitivo il successo della democrazia occidentale. Ventiquattro anni dopo, autorevoli osservatori ritengono che questo risultato sia tutt’altro che consolidato e definitivo. Le profonde trasformazioni verificatesi nell’assetto dell’economia e della società, nell’organizzazione del potere e dei sistemi politici, nelle relazioni tra popoli e paesi sembrano indicare che la democrazia stia vivendo una fase di crisi, caratterizzata dal distacco tra una casta privilegiata di governanti e le masse, dall’apatia dei cittadini, dalla crescente diseguaglianza economica, dalla crisi dello Stato nazionale, dalla forza dei gruppi di pressione. Conseguenza di questi processi è la personalizzazione del potere, la diffusione di una «democrazia recitativa», nella quale rischia di diventare finzione la partecipazione delle masse. 
Le rivoluzioni del ’700
Emilio Gentile, contemporaneista di fama internazionale, nel saggio Il capo e la folla (Laterza) tratteggia con lucidità i passaggi storici del rapporto tra governanti e governati e delle mutevoli accezioni della democrazia nell’arco di 2500 anni. Larga parte dell’analisi è dedicata agli snodi centrali della storia contemporanea. Furono le grandi rivoluzioni del XVIII secolo a inaugurare una fase nuova: la politica «diventava, per la prima volta nella storia, consapevole azione di capi e di folle che si proponevano di rigenerare la società e lo Stato», nascevano nuovi criteri di legittimazione del potere e una nuova idea di cittadinanza, ma nascevano anche nuovi modelli di capi. 
È all’avvento di Napoleone che Gentile fa risalire le origini della democrazia recitativa nell’era delle masse, caratterizzata dal governo personale, dalla sottrazione del diritto di revoca dei governanti da parte dei governati e da un uso sapiente della propaganda. L’Ottocento offrì contributi teorici di rilievo sul tema e rappresentò un campo di sperimentazione di nuove forme del rapporto tra i capi e le masse, con la nascita di nuove tipologie di governo autoritario e la critica rivoluzionaria ai regimi conservatori e alla società borghese. 
Demagoghi e oligarchi
Dalla fine del secolo, mentre il sistema parlamentare si diffondeva in Europa, il sorgere della società di massa favoriva la comparsa di nuove forme di partecipazione politica, ma osservatori attenti denunciavano i rischi insiti in queste stesse trasformazioni: la permeabilità delle folle alle suggestioni dei demagoghi, i rischi della degenerazione oligarchica dei partiti, le ambiguità insite nell’avvento di capi carismatici.
Tra le due guerre mondiali, la crisi profonda attraversata dalla democrazia in Europa sembrava rivelarne la fragilità e l’incapacità di fornire risposte adeguate alle domande delle masse, abbacinate dall’efficienza e dalle sicurezze (apparenti) elargite dai regimi totalitari. In questo quadro, Gentile sottolinea l’importanza di Roosevelt nel restituire dinamismo alla democrazia, con un accrescimento del ruolo presidenziale, con un uso accorto dei media e nuove forme di coinvolgimento delle masse, e quella di Churchill, un «democratico eccentrico», nella difesa della democrazia contro il totalitarismo nazista e nella denuncia di quello sovietico. Conclude la sua disamina analizzando la parte avuta da De Gaulle e Kennedy nelle trasformazioni della democrazia rappresentativa nel periodo postbellico, sempre legate al difficile equilibrio tra i poteri del leader e il ruolo della massa, avvicinata attraverso il contatto diretto e l’uso dei media (in questo caso della televisione). 
L’irrompere delle tecniche pubblicitarie nel mercato politico, il tramonto dei partiti, le nuove forme della cultura di massa riducono gli spazi della partecipazione democratica e favoriscono la personalizzazione del potere. Lo storico non fa previsioni, ma è consapevole delle implicazioni etiche e civili della sua attività: per Gentile la democrazia recitativa è un’«auto in folle su una giostra», una pessima risposta ai problemi aperti dal contraddittorio dinamismo della realtà contemporanea nella realizzazione del «governo del popolo, dal popolo, per il popolo», secondo la definizione che ne diede Lincoln nel 1863. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Fratelli d’Italia divisi su tutto 
Vittorio Emanuele II, Cavour, Mazzini e Garibaldi; le differenti concezioni sul ruolo del capo e delle masse negli artefici del Risorgimento 
Emilio Gentile  Busiarda 4 12 2016
Per oltre un decennio, dal 1848 al 1861, Torino fu l’epicentro di un sommovimento politico e militare, ispirato ai nuovi ideali della nazione e della libertà, che riuscì a realizzare, dopo tredici secoli dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente, l’unificazione della penisola in uno Stato indipendente. Quattro furono i protagonisti principali: Mazzini, Garibaldi, Vittorio Emanuele II, Cavour. Concordi nella meta dell’indipendenza e dell’unità, fra loro i quattro furono antagonisti, per motivi politici e umani. 
Vittorio Emanuele e il suo ministro Cavour operarono per l’unificazione detestandosi reciprocamente e con scontri molto animosi, mentre condivisero l’odio per Mazzini, che li ricambiò con eguale sentimento. Garibaldi, in un primo tempo seguace di Mazzini, se ne distaccò, accantonando l’ideale repubblicano, per collaborare con Vittorio Emanuele, al quale portò in dono il regno di Napoli, mentre ebbe forte avversione per Cavour, mai perdonandogli la cessione di Nizza, sua patria natale, alla Francia. A loro volta, il re e il suo primo ministro mostrarono nei confronti del Duce dei Mille stima e rispetto, ma accompagnati da sospettosa diffidenza.
Al di là del loro antagonismo, i quattro artefici del Risorgimento incarnarono, secondo le loro personalità fortemente diverse per origine, carattere, formazione e convinzioni, differenti concezioni del ruolo del capo e delle masse nella lotta per l’unificazione italiana. 
L’era delle folle
Vittorio Emanuele, re per grazia di Dio, fece propria la bandiera dell’unità e della libertà, ma conservò tratti assolutistici nel modo di concepire il ruolo di sovrano, al di sopra del popolo e del parlamento. All’opposto, Mazzini e Garibaldi furono capi che si appellarono al popolo, e volevano incitare le masse alla lotta per conquistare con le proprie forze l’indipendenza, l’unità e la libertà. L’apostolato messianico dell’austero repubblicano genovese e l’azione militare del fascinoso Eroe dei due mondi furono decisivi per mobilitare folle patriottiche in ogni regione d’Italia. 
Entrambi diffidavano del regime parlamentare a suffragio ristretto, preferendogli un governo a suffragio universale e, se necessaria, una dittatura esercitata in nome del popolo. Come effettivamente la impose Garibaldi, alla guida di una entusiasta folla di camicie rosse, in Sicilia e a Napoli, durante la conquista del regno borbonico, prima di consegnarlo al re di Sardegna, che dal parlamento di Torino, il 17 marzo 1861, fu proclamato re d’Italia «per grazia di Dio e volontà della nazione». La monarchia per diritto divino, fu detto in quella occasione, era stata «rinnovellata dal suffragio universale» attraverso i plebisciti, che sanzionarono l’unificazione della penisola sotto la dinastia piemontese.
Invece Cavour, pur proponendosi di emancipare le masse con la dignità della coscienza nazionale e il governo liberale, fu ostile a moti popolari rivoluzionari, non arringò mai le folle né aspirò, sebbene prepotente di carattere, a un potere dittatoriale senza il parlamento: come deputato e soprattutto come primo ministro, il conte concepì e svolse con efficacia esemplare il ruolo di moderno leader parlamentare in una monarchia liberale; mentre, con machiavellica abilità diplomatica, creò le condizioni per porre il Piemonte alla guida del movimento nazionale fino al compimento dell’unità. 
Grazie all’azione di questi capi, il Risorgimento fu uno degli eventi più importanti nel conflitto epocale tra la sovranità monarchica per diritto divino e la sovranità popolare per diritto umano, che fu iniziato dalla Rivoluzione americana e dalla Rivoluzione francese. Per la prima volta in tutta la storia umana, capi e folle agirono mossi dalla volontà di prendere nelle proprie mani il proprio destino, abbattendo la plurimillenaria sovranità per diritto divino. 
Era iniziata l’era delle folle, come la definì nel 1895 il francese Gustave Le Bon, una singolare figura di scienziato dal multiforme ingegno, oscillante fra genialità e banalità nel porre le basi fondamentali di una psicologia dei capi e delle folle, con opere tradotte in molte lingue, che nei primi decenni del ’900 lo resero noto nel mondo.
Il leader parlamentare
Le Bon citò Garibaldi come esempio nella classe dei capi energici, «adatti soprattutto per organizzare colpi di mano, per trascinare le masse attraverso i pericoli, per trasformare in eroi le reclute della vigilia. […] Tale, ancora ai giorni nostri, Garibaldi, avventuriero senza talento ma energico, capace di impossessarsi, con un pugno di uomini, dell’antico regno di Napoli difeso da un esercito disciplinato». Mentre citava Cavour come esempio del ruolo decisivo del «grande uomo» nel successo di un movimento storico: «Senza dubbio l’unità italiana sarebbe stata realizzata, presto o tardi, ma senza l’intervento di un uomo di Stato dal genio possente, essa sarebbe stata compiuta con molto ritardo». 

Se avesse meglio conosciuto la vita politica di Cavour, Le Bon avrebbe potuto avvalersi dell’esperienza dello statista piemontese per svolgere più approfondite riflessioni sulla figura del capo parlamentare, come antitesi dei capi demagoghi, che si avvalgono del consenso delle folle per instaurare un dominio personale. In Cavour, il sociologo francese avrebbe riscontrato la coesistenza, nella stessa persona, di un forte capo di assemblee parlamentari con una fede genuina nella civiltà liberale. Anche se Le Bon, a differenza di Cavour, non era un entusiasta del governo parlamentare, tuttavia, al pari dello statista piemontese, reputava che nell’era delle folle, «le assemblee parlamentari rappresentano lo strumento migliore che i popoli abbiano sinora trovato per governarsi e, soprattutto, per sottrarsi il più possibile al gioco delle tirannie personali».

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