martedì 26 aprile 2016

La Chiesa e la modernità: Franco Cardini contro Sant'Ambrogio

Contro AmbrogioFranco Cardini: Contro Ambrogio, Salerno

Risvolto
  Ambrogio è, con Gerolamo e Agostino, il fondatore della Chiesa latina emersa, dopo Costantino, dal buio e dal sangue dell’era delle persecuzioni, assurta poi, con Teodosio al rango di unica religione ammessa nell’Impero. Arrivato a Milano con un prestigioso incarico di governo – secondo la tradizione, elevato a furor di popolo alla cattedra episcopale – trasferí nella sua funzione di vescovo il santo orgoglio che gli derivava dall’appartenere alla piú alta nobiltà dell’Urbe e impiantò con forza sul tronco dell’Impero, al posto della pax deorum che lo avrebbe eternamente protetto, la croce del Cristo. Fu inflessibile nel combattere eretici, ebrei e pagani; impose che l’ara della vittoria fosse tolta dall’aula senatoria; umiliò perfino il grande Teodosio ricordandogli che anche l’imperatore era membro della Chiesa ma non aveva il diritto né di guidarla, né di controllarla. Senza il fondamento del suo pensiero, forse, mai si sarebbe sviluppata una teoria egemonica del papato sulla Chiesa. Leggendo di lui, a volte ci si domanda dove fosse quella carità sulla quale peraltro ha saputo scrivere pagine bellissime. La sua grandezza fu davvero sublime e tormentosa.


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Un saggio di Franco Cardini, edito da Salerno, mette in discussione l’eredità del grande santo vissuto nel IV secolo. «Forse senza di lui non avremmo avuto l’Inquisizione né un conflitto così aspro tra il mondo cattolico e la modernità»

Corriere della Sera 26 Apr 2016 di Paolo Mieli
Nel IV secolo il mondo cristiano fu sconvolto dall’eresia ariana. Ario, teologo nordafricano, sosteneva che Cristo, essendo stato «generato» da Dio unico, eterno e indivisibile, era «venuto dopo» e non poteva essere considerato allo stesso modo del Padre: c’era stato, cioè, «un tempo in cui il Figlio non c’era». Ai tempi di Costantino, che aveva spalancato le porte dell’impero ai seguaci di Cristo, si tenne il Concilio di Nicea (325) che condannò la dottrina ariana. Ma qualche tempo dopo l’imperatore riabilitò Ario e costrinse all’esilio il suo grande nemico, Atanasio vescovo di Alessandria. Dopodiché i decenni successivi furono contrassegnati da una lunga controversia tra ariani e atanasiani e la Chiesa di Roma faticò non poco per venire a capo della dottrina eretica che nel frattempo aveva conquistato vescovi e sovrani. Un grande protagonista di questa battaglia fu Ambrogio, che pure sulle prime aveva avuto qualche indulgenza (o qualcosa di più) nei confronti dell’arianesimo. È questo il punto di partenza di un originale libro di Franco Cardini Contro Ambrogio, che sta per essere dato alle stampe dalla Salerno.
Fin dalle prime righe, Cardini mette le mani avanti per difendersi dalle accuse che potrebbe ricevere per questo saggio impertinente. Il suo non vuol essere né un pamphlet «provocatorio», né «un’indecorosa dissacrazione», tantomeno «un dissennato attacco a livello storico o peggio ancora teologico» all’indirizzo dell’uomo che, tra l’altro, fu ispiratore e modello per sant’Agostino. Non vogliono essere, i suoi, «giudizi moralistici del tutto antistorici», né «paradossali esercitazioni ucroniche» e neppure «fatue e faziose polemiche» con il senno del poi. È, quello di Contro Ambrogio, solo un tentativo di «uscire dal comodo riparo dello storico» a favore di una modalità che gli consenta di «scoprirsi», «esporsi», «prendere posizione». Il tutto non disgiunto da un «pizzico di autoironia per aver tentato, al cospetto di un gigante della storia e del pensiero, una specie di ruggito del topo».Tra l’altro che ci siano aspetti controversi nella vita di Ambrogio traspariva già, tra le righe, dalle impeccabili note di Marco Navoni alla Vita di sant’Ambrogio (edizioni San Paolo) scritta da Paolino, coevo e principale collaboratore del patrono di Milano. Così come, sempre tra le righe, dalle biografie di Cesare Pasini, Ambrogio di Milano. Azione e pensiero di un vescovo (edizioni San Paolo) e di Angelo Paredi, S. Ambrogio e la sua età (Jaca Book). E anche, sia pur marginalmente, dallo straordinario Teodosio il Grande (Salerno) di Hartmut Leppin.
Il libro di Cardini prende le mosse dal 374 allorché, avendo esercitato fin lì il ruolo di governatore laico di una regione che all’epoca corrispondeva alla Liguria e all’Emilia e pur non essendo ancora battezzato, il trentacinquenne Aurelio Ambrogio (era nato nel 339 a Treviri, città che dal 292 era la residenza ufficiale dell’imperatore romano d’Occidente) fu nominato vescovo di Milano, dal 286 «sede imperiale». Era figlio di un alto magistrato del sovrano Costantino II, ma su suo padre c’è un «ambiguo silenzio» che ci indurrebbe a sospettare fosse stato coinvolto in una delle controversie dell’epoca e avesse «militato dalla parte degli sconfitti». A «portarlo così in alto» era stato il prefetto Sesto Petronio Probo, un uomo molto chiacchierato con evidenti inclinazioni all’arianesimo, così come l’imperatrice Giustina (moglie di Valentiniano I e madre di Valentiniano II) protettrice di Probo. Ariano fu anche il suo predecessore alla cattedra episcopale milanese, Aussenzio.
A decidere della sua elevazione a quell’importantissimo incarico sarebbe stato il grido di un bambino, che in una riunione popolare avrebbe invocato «Ambrogio vescovo!», suscitando un immediato entusiasmo popolare in quella che Cardini definisce una evidente «messinscena», un «ben architettato episodio di organizzazione del consenso», un genere di «spontaneità popolare accuratamente pilotata». Dietro la quale è ancora ben riconoscibile la regia di Probo. In ogni caso, a seguito di quell’acclamazione, Ambrogio si fece battezzare, divenne vescovo (con qualche irregolarità formale) e non tardò a liberarsi dell’ingombrante appoggio del suo potente protettore.
Da quel momento comparve al suo fianco il presbitero Simpliciano, fedele di Atanasio, che gli fu accanto tutta la vita e, nonostante avesse venti anni più di lui, gli sopravvisse. Per un breve periodo ci fu anche suo fratello Satiro, che Cardini sospetta nutrisse simpatie ariane. Quanto a lui, nel 376, in contrasto con l’imperatrice Giustina, si oppose all’elezione a Sirmio di un vescovo seguace di Ario e dal 378 iniziarono a comparire spunti anti-ariani nelle sue omelie. Giusto in tempo per essere in sintonia con l’editto di Tessalonica (380), con il quale l’imperatore d’Oriente, Teodosio, impose «a tutti i popoli a noi soggetti» la disciplina apostolica e la dottrina evangelica del credo «nell’unica divinità» di Padre, Figlio e Spirito Santo. Sicché Teodosio, secondo Franco Cardini, «ben più adeguatamente di Costantino, può essere considerato il vero fondatore dell’impero romano-cristiano».
Comunque la partita religiosa si riaprì nel 386, quando Giustina impose un decreto per la libertà di culto che consentiva agli ariani di pretendere una basilica in cui poter celebrare il rito. Ambrogio si oppose con forza e una folla («spontaneamente convocata», ironizza Cardini) scese in piazza a spalleggiare il vescovo, creando «una situazione al limite della legalità». La «contesa delle basiliche» andò avanti per settimane, incrinò il rapporto di Giustina con il proprio figlio Valentiniano, si concluse con il trionfo di Ambrogio e la sconfitta della libertà di professare religioni diverse da quella stabilita al Concilio di Nicea.
Il vescovo di Milano, una volta piegata la corona d’Occidente, si dedicò a sottomettere quella d’Oriente. Vale a dire Teodosio. Una prima volta, nel corso di una cerimonia religiosa, il vescovo invitò l’imperatore a lasciare il presbiterio e ad andarsi a sedere, sia pure in prima fila, tra i fedeli. Quasi esplicito il significato, sotto il profilo simbolico, di questo gesto. Ma l’occasione decisiva si presentò, dopo una serie di piccoli e grandi sgarbi da parte dell’autorità religiosa nei confronti di quella imperiale, con l’orrenda vicenda del tempio di Callinicum (l’odierna Raqqa). Lì un gruppo di cristiani aveva date alle fiamme una sinagoga, l’imperatore li aveva condannati a risarcire la comunità ebraica: Ambrogio impose a Teodosio di revocare quell’ingiunzione.
Poi, nel 390, ci fu la strage di Tessalonica. Un auriga dei giochi circensi era stato imprigionato per «comportamento immorale». I suoi tifosi avevano reagito aggredendo a sassate un funzionario imperiale, Buterico, che era stato ucciso e trascinato per le vie della città greca. Teodosio giudicò sospetta quell’esplosione di rabbia e accondiscese alla richiesta dei militari di reprimere con violenza (migliaia di morti) i rivoltosi. Ambrogio ne approfittò per umiliare una seconda volta Teodosio, chiedendogli un pubblico pentimento per l’eccidio. L’imperatore provò a resistere, ma poi decise di sottomettersi all’ingiunzione. Secondo la ricostruzione di Paolino, Teodosio «pianse pubblicamente nella Chiesa il suo peccato… con lamenti e lacrime invocò il perdono». Anche Agostino, nel De civitate Dei, ricorda la scena: Teodosio «fece penitenza con tale impegno» che tra i fedeli il «dolore nel vedere umiliata la maestà dell’imperatore» prevalse sullo sdegno per il ricordo della strage. Teodosio si accorse probabilmente di quel che era accaduto nel profondo e, per rimediare, si recò a Roma dove fu accolto da senatori e ottimati con feste che più o meno esplicitamente rendevano omaggio agli antichi culti pagani.
Tuttavia l’episodio dell’imperatore «penitente per imposizione di un vescovo», osserva l’autore, fece scalpore in tutta l’ecumene romana: era la prima volta che «l’Augusto, da principe aureolato di autorità sacrale qual era sempre stato, da vicario del Cristo in terra, era sceso al livello di un semplice fedele, pronto ad umiliarsi per ricevere il perdono». Ambrogio approfittò di quell’atto di sottomissione per riprendere e condurre a compimento «il progetto di delegittimazione totale e irreversibile dei ceti diversi da quello cristiano niceno in tutto l’impero». Fu lui ad ispirare l’editto del 391 che vietava qualunque forma di ossequio alle divinità «gentili» nella città di Roma e prevedeva pesanti sanzioni per i funzionari inadempienti. Era la «totale palinodia» rispetto al comportamento tenuto e alle misure adottate dall’imperatore un po’ meno di due anni Sant’Ambrogio impedisce a Teodosio di entrare nella cattedrale di Milano, un dipinto realizzato tra il 1619 e il 1620 dal grande artista fiammingo Antoon van Dyck (15991641). Il vescovo di Milano ottenne che il monarca si pentisse dopo la strage di Tessalonica compiuta nel 390 prima nel corso della menzionata visita a Roma. Da quel momento fino alla morte, nel 397, Ambrogio esercitò una sorta di «dittatura» sottile sul potere imperiale d’Oriente e d’Occidente. Anche a costo di lasciarsi andare ad imprudenze, di commettere errori, e di fare scelte in contraddizione con i suoi principi. Ma la sua missione era compiuta.
Il suo lascito fu inequivocabile. Dal momento che il sovrano era stato per lui non al di sopra, bensì all’interno della Chiesa, ne discendeva che risultava subordinato all’autorità ecclesiale. In tal senso, Ambrogio si pone alla base «di un lungo e complesso itinerario che in vario modo, attraverso l’agostinismo politico, la riforma della Chiesa dell’XI secolo e il monarchismo pontificio», ha configurato una ben delineata tradizione. Tradizione «che in ambito cattolico — una volta battute le eresie e isolati come eretici o comunque pericolosi molti movimenti “non conformisti” medievali — solo il conciliarismo quattrocentesco, in una certa misura il Vaticano II e, oggi, le scelte innovatrici di papa Francesco, hanno teso in qualche modo a limitare e a correggere».
Un messaggio venuto da lontano, radicato nella certezza che «il liberare e il mantener libero il clero dai controlli e dai condizionamenti di qualunque autorità terrena — ben al di là se non al contrario di quanto Gesù dichiara esplicitamente a Pilato — sarebbe stata condizione necessaria e sufficiente per salvarlo dalle tentazioni terrene». E sappiamo, aggiunge Cardini, che «l’intera storia della Chiesa dimostra l’opposto». Dopo Ambrogio, la Chiesa romana divenne potente «con la forza di una mirabile espansione intellettuale e missionaria, ma anche con l’inflessibilità e l’intransigenza della fedeltà a un disegno egemonico affermatosi poi tra l’XI e il XVI secolo attraverso la rimozione delle istanze provenienti dal mondo greco, da quello orientale, da quello vario, insidioso e imprevedibile delle eresie, da quello musulmano (pensiero filosofico-scientifico a parte), salvo dover poi subire i contraccolpi degli scismi, della Riforma protestante, dell’offensiva razionalistico-scientifica».
Traendo ispirazioni e suggestioni da Francesco d’Assisi, Nicola Cusano ed Erasmo da Rotterdam, Cardini si chiede se, «astraendo dal modello e dal magistero ambrosiani la Chiesa sarebbe mai giunta a dover concepire i tribunali inquisitoriali, ad affrontare scismi e riforme, a subire lo “strappo culturale” della “modernità” con il relativo processo di secolarizzazione». Dubbi e rilievi che, come è evidente, vanno ben al di là della figura storica di Ambrogio.

     Intrighi rovinosi, tra sangue e potere

STORIA MEDIOEVALE. L’ombra lunga di un imperatore e di un vescovo in tempo di crisi tra Occidente cristiano e Islam. Costantino e Ambrogio, figure cruciali del IV secolo, sono al centro di due distinti saggi firmati da Alessandro Barbero e Franco Cardini
Colosso di Costantino (Musei Capitolini)

Si potrebbe affermare che, sotto il profilo della storia religiosa dell’Europa e del Vicino Oriente, il IV secolo si sia aperto con Costantino e chiuso con Teodosio e il suo principale ispiratore: Ambrogio. Nel mezzo, l’ultimo accanito contrasto fra pagani e cristiani. Escono in contemporanea due lavori, molto diversi fra loro, che tracciano un profilo di Costantino (Alessandro Barbero, Costantino il Vincitore, Salerno Editore, pp. 852, euro 49) e di Ambrogio (Franco Cardini, Contro Ambrogio. Una sublime, tormentosa bellezza, pp. 136, euro 11); attraverso la lettura delle due opere si può avere un quadro decisamente più chiaro del cambiamento radicale nel quale incorsero l’impero e la società.
ANCHE SE L’APOLOGETICA cristiana ha aggiunto tinte più fosche del necessario alle persecuzioni anticristiane prima di Costantino, è indubbio che il problema dell’atteggiamento da tenere nei confronti dei seguaci di Cristo si era presentato precocemente, in particolare verso i cristiani che si rifiutavano di partecipare all’adoratio dell’imperatore. Dopo alcuni sporadici tentativi di repressione, tra la fine del II e gli inizi del III secolo l’atteggiamento delle autorità romane era stato sostanzialmente improntato alla tolleranza. Ma la difficile situazione attraversata da Roma e il rapido proselitismo dei cristiani attiravano il malcontento sulle comunità: divenne dunque necessario adottare provvedimenti di maggior peso.
Nel 250 si scatenò una persecuzione anticristiana ordinata dall’imperatore Decio. Cinque anni più tardi l’editto di Valeriano colpì i responsabili delle comunità locali dei fedeli, al fine di costringerli a partecipare ai riti del culto imperiale. Nel 260, per volontà dell’imperatore Gallieno, cessarono le persecuzioni e per i cristiani ebbe inizio un quarantennio di pace. Durante il regno di Diocleziano la pace venne tuttavia interrotta. Con l’emanazione del famoso editto persecutorio del 303, Diocleziano e Galerio ordinavano la distruzione delle chiese, il rogo delle Sacre Scritture e misure che colpissero chiunque, cristiano, avesse svolto mansioni pubbliche. Le persecuzioni – questa volta assai dure – continuarono anche dopo il ritiro di Diocleziano, sino al 311, quando l’imperatore Galerio emanò un editto di tolleranza.
La svolta fondamentale per la vita del cristianesimo nell’impero giunse però due anni più tardi, nel 313, con l’editto emanato a Milano da Licinio e da Costantino: anche se, come ci dice Barbero, la tradizione ha obliterato il ruolo preponderante del primo a favore del secondo. In esso si dava piena libertà di culto a tutte le fedi dell’impero: il che ovviamente ha conferito alla figura di Costantino una centralità assoluta nella memoria storica cristiana. E qui, ci dice Barbero, cominciano i problemi: perché della sua figura sembra di conoscere ormai tutto, alla luce di innumerevoli fonti, ma di fatto buona parte della storiografia, di quella antica come della contemporanea, ha costruito una immagine dell’imperatore selezionando le fonti, ignorando quelle che l’avrebbero smentita, talvolta commettendo errori che si sono poi radicati passando per informazioni.
BARBERO RIESAMINA tutta questa mole di notizie per restituire un Costantino aderente alla molteplicità delle fonti che ne hanno tramandato le azioni, incluse quelle messe in sordina dalla tradizione cristiana: «Costantino è un usurpatore che diventa unico imperatore romano sconfiggendo e uccidendo tre colleghi, di cui uno era suo suocero e gli altri due i suoi cognati: nessun altro al mondo è mai riuscito ad ammazzare cosí tanti imperatori romani. Eliminati tutti i rivali e divenuto unico padrone dell’impero, Costantino fa uccidere il figlio maggiore Crispo e la seconda moglie Fausta, anche se non sappiamo perché. Subito dopo la sua morte, i suoi figli uccideranno in un bagno di sangue quasi tutti i fratelli e i nipoti superstiti di Costantino, e poi si ammazzeranno fra loro, finché non ne rimarrà uno solo. Questa immagine shakespeariana, sanguinosa e tragica, non è il frutto di una tradizione ostile, alternativa rispetto all’immagine santificata del Costantino cristiano: sono tutti fatti accertati, che dobbiamo cercare di far coesistere con le scelte religiose dell’imperatore».
È la volontà di ripercorrere questa intera tradizione storiografica con certosina precisione a far sì che il Costantino di Barbero risulti in un libro di oltre ottocento pagine; il che potrebbe far paura a più di un lettore, ed è quindi opportuno segnalare che la discussione storiografica viene inserita nel corso dell’opera in sezioni segnalate ed è possibile fruire anche solo delle parti più narrative. Ma più di questo accorgimento, un’altra cosa ci pare importante, e cioè che, in linea con quanto premesso, Alessandro Barbero non crea un «nuovo» Costantino, e anche questo potrebbe lasciare perplessi i suoi lettori: la sua è in primo luogo un’opera di decostruzione, di pulizia dalle incrostazioni di idee e interpretazioni che alla luce delle fonti non hanno ragion d’essere. E soltanto nelle poche pagine conclusive si lascia andare quasi suo malgrado: «Fino all’ultimo ho creduto che non avrei scritto delle conclusioni», ci dice, ma «non è possibile convivere per anni con le fonti su Costantino senza farsi, un po’ per volta, una propria idea di cosa dev’essere accaduto davvero».
QUALE SIA LA SUA IDEA non è il caso di dirlo qui: molto meglio leggere il libro; ma quello che senz’altro si ritiene è la lezione di metodo, il gusto per l’indagine e la scoperta al di là dei luoghi comuni. Che è poi una lezione valida non soltanto in ambito storiografico.
Negli anni successivi alla morte dell’imperatore, però, la crisi tra pagani e cristiani, nonché fra cristiani di diverse confessioni, evidentemente solo sopita, si riaccese e raggiunse il suo apice nel 357 con la contesa intorno all’Altare della Vittoria: Costante II, succeduto a Costantino e cristiano di simpatie ariane, fece rimuovere l’ara sacra alla quale i senatori rendevano omaggio bruciando ritualmente grani d’incenso. Fra 361 e 363 l’ascesa al potere di Giuliano (il quale ha ricevuto dalla tradizione cristiana l’epiteto di «Apostata») sembrò riportare il primato alla tradizione pagana; pur essendo stato educato come cristiano, Giuliano sentiva maggiore attrazione per la cultura ellenistica ed esprimeva le sue stesse propensioni per il monoteismo nel favore accordato al culto solare.
Dopo Giuliano, la Chiesa riprese il sopravvento grazie soprattutto a due imperatori, cristiani nel modo più deciso e rigoroso: Graziano (375-383) e Teodosio (379-395). Su entrambi, e sulle loro scelte, si proietta l’ombra del potente Ambrogio vescovo di Milano. Il libro che Franco Cardini gli dedica è quasi un pamphlet già a partire dal titolo provocatorio (Contro Ambrogio) soltanto mitigato dalla «grandezza» cui si allude nel sottotitolo. Non è soltanto il numero di pagine ben differenti a contraddistinguere i due saggi; quello di Cardini si posiziona infatti in linea con gli interessi da lui manifestati in tante opere dedicate ai rapporti fra Occidente cristiano e Islam in questi ultimi anni di crisi, contro la vulgata che vorrebbe un cristianesimo affermatosi nella storia grazie all’esempio dei martiri, alla predicazione, alle buone opere, e un Islam che invece si sarebbe fatto largo a colpi di spada. La scelta di Teodosio, che mette fuori legge culti e confessioni differenti dal cristianesimo niceno, ha significato una svolta repressiva che ha segnato l’intera storia successiva dell’Occidente; e anche gli appartenenti ad altri culti hanno contato la loro buona parte di martiri poco celebrati dalla tradizione.
MA NON C’È SOLO QUESTO. Prima di essere l’ispiratore della scelta teodosiana del cristianesimo come unica religio licita, spiega Cardini, Ambrogio ha rivendicato ai chierici un ruolo di modello e di guida nei confronti dei laici e di quegli stessi tra loro ch’erano pubblici funzionari o addirittura detentori della suprema funzione imperiale; in tal senso egli sta alla base di un lungo e complesso itinerario che la riforma della Chiesa dell’XI secolo e il monarchismo pontificio riprenderanno, configurando una tradizione che solo il conciliarismo quattrocentesco (per una breve parentesi), il Concilio Vaticano II e, oggi, alcune scelte di papa Francesco hanno teso in qualche modo a limitare e a correggere. Così, se l’obiettivo polemico di Barbero è la storiografia, quello di Cardini sta nella visione parziale che amiamo dare della nostra storia – e di quella altrui. Entrambe sono operazioni encomiabili, entrambi libri importanti ben al di là dell’argomento trattato.

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