sabato 16 aprile 2016

La storia della Compagnia di Gesù di Adriano Prosperi

La vocazioneAdriano Prosperi: La vocazione, Einaudi

Risvolto
Come nacque il «gesuita», il nuovo modello di combattente votato alla conquista delle anime nel mondo diviso dell'Europa cristiana e in quello dilatato dalle scoperte geografiche?

La Compagnia di Gesú, nata nel secolo della Riforma e della Controriforma per combattere le eresie, abolita nel Settecento illuminista, riportata in vita nell'Ottocento romantico e reazionario, impegnata infine nelle tragedie del XX secolo, ha svolto ruoli diversi nel tempo. Ha accolto personalità tra di loro in vivace contrasto ma questo non ha impedito che nel corso dei secoli la parola «gesuita» continuasse a evocare un tipo umano speciale: sofisticati maestri di finzione e di doppiezza. Fu facile per critici e avversari giocare ogni volta sul luogo comune della distanza tra l'inarrivabile modello di Cristo e le difettose, parziali imitazioni di chi si fregiava del suo nome. Distanziandosi da tali stereotipi Adriano Prosperi racconta chi furono in realtà i primi gesuiti e come ne fu costruita la speciale coscienza di «chiamati» da Cristo a essere i nuovi Apostoli del mondo moderno. Lo fa attraverso l'analisi delle loro «autobiografie» che mettono in luce il rapporto tra la vocazione, la chiamata divina, e l'arbitrio umano nell'ascoltare e nel rispondere ad essa: un territorio oscuro, pieno di incidenti imprevedibili, dominato dalla resistenza umana.


«A Roma, nell'archivio della sede generalizia della Compagnia di Gesù si costituì nel tardo Cinquecento un corposo dossier di autobiografie e di narrazioni di storie individuali, aggiornato e accresciuto fino ai primi decenni del Seicento. Chi le raccolse aveva in mente la costruzione di una storia dell'Ordine, una memoria collettiva come monumento fatto di tante pietre quante erano le vite dei singoli suoi membri. Tante vite, tante diverse maniere di contribuire al fine unico dell'impresa, quello di operare per la maggior gloria di Dio. Ma proprio perché ciascuno è chiamato a portare il suo contributo accade che invece di annullarsi nel pastone collettivo di una storia ufficiale dominata dall'azione della Provvidenza, ciò che i singoli hanno fatto, pensato e costruito - spesso aprendo laceranti conflitti familiari e psicologici - assume valore in sé. La coscienza che li anima è quella di essere inseriti come protagonisti in un processo storico dominato da una forza superiore». A partire da qui Adriano Prosperi ricostruisce le scelte difficili, le sfide, le rivolte contro la famiglia («la tempesta de parenti») da parte dei giovani che si sentono «vocati»: Roberto Bellarmino, Antonio Possevino o il giovanissimo René Ayrault in fuga, per mezza Europa - come in un romanzo di Dumas - nel tentativo di sfuggire al padre.                   
I camaleonti del Cielo

Coltissimi, educati all’obbedienza, avversati dagli altri cattolici, volevano convertire il mondo trasformando se stessi e il messaggio di Cristo: «La vocazione» di Adriano Prosperi (Einaudi) racconta i Gesuiti tra XVI e XVII secolo
Corriere della Sera 16 Apr 2016 di Pietro Citati
Sotto il titolo La vocazione. Storie di gesuiti tra Cinquecento e Seicento (Einaudi), Adriano Prosperi pubblica un ricco e intelligente studio sulla Compagnia di Gesù tra la fine del XVI e la prima parte del XVII secolo. Siamo nel cuore del Rinascimento. Fondata da Sant’Ignazio, la Compagnia di Gesù suscitava straordinari entusiasmi e avversioni. Per gli uni, essa era prossima a Dio e al cielo come nessun ordine religioso; per gli altri, era una iniqua contraffazione, che imitava le parole dei Vangeli soltanto per volgerle al male.
I gesuiti entravano nella Compagnia molto giovani: a 14 o 15 anni, prima di conoscere il mondo e quelli che avrebbero giudicato i suoi inganni. La maggior parte di essi avevano studiato nei Collegi gesuitici, che erano numerosissimi: nel 1750 settecentocinquanta nel mondo, cinquecento in Europa. Questi Collegi avevano una grande fama: tutta l’Europa esaltava la loro cultura e qualità intellettuale. L’insegnamento era vario e ricco: a metà del Cinquecento, al Collegio Romano si insegnavano «lettere umane», tre lingue, filosofia, matematica, teologia, mentre si svolgevano eccellenti rappresentazioni teatrali; il latino era quello classico, Cicerone e Virgilio, non, come negli altri Ordini, il latino medioevale. Le autorità della Compagnia prestavano la massima attenzione all’insegnamento dei Collegi. Sant’Ignazio aveva scritto a Filippo II di Spagna che dalla formazione dei giovani gesuiti dipendeva il benessere del mondo intero: padre Pedro de Ribadeneira aveva aggiunto che «la sorte della religione e del mondo dipendeva dalla difesa della mente dei giovani, ancora molli, ed aperte al pervertimento da parte del Nemico».
L’iniziazione che permetteva di entrare nella Compagnia di Gesù era vasta, lunga e complessa, sebbene, in casi straordinari, come quello di Antonio Possevino, potesse diventare rapidissima. Il neofita sceglieva un direttore spirituale: ogni giorno faceva l’esame di coscienza: alla fine di ogni settimana consegnava al direttore l’elenco dei peccati commessi: si confessava e comunicava molto spesso, quasi sempre due volte la settimana; nulla era importante, per i gesuiti, quanto la ripetizione e la perseveranza nel bene. Il peccato stava lì, in agguato, dietro ogni angolo, e bisognava essere più veloci e sottili di lui per sconfiggerlo. Il gesuita doveva essere versa- tile: dotato di molte attitudini; «memoria finissima», conoscenza perfetta della Bibbia, possesso di molte lingue. La qualità suprema era l’obbedienza ai superiori e al Papa. Sant’Ignazio aveva detto: «Per non sbagliare, dobbiamo sempre ritenere che quello che vediamo bianco sia nero, se lo dice la Chiesa gerarchica».
I gesuiti scrivevano molto. Tutto cominciava all’inizio, quando preparavano il racconto della propria vocazione. Questi racconti si sono conservati negli archivi della Compagnia di Gesù: oggi noi possediamo una straordinaria ricchezza di testimonianze, raccolte in modo sistematico alla fine del XVI secolo, e studiate da Giancarlo Roscioni ( Il desiderio delle Indie. Storie, sogni e fughe di giovani gesuiti italiani, Einaudi 2001). Con il soccorso dei direttori spirituali, i neofiti si addentravano nel mondo. Avevano un modello altissimo: come diceva Sant’Ignazio, imitavano e continuavano la missione degli apostoli. Il ritorno di Cristo era vicino: la sua promessa storica stava per compiersi; e i gesuiti, predicando i Vangeli a tutte le genti, affrettavano questo ritorno.
Non ignoravano di avere molti nemici. I più terribili erano quelli più prossimi: le famiglie. Le madri cercavano di dissuaderli dalla conversione alla Compagnia con «carnali lachrime»: poi, non contente delle lacrime, li tenevano chiusi in casa per settimane, «et hora con clamori, hora con blanditie, hora con bastonate, hora con dehortatione di parenti prossimi, pensavano rimoverli». Sebbene amassero il padre e la madre, i giovani gesuiti non temevano le famiglie. Avevano letto i Vangeli e la vita di san Francesco: sapevano che Cristo aveva consigliato ai suoi fedeli di abbandonare le famiglie; mentre san Francesco, trascinato davanti al vescovo di Assisi, «senza dire o aspettare parole, si tolse tutte le vesti e le gettò tra le braccia di suo padre, restando nudo davanti a tutti».
I giovani gesuiti sapevano che esisteva un diritto paterno: basata su questo diritto, si innalzava l’Autorità del sovrano, fondamento di ogni Stato. Ma essi sfidavano entrambi questi diritti, in nome della Compagnia di Gesù, che, per loro, stava al di sopra di ogni legge e autorità visibile. Non accettavano né padre né sovrano,
giungendo a teorizzare il tirannicidio. In un durissimo atto di accusa, Antoine Arnauld sostenne che essi erano pericolosissimi, perché col loro insegnamento armavano le menti dei loro allievi, spingendoli a rompere il vincolo tra figli e padri, sudditi e sovrani. «Dicono — scrisse un nemico dei gesuiti — che dovunque sono i Giesuiti si turba lo Stato, si guastano i studi et università, et si altera la pace». Nel novembre 1622 Paolo Sarpi aggiunse: «L’educazione dei PP. Gesuiti sta in ispogliare l’alunno di ogni obbligazione verso il padre, verso la patria, verso il principe naturale, e voltare tutto l’amore, e ’l timore verso il padre spirituale. Dalle scuole de’ Gesuiti non è mai uscito un figlio obbediente al padre, affezionato alla patria, devoto al suo principe».
Mentre i giovani gesuiti lasciavano i Collegi, in pochi anni il mondo diventò sterminato: non era più ristretto ai Paesi del Mediterraneo, ma si allargava agli immensi Paesi che i navigatori portoghesi e spagnoli avevano appena scoperto. Come scriveva Antonio Possevino, «si aprono frequentissimi popoli alla fede di Christo, laon-

Storia dei gesuiti molto dialogo e poco gesuitismo 
Un saggio di Adriano Prosperi rimuove alcuni luoghi comuni sull’ordine religioso di papa Francesco
SIMONETTA FIORI Restampa 3 5 2016
«Ho confessato al Papa i miei peccati e non mi ha dato neanche la penitenza. Un momento dolce, per niente inquisitorio ». È accaduto una settimana fa in piazza San Pietro: una quindicenne scout ammessa al cospetto di papa Francesco ha saputo restituire l’inatteso colloquio con il pontefice come atto di ascolto e non di giudizio. Il caso vuole — ma forse non è solo un caso — che proprio in questi giorni stia uscendo da Einaudi un bellissimo libro di Adriano Prosperi sui primi gesuiti tra Cinquecento e Seicento (“La vocazione”). E un capitolo importante di queste storie di iniziazione è dedicato alla confessione.
È il solo punto in cui lo storico fa esplicito riferimento a papa Francesco, artefice nel 2013 della canonizzazione del sacerdote gesuita Pierre Favre. «È stata una scelta mirata», racconta Prosperi dal suo studio di Pisa. «Favre faceva parte del gruppo di mediatori che nel 1541 andarono a parlare con i luterani a Ratisbona. Piuttosto indifferente alle questioni teologiche, annotò nel suo “memoriale” quale doveva essere il modo più giusto per avvicinarsi agli eretici: mostrare nei loro confronti molto amore, anche attraverso la confessione che era una conversazione amichevole. In tal modo, secondo Favre, sarebbero riusciti a convincere lo stesso Lutero a pentirsi e riprendere l’abito religioso». Nella figura del confessore si affacciano due immagini: il giudice e il medico. «Il giudice passa in rassegna i peccati e pronuncia la sentenza; il medico si mette all’ascolto e cura le ferite dell’anima. È questo secondo aspetto che i gesuiti hanno sempre coltivato nell’esercizio della confessione».
È difficile leggere il nuovo saggio di Prosperi senza pensare al leader mondiale più influente scaturito dalla Compagnia di Gesù. Una figura che non viene mai nominata — se non in nota — ma che resta sullo sfondo anche perché lo storico allunga la sua lente sul processo di formazione delle seconde generazioni dei gesuiti: non tanto i compagni di Ignazio di Loyola, più studiati e conosciuti, ma «la generazione di coloro che scoprirono l’ordine quando cominciava a espandersi in Italia, Spagna e nel resto dell’Europa cattolica e allungava la sua proiezione fino ai confini orientali delle terre conosciute». Un percorso ricostruito attraverso «le relazioni autobiografiche » imposte ai gesuiti dall’alto con un duplice scopo: il racconto ad uso interno ed esterno della vocazione e il richiamo costante al momento della scelta di obbedienza assoluta a una forza superiore. Ed è questo il passaggio più lacerante su cui fanno luce le “vocationes”, lo strappo dalla famiglia naturale per entrare in quella spirituale rappresentata dalla Compagnia di Gesù. Una ribellione al padre carnale in nome dell’obbedienza a un altro padre, che spesso suscitava una “tempesta de parenti” foriera di grandi avventure e peripezie.
Le storie raccolte da Prosperi narrano di genitori ostili e talvolta perfino maneschi, di madri disperate, di congiunti potentissimi che si adoperano in mille maniere per scongiurare l’allontanamento del ragazzo. «Per i novizi si trattava di una rinascita, di una nuova vita che tagliava radicalmente i ponti con quella precedente», spiega lo storico. «Ed occorreva rinnovarne costantemente il ricordo anche per confermare una scelta che doveva essere irrevocabile». Solo così si poteva coltivare una disciplina interiore tale da far fronte alle tentazioni del peccato. «E solo in questo modo, rinnovando il patto di fedeltà alla nuova famiglia, i gesuiti potevano andare soli nel mondo, come Matteo Ricci nella solitudine dell’immensa distesa cinese».
Ci sono degli elementi ricorrenti — in questo romanzo di formazione dei gesuiti — che aiutano a capire di più la figura di papa Francesco? «Un tratto che distingue l’ordine fondato da Ignazio è l’apertura senza limiti al diverso religioso», risponde Prosperi. «E soprattutto la disponibilità a percepire nei comportamenti una religiosità diffusa, anche se non espressamente manifesta. Penso a Fran- cesco Saverio che approdato in Giappone disse agli studenti universitari europei: correte perché qui si tratta di rivelare a questo popolo che sono cristiani anche se non lo sanno. Intendiamoci: erano tempi di guerra di religione e anche i gesuiti dovettero trafficare pesantemente contro i nemici eretici. Ma al fondo rimase questa convinzione che sulla base di precetti morali semplici ci si poteva incontrare. Bisognava ascoltare gli altri. E, come diceva Ignazio, bisognava “entrare con l’altro e uscire con se stesso”: un motto che evoca il rituale della lotta giapponese, una cedevolezza apparente che ti permette di abbracciare il tuo interlocutore per portarlo dalla tua parte».
Per chi si aggira nei dintorni di Riforma e Controriforma — Prosperi è uno dei massimi specialisti — è impossibile non imbattersi nella compagnia di Gesù. Ma il libro nasce anche da una necessità: quella di liberare i gesuiti dallo spesso velo di luoghi comuni che resiste nel tempo. «Pochi stereotipi si sono impiantati nel linguaggio comune lasciandovi impronte così tenaci», commenta Prosperi. «Nel bene e nel male, nell’apologia e nell’accusa di incarnare un potere segreto, responsabile delle pagine più nere». Gesuitismo come sinonimo di ipocrisia o scaltrezza nefasta al pari del machiavellismo. Lo studioso sceglie un’altra strada che lo porta a rappresentarli come «un élite di militanti votati all’obbedienza assoluta». Ma questa attitudine finisce per richiamare un’altra analogia invalsa nel secolo scorso e tuttora resistente: l’accostamento ai rivoluzionari novecenteschi. «È stata Sabina Pavone a farmi notare che Emmanuel Carrère nel Regno attribuisce a Pjatakov la frase: “Se il partito lo richiede, un vero bolscevico è disposto a credere che il nero sia bianco e il bianco nero”. In realtà era una delle Regole di Ignazio di Loyola». E anche la pratica dell’autocritica viene vista come elemento comune a gesuiti e comunisti nella costruzione dell’uomo nuovo. Un altro aspetto valorizzato da La vocazione è l’invenzione dei Collegi, «luoghi di alta educazione per ragazzi di buona famiglia». Nel 1750 c’erano cinquecento collegi gesuitici in Europa, altri duecentocinquanta nel mondo. E la qualità della loro opera educativa veniva celebrata anche dai non cattolici. «Ma all’origine ci fu una esigenza fondamentale: quella di selezionare le nuove leve gesuitiche, dotate di forte convinzione e di mezzi intellettuali adeguati». Essere giovani è una promessa straordinaria. E i gesuiti furono tra i primi a esserne consapevoli. «Seppero riconoscere il tesoro nascosto nella plasticità delle giovani e spesso giovanissime intelligenze, intercettando il bisogno di sapere che proveniva da tutta la società. Fu l’asso calato da Ignazio nel secolo che scopriva la scuola».

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