mercoledì 20 aprile 2016

L'anniversario di Shakespeare, nativo di Bordonaro


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Aridea Fezzi Price Giornale - Mer, 20/04/2016

Grande mostra a Londra
Dove lo celebra anche la metro
di Alessandra Rizzo La Stampa 20.4.16
Abiti di scena, un teschio usato nell’Amleto, rare edizioni delle sue opere: a 400 anni dalla morte la British Library celebra Shakespeare attraverso dieci produzioni teatrali che hanno contribuito a crearne il mito.
«Shakespeare in Ten Acts« (Shakespeare in dieci atti») espone 200 pezzi, tra cui l’unica sceneggiatura scritta a mano dal Bardo che sia arrivata fino a noi: curiosamente, non una delle sue opere, ma un contributo a un dramma sulla vita di Thomas More. Lo spettacolo non fu mai messo in scena, ma il passo di Shakespeare contiene una difesa dei migranti che sembra scritta per i nostri giorni. In mostra anche una rara copia del First Folio, la raccolta di 36 opere pubblicata sette anni dopo la sua morte. Gli amanti del teatro non resteranno delusi: si possono vedere costumi di scena indossati da Vivien Leigh e un teschio regalato da Victor Hugo all’attrice Sarah Bernhardt per un Amleto di fine ’800. Se i versi di Shakespeare sono universali, la messa in scena dei suoi lavori è cambiata nel corso dei secoli: la mostra documenta la prima volta di una donna su un palcoscenico inglese (1660), o di un attore nero nei panni di Otello (1825).
La rassegna alla British Library è soltanto uno degli eventi con cui la Gran Bretagna celebra una delle sue icone. A Londra sono in programma concerti, spettacoli e tour dei luoghi legati alla sua vita e opere (il sito www.shakespeare400.org offre una lista completa). Si può bere una pinta di birra nel suo pub preferito, il George Inn a Southwark. E la metropolitana ha aggiornato la celebre mappa sostituendo i nomi delle stazioni e linee con quelli dei suoi personaggi e opere più celebri: la fermata Giulietta è connessa a quella Romeo sulla linea Amanti. 

Shakespeare è in tutti noi anche se non siamo epici come i suoi personaggi 
Ernesto Ferrero Busiarda 20 4 2016
Non possiamo, non potremo fare a meno di Shakespeare perché in Shakespeare c’è tutto quello con cui ci misuriamo ogni giorno, pur non avendo la forza epica, l’oltranza, la vis pugnandi dei suoi personaggi. Dobbiamo continuare a leggerlo per ricuperare la pregnanza della parola, la sua intatta forza primigenia, svilita dall’uso furbesco e immiserito che ci siamo ridotti a fare. In lui la parola è acciaio e diamante, scintilla come se fosse appena uscita dalla fucina del primo giorno della Creazione, taglia come una spada. Distingue e illumina senza mai barare.
Shakespeare dovremmo provare a leggerlo con il testo originale a fronte, provare a tradurlo da noi con i nostri poveri mezzi per ammirare (imparare è impossibile) la sua straordinaria capacità di concentrare interi mondi, verità lancinanti, in tre parole di altissimo peso specifico. Per ogni parola sua, in italiano ce ne vogliono cinque. Arrampicarsi sui testi shakespeariani è come scalare una parete nord a mani nude. Sappiamo benissimo che non arriveremo mai in cima, ma l’esercizio è tonificante, rigenerante. Ci sono sconfitte espressive che fanno del bene, aiutano a crescere.
Alla fine di una prodigiosa stagione creativa, Shakespeare condensa e trasforma la gamma dei temi che più gli sono cari nei colori dell’arcobaleno. E’ la fiaba miracolosa de La tempesta, uno dei suoi testi oggi giustamente più rivisitati e frequentati. Ci possiamo ritrovare la dialettica tra natura e cultura, materia e spirito, innocenza e brutalità; la fascinazione del potere e il suo ripudio, la pietà e la vendetta, la fedeltà e il tradimento, i doveri del restare uomini malgrado tutto, la fermezza e la malinconia, l’amarezza e il sorriso, le dinamiche selvagge dei conflitti famigliari. 
Il mondo umano è il mondo del conflitto e del disordine. Il mondo naturale è quello della riconciliazione e dell’ordine. Alla fine Prospero con la sua saggezza riesce a conciliarli. È questo tipo di magica ricomposizione che dovremmo sforzarci di emulare. Diceva Agostino Lombardo che La tempesta è una «grande conchiglia», che ad accostarla all’orecchio dà l’illusione del mormorio del mare. Tutta la vera, grande letteratura è questa illusione salvifica, che amplia i territori della conoscenza, che ci fa umani e ci solleva dalla materialità di Calibano (persino lui alla fine potrà diventare poeta). All’interno di quel mormorio possiamo cogliere la meraviglia di incanti, voci, musiche, nuvole da cui piovono ricchezze. Tutto, alla fine, svanisce e si dissolve nell’aria, perché siamo della materia di cui sono fatti i sogni. In questo Shakespeare sembra persino annunciare le smaterializzazioni dei mondi virtuali.
Prospero dichiara che la sua biblioteca costituisce per lui un ducato sufficientemente grande, ma per quanto l’uomo studi, il mondo resta governato dalle violenze del potere. Non c’è isola fuori dalle mappe che possa garantire la salvezza. Il teatro diventa lo specchio ideale di opposizioni e contrasti che senza l’intervento ordinatore della poesia resterebbero sound and fury. Quella che Shakespeare firma per nostro conto ad ogni lettura, ad ogni rappresentazione, è la pace provvisoria di cui ci dobbiamo stoicamente accontentare, facendo nostro l’amaro sorriso di Prospero.
Vivere nella tempesta significa accettare la vita tutta intera, nelle sue burrasche e nello stupore dei brevi momenti d’incantamento che ci regala. Significa accettare l’ombra e provare ad ascoltarla, a decifrarla. Significa pentirsi, perdonare, chiedere e dare misericordia, riacquistare la libertà, salvarsi, ricominciare, rinascere. Sono le parole che con Papa Francesco tornano ad essere nuove. BY NC ND ALCUNI DIRITTI

Shakespeare fratello d’ItaliaMoriva il 23 aprile di quattrocento anni fa. È stato il maggiore poeta inglese, ma nei suoi drammi campeggia il Bel Paese: che forse non visitò mai Quanto fu importante l’Italia per William Shakespeare? Molto, anche se non fino al punto di ridurre di una frazione l’anglicità del massimo poeta inglese. Questo titolo gli spetta per almeno tre ragioni. La prima: fu supremo nell’uso della lingua nazionale in un momento di espansione e di grandi cambiamenti, valorizzandone e accrescendone la ricchezza a tutti i livelli, da quello sublime della grande eloquenza, a quello della concentrazione espressiva (basta pensare ai Sonetti), a quello delle schermaglie dialettiche, a quello basso del volgo e della comicità. La seconda: con i suoi dieci drammi storici riassunse e spiegò a uso dei compatrioti due secoli di vicende della monarchia inglese, riflettendo sulle vicende anche torbide e discutibili che avevano condotto al momento attuale. 
Falstaff vs Chisciotte
La terza: nel dar voce a decine di personaggi memorabili, comprendendo le ragioni di ciascuno (fu come disse Keats un poeta-camaleonte, capace di diventare Iago come Imogene), creò Falstaff, che sarebbe rimasto come la marionetta autoctona per eccellenza, incarnazione dell’inglese tipo, concreto nei vizi come nelle qualità: contraltare del contemporaneo arcispagnolo, il Don Chisciotte di Cervantes.
D’altro canto, a parte i surricordati dieci drammi storici, Shakespeare collocò quasi sempre le sue storie in luoghi diversi dalla madrepatria. L’in-folio, ovvero la fondamentale raccolta delle sue opere teatrali pubblicata dai colleghi qualche anno dopo la morte, contiene 36 tra tragedie e commedie. Ebbene, solo dodici si svolgono in Inghilterra: i drammi storici, più Le allegre comari di Windsor, Re Lear e, in parte, Cimbelino. Altrimenti, lo sfondo varia. Abbiamo quattro volte la Grecia, due la Francia, una volta sola la Danimarca e la Scozia, l’Illiria, Vienna ecc. Ma l’Italia campeggia in ben dieci casi, undici se aggiungiamo la parte italiana di Cimbelino, e addirittura dodici se consideriamo territorio italiano l’isola innominata della Tempesta, che si trova da qualche parte in mezzo al Mediterraneo e di cui è occupante e signore il Duca (spodestato) di Milano.
Sì, gran parte dei drammi «italiani» parlano in realtà di Roma antica - Tito Andronico, Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra, Coriolano, nonché Cimbelino. Di questi il primo e l’ultimo sono opere fiabesche, largamente di fantasia, mentre per i tre centrali Shakespeare si documentò su fonti classiche, soprattutto Plutarco ma anche Appiano, come recentemente dimostrato da Luciano Canfora. Aveva a disposizione valide traduzioni, ma certo il latino non gli era ostico.
E - altre traduzioni a parte - anche un’infarinatura di italiano non gli mancava, sostenuta dalle opere di Giovanni alias John Florio (il dizionario italo-inglese, la raccolta di proverbi italiani in Secondi frutti) di cui sono molte tracce nei suoi lavori. In ogni caso, per gli inglesi l’Italia dei tempi di Shakespeare non era terra incognita. Di lì venivano mode e raffinatezze e molta letteratura, comprese le novelle da cui il Bardo tolse parecchie trame; era di importazione italiana persino la forma del sonetto, diffusa durante la generazione precedente. 
Reinterpretato da Verdi
Non c’è dunque motivo di congetturare, come pure si è fatto, un ipotetico viaggio di Shakespeare in Italia, ipotesi non sostenuta da alcun documento. In quale Italia, comunque? La cena è collocata a Venezia due volte, nel Mercante e in Otello (atto primo); a Verona altre due - I due gentiluomini e Romeo e Giulietta; una volta a Padova (La bisbetica domata, e una a Messina (Molto rumore per nulla). I luoghi sono caratterizzati quanto basta, Venezia coi suoi ponti e la sua popolazione multietnica; Padova con l’Università e i suoi pedanti; Messina con la dominazione spagnolesca e gli sbirri indigeni, goffi, ignoranti e presuntuosi. In Romeo e Giulietta trionfa infine il Meridione, terra di sole, sangue bollente e profumi inebrianti...
A favore di una conoscenza diretta del Bel Paese ci sarebbero dettagli come il calore del luglio veronese in Romeo e Giulietta, o toponimi di Venezia (Rialto, la Frezzaria ovvero il «Sagittar» in Otello). Ma ci sono anche incongruenze madornali come il percorso fluviale da Verona a Milano nei Due gentiluomini, o, nella Bisbetica, il mestiere del padre di un personaggio, fabbricante di vele a Bergamo.
Insomma, c’è tanta Italia in Shakespeare: un amore che curiosamente tardò a essere ricambiato. Ancora nel ’700 il Bardo era poco noto da noi. Il letterato veneziano Apostolo Zeno scrisse una tragedia, Ambleto, ricavando la trama direttamente dalla fonte (Saxo Grammaticus). Preceduta da libere versioni francesi all’origine di adattamenti musicali molto lontani dai drammi, come I Capuleti e i Montecchi di Bellini e Otello di Rossini e da entusiasmi romantici tedeschi, da noi l’ammirazione per il Cigno dell’Avon scoppiò veramente solo a metà ’800. Allora però lo fece clamorosamente. E oltre ad alcuni interpreti che si sarebbero conquistati fama mondiale (Tommaso Salvini, Adelaide Ristori), espresse i tre capolavori di Giuseppe Verdi: il geniale, innovativo Macbeth, il maestoso Otello, che ancora oggi si rappresenta con una frequenza paragonabile a quella dell’originale, e infine l’aereo Falstaff. A proposito del quale un cultore di Shakespeare come il poeta W. H. Auden dovendo dedicare una conferenza alle Allegre comari di Windsor come parte di una serie che teneva a New York, preferì tacere, e far ascoltare il disco dell’opera. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Chi ha scritto le sue opere? Un dubbio antico, ma infondato
Da Marlowe a Bacone, tanti gli indiziati. Sulle sue tracce perfino un ex agente della Cia. In realtà l’autore non può che essere lui
Paolo Bertinetti Busiarda 20 4 2016
Cinque anni fa apparve sui nostri schermi un curioso film americano, Anonymus, diretto da Roland Emmerich, un regista specialista del genere catastrofico. Il film racconta la vita romanzata di Edward de Vere, diciassettesimo conte di Oxford, presentandolo come il vero autore delle opere di Shakespeare. Questa teoria è tutt’altro che nuova: fu proposta per la prima volta nel 1920 dallo scrittore J. Thomas Looney, ma è stata ravvivata qualche anno fa da un agente della Cia andato in pensione. Perché mai, si chiedeva l’ex agente segreto, l’antologia della poesia inglese stampata dallo stesso editore che pubblicò il First Folio, il volume di (quasi) tutte le opere di Shakespeare, contiene diverse composizioni poetiche del conte di Oxford ma nessuna di Shakespeare? Perché lui sapeva, questa sarebbe la spiegazione, che in realtà era il conte di Oxford ad aver scritto le opere di Shakespeare, che quindi sarebbe stato soltanto un prestanome.
Il fatto è che il conte morì nel 1605, prima che Shakespeare scrivesse alcune delle sue opere maggiori. Bisognerebbe allora pensare che in realtà il conte non fosse morto, ma per misteriose ragioni si nascondesse in qualche luogo segreto - continuando però a scrivere commedie e tragedie. Anche se l’ipotesi sembra degna di quella su cui fantasticarono i fan di James Dean, quest’idea sta alla base anche di una seconda teoria. Il vero autore dei testi di Shakespeare sarebbe stato il grande drammaturgo Christopher Marlowe. Il quale era anche un agente segreto di Sua Maestà, ucciso in una rissa nel 1593. In realtà si sarebbe trattato di una messinscena: lo scomodo Marlowe avrebbe continuato a vivere in clandestinità, scrivendo i testi che Shakespeare firmava. E perché mai? 
Un’altra teoria vuole che l’autore vero sia stato Francis Bacon, filosofo e uomo politico, che nei ritagli di tempo (si presume) avrebbe scritto Amleto, Re Lear, Macbeth e Otello. Vecchia teoria, di recente abbandonata. Un’altra ancora, abbastanza nuova, vuole invece che il vero autore fosse John Florio, letterato e linguista eccelso. Questa teoria è stata però rivista in un senso tutt’altro che peregrino: Florio sarebbe stato il curatore del First Folio e a lui (che «inventò» più di 1200 parole inglesi) si dovrebbero alcuni dei cambiamenti linguistici apportati ai testi delle singole opere di Shakespeare pubblicate in precedenza.
Alcuni dei maggiori studiosi di Shakespeare, ancora di recente, hanno ribadito che tutte le varie teorie sono senza fondamento. Basti pensare a due testimonianze indirette. Nel 1592 il drammaturgo Robert Greene si scagliava contro Shakespeare, definendolo «quel corvo venuto dal niente» che si faceva bello con le loro piume. Lo accusava cioè di copiare dai lavori suoi e dei suoi illustri colleghi; di copiare, ma di essere lui l’autore dei testi che andavano sotto il suo nome. Qualche anno dopo, tuttavia, Shakespeare già riceveva il plauso e le lodi del fine letterato Francis Meres, che nel suo «inventario» dei grandi autori inglesi, Palladis Tamia, del 1598, lo salutava come eccellentissimo autore di commedie e tragedie. 
È ovvio che l’autore era lui. Nel ristretto e pettegolo mondo dello spettacolo un simile segreto non sarebbe durato più di un giorno. Il fatto è che, come il Robert Greene laureato a Cambridge, molti non ammettono che uno che non aveva fatto l’università potesse essere uno scrittore di tanta cultura e sapienza linguistica. Nel suo caso era bastata la Grammar School, una «scuola media» che valeva almeno un’odierna laurea in lettere classiche. Al resto aveva provveduto il genio.

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