domenica 24 aprile 2016

L'azionismo, un morbo politico inestirpabile




L’eredità «intransigente» del Partito d’Azione 
Liberazione. Il «limite politico» della seconda forza militare della Resistenza

Davide Conti Manifesto 24.4.2016, 23:58 
In una società politica contemporanea intrinsecamente portata al compromesso e alla negoziazione quella del Partito d’Azione di Piero Calamandrei e Giorgio Agosti, di Duccio Galimberti e Giorgio Bocca resta probabilmente l’eredità della Resistenza meno compatibile con gli esiti finali del processo di transizione italiana dal fascismo alla Repubblica. 
Componente decisiva del movimento partigiano (le sue formazioni di «Giustizia e Libertà» furono numericamente la seconda forza militare della Resistenza dopo quella comunista) l’azionismo caratterizzò il suo profilo identitario attorno all’idea di una «intransigenza» valoriale che ne segnò da un lato l’autorevolezza morale e dall’altro il «limite politico» in un paese come l’Italia che aveva dato i natali al fascismo. 
La radicalità dell’istanza repubblicana, la rivendicazione di una rottura storica non solo col passato fascista ma anche con quello dell’Italia liberale nonché la lotta contro la pesante ipoteca della «continuità dello Stato» rappresentarono il portato costituente dell’azionismo e ne fecero più degli altri il «partito della Resistenza» nell’accezione migliore del termine ed anche in quella più limitativa, tanto che il Pda ebbe una parabola temporale breve e quasi coincidente con quella della Lotta di Liberazione. 
Non arrivando a compiere la trasformazione da «partito dei fucili in partito delle tessere», che riuscì ai comunisti col partito di massa, il Pda rappresentò l’espressione simbolica di quel mancato incontro tra élite e popolo che si sarebbe potuto e dovuto compiere nel dopoguerra attorno alle idealità della nuova religione civile dell’antifascismo. 
In questo senso la caduta del governo del «partigiano Maurizio» Ferruccio Parri, soffocato dall’accordo e dall’incontro tra i grandi partiti di massa cattolico e comunista, segnò la fine simbolica e visiva della primavera partigiana, evidenziando il peso della relazione spesso contraddittoria tra etica e politica, ovvero tra il realismo dell’agire in conseguenza dei rapporti di forza dati e le spinte ideali fondamentali di rinnovamento sociale. 
Tuttavia l’eredità storica del Partito d’Azione non si è spenta con la sua fine innervando la dorsale della Costituzione italiana, con figure come quella di Piero Calamandrei, e le diverse culture politiche dell’Italia repubblicana, influenzando e compenetrando forme e contenuti del socialismo italiano, relazionandosi in un rapporto dialettico continuo e spesso conflittuale con i comunisti o giungendo a fornire al movimento operaio dei padri del sindacalismo italiano come Bruno Trentin e Vittorio Foa. 
Di questi aspetti fondamentali si occupano i «Cantieri dell’Azionismo» promossi dall’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea di Torino, dalla Fondazione Dalmazzo e dall’Archivio Storico del Senato e diretti da Giovanni De Luna che, aperti il 21 aprile scorso a Roma e dedicati a Massimo Ottolenghi, vedranno la loro conclusione con il ricco appuntamento di Torino del 19-20 maggio prossimi. 
La vicenda del Partito d’Azione ha spesso finito per incarnare l’interpretazione della Resistenza come «occasione mancata». 
Tuttavia al netto di una lettura incline a non tener conto della storia e del suo «farsi concreto», permane, pur a distanza di così tanto tempo, il fascino attrattivo di quell’approdo «alto» cui aspirò l’azionismo, ovvero quella nazionalizzazione antifascista delle masse che rimane, per noi che navighiamo nei mari così incerti della modernità, una stella polare sicura e luminosa.

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