mercoledì 6 aprile 2016

Le "Considerazioni sui colpi di Stato" di Gabriel Naudé. La sinistra le ha studiate assai bene

immagine scheda libroGabriel Naudé: Considerazioni politiche sui colpi di stato, a cura di Alessandro Piazzi, Nino Aragno Editore, pp. 304, euro 15

Risvolto
Nelle Considerazioni politiche sui colpi di Stato Naudé, pur riconoscendo a Machiavelli il merito di aver per primo affrontato con intelligenza ed acutezza gli argomenti politici nella piena corrispondenza alla realtà effettuale, si ritaglia in questo filone di pensiero politico uno spazio del tutto originale, poco frequentato e mal teorizzato.

Gabriel Naudé (1600-1653) insieme a Gassendi, La Mothe Le Vayer, Diodati formò “La Tetrade” quel formidabile sodalizio intellettuale che costituì il cuore del libertinismo erudito. Assunto come segretario dal Cardinale di Bagno, Naudé accompagnò in Italia l’importante uomo di Chiesa ed ebbe così occasione di incontrare gran parte del mondo culturale italiano, ma soprattutto ebbe agio di osservare il modo con cui si procedeva negli affari di Stato nella Roma dei Barberini. Durante il soggiorno italiano egli mise a punto le sue opere di maggior valore: Bibliographia politica (1633) e Considérations politiques sur les coups d’Etat (1639). Alla morte del cardinal di Bagno (1641) fu richiamato a Parigi da Richelieu che gli affidò l’incarico di curare la propria biblioteca; incarico che proseguì anche con Mazarino, che lo incaricò di formare una prestigiosa biblioteca. In poco tempo riuscì a raccogliere in tutta Europa più di 40.000 volumi. Ma Naudè vide distrutto gran parte del suo lavoro dalle vicende della Fronda. Amareggiato, accettò l’incarico di bibliotecario presso la corte di Svezia offertogli dalla regina Cristina, ma il clima rigido e l’ambiente poco accogliente lo indussero dopo poco tempo a riprendere la via di casa. Non rivide Parigi, poiché lo colse la morte in viaggio nel 1653.

Alessandro Piazzi
studioso di filosofia politica, ha approfondito in particolare i temi relativi alla nascita ed al consolidamento dello Stato moderno. In merito a tali argomenti ha pubblicato scritti su autori e personaggi di rilievo nella storia del pensiero politico: Stato e proprietà nella teoria politica di Thomas Hobbes; saggi introduttivi per l’antologia Il politico. Per i tipi di Aragno ha curato e tradotto il Testamento politico e massime di Stato di Richelieu e le Considerazioni politiche sui colpi di Stato di Gabriel Naudé.
   
I colpi di Stato spiegati da Naudé, scettico libertino 
6 apr 2016  Libero MAURIZIO SCHOEPFLIN RIPRODUZIONE RISERVATA 
Corrente filosofica a cui aderirono personalità assai diverse tra loro, e pertanto priva di un apparato teorico ben determinato, il libertinismo ebbe notevole successo in Francia e in Italia nella prima metà del XVII secolo. Se i pensatori libertini non elaborarono un coerente corpo di dottrine, è pur vero che ebbero in comune l’interesse per alcuni temi e condivisero varie posizioni, soprattutto nel campo della critica della religione. Il libertinismo negò i dogmi del cristianesimo e la morale propugnata dalla Chiesa, considerando il credo religioso un’autentica impostura e giungendo persino all’irrisione nei confronti delle credenze tradizionali e alla blasfemia vera e propria. 
Sul piano della riflessione politica, i libertini accettarono il principio della «ragion di Stato», palesando una notevole vicinanza alle teorie di Niccolò Machiavelli. Tra coloro che manifestarono una particolare attenzione per le questioni relative all’organizzazione della vita pubblica, va segnalato il francese Gabriel Naudé, vissuto fra il 1600 e il 1653, autore di un’opera intitolata Considerazioni politiche sui colpi di stato, riproposta da Nino Aragno Editore a cura di Alessandro Piazzi ( pp. 304, euro 15). 
L’evento cruciale della vita di Naudé si verificò nel 1630: fu infatti in quell’anno che entrò al servizio del potente cardinale Guidi di Bagno, nunzio apostolico in Francia, che nel 1631 lo condusse al proprio seguito in Italia. Il trentenne intellettuale parigino venne così a trovarsi in una posizione sicuramente scomoda, in quanto costretto ad accettare una condizione subalterna e servile, ma nello stesso tempo poté far tesoro dell’opportunità di osservare da vicino gli intrighi e i maneggi della politica romana. 
Egli guardò questo universo con occhio disincantato e con ironico distacco: operava in lui quello spirito scettico che fu una delle caratteristiche del libertinismo. Morto nel luglio del 1641 il cardinale di Bagno, pochi mesi dopo Naudé tornò in patria, richiamato nientemeno che da Richelieu, che lo volle quale bibliotecario. 
Agli anni romani, e precisamente al 1639, risale la pubblicazione delle Considerazioni, ovviamente dedicate al cardinale di Bagno «mio ottimo e onorato patrono», contenenti le linee essenziali del pensiero politico naudeano, affidate a un argomentare non sempre chiaro e scorrevole. 
Memore dei giovanili studi di medicina, Naudé paragona i colpi di stato alle operazioni chirurgiche: al pari del medico, il politico può assecondare la natura oppure forzarla con interventi traumatici ma necessari per risolvere situazioni di grave pericolo per il bene pubblico. Il Nostro ha una visione realistica e pragmatica della politica ed è affascinato dagli arcana imperii, i segreti del potere, che ha regole proprie e non può farsi condizionare da valutazioni di carattere morale e giuridico. Certo, chi governa non deve abusare dei colpi di stato, che restano mezzi straordinari: per Naudé, se da una parte la politica è autonoma rispetto alla morale, dall'altra non può trasformarsi in sfogo della follia personale e in sistematico dispregio di ogni regola.


La via al potere che passa attraverso la prudenza
Storia. Il «Testamento» di Richelieu e le «Considerazioni politiche sui colpi di stato» di Gabriel Naudé

Antonella Del Prete Manifesto 24.4.2016, 18:50
Considerati dai contemporanei come discepoli di Machiavelli, l’uno per la spregiudicatezza della propria politica e l’altro per le teorie esposte nei suoi libri, il cardinale Richelieu e Gabriel Naudé sembrerebbero – a un primo sguardo – personalità segnate da un opposto destino: potentissimo primo ministro di Luigi XIII il primo, per quasi vent’anni protagonista assoluto della politica interna e estera della Francia, venne immortalato, fra l’altro, dalle pagine che Alexandre Dumas gli dedicò nei Tre Moschettieri; l’altro, invece, fu un oscuro segretario e bibliotecario di potenti, che delle fortune dei propri padroni sembrò sperimentare più le disgrazie che le glorie.
Li riportano alla attualità due preziose traduzioni curate da Alessandro Piazzi per Aragno – il Testamento politico Massime di Stato di Armand-Jean du Plessis cardinal de Richelieu (pp. 378, euro 22,00) e le Considerazioni politiche sui colpi di Stato di Gabriel Naudé (pp. 304, euro 15,00) – che dei due personaggi permettono di misurare affinità e divergenze.
La filiazione da Machiavelli (e dopo di lui, da Girolamo Cardano, Giusto Lipsio, Pierre Charron) si conferma come un importante legame tra i due testi, che mostrano come Richelieu e Naudé rientrino a pieno titolo in un movimento situato alla base della nascita dello Stato moderno: religione, morale e politica si separano e, entro certi limiti da un lato diventano autonome, dall’altro collaborano su basi diverse da quelle che avevano caratterizzato la cristianità medievale.
La virtù del politico diventa la prudenza, intesa come capacità di valutare prontamente il da farsi, cogliere le occasioni e non arretrare di fronte a iniziative che infrangono abitudini e leggi, se questo si rende necessario alla salute/salvezza dello Stato. La prudenza non ha più un nesso necessario con il bene, come voleva la filosofia scolastica, ma è una qualità operativa e strumentale, «una virtù morale e politica – scrive Naudé – che non ha altro scopo se non quello di ricercare le diverse scappatoie e i migliori e più accessibili espedienti per trattare e portare a buon fine gli affari che l’uomo si propone».
La dottrina dei colpi di Stato, tuttavia, occupa una parte ristretta di questa più ampia pratica della prudenza: tra questi, infatti, non vanno contate tutte quelle azioni che rispondono alle norme generali stabilite dai teorici della politica e dai giuristi, perché solo gli arcana imperii, ossia i segreti di Stato, possono aspirare a essere definiti tali. E un segreto non è ascrivibile a una norma generale, né è deciso da organismi composti da molti membri: «Sarebbe stato certamente curioso se Carlo IX avesse deliberato la Saint-Barhélémy con tutti i consiglieri del suo parlamento, e se Enrico III avesse deciso la morte del duca di Guisa in una seduta del suo consiglio», scrive ancora Naudé.
Nei trattati di filosofia politica bisogna dunque distinguere tre diversi tipi di oggetti: da un lato c’è la scienza della fondazione e della conservazione dello Stato, dall’altro troviamo le massime, ossia quei comportamenti che non si fondano sul diritto delle genti, naturale o civile, ma solo sulla considerazione del bene e dell’utilità pubblica. I colpi di Stato propriamente detti, infine, esulano dal diritto comune, come le massime, ma hanno in più la caratteristica di non essere una legittimazione dell’azione, bensì l’azione stessa, così rapida e inattesa che si può dire di aver visto il fulmine prima di udire il brontolio del tuono.
Le massime e i colpi di Stato quindi si distinguono non per una maggiore o minore fedeltà all’equità e alla giustizia, al bene e all’utilità pubblica, ma per la forma della loro attuazione: l’esecuzione di Louis de Luxembourg, conte di Saint-Paul sotto Luigi XI rientra nel primo gruppo, perché fu il risultato di un regolare processo; quella di Concino Concini, decisa da Luigi XIII, rientra nel secondo.
Pur potendo ascriversi allo stesso fenomeno, la diffusione del pensiero di Machiavelli, le Considérations di Naudé e il Testament di Richelieu non sono però perfettamente sovrapponibili. Il cardinale si propone infatti uno scopo diverso: vuole elargire consigli che possano applicarsi all’agire quotidiano dei sovrani, e non siano diretti esclusivamente a governare eventi per certi versi eccezionali. Non solo: il suo testo prende programmaticamente in considerazione i fondamenti e le strutture portanti dello Stato – l’esercito, le finanze, gli apparati statali, i ceti che compongono la società –, non quanto avviene in momenti particolari, ben delimitati nel tempo e nello spazio. Al centro del suo interesse sta la natura della sovranità e le condizioni del suo esercizio, non la pianificazione e la gestione dei momenti di svolta nella vita del potere.
A questa differenza, che riguarda l’oggetto del testo, se ne sovrappone un’altra di natura filosofica. L’appello a Dio e alla ragione nel Testamento non è una semplice concessione alle attese del pubblico o, peggio, un tentativo di giustificare una condotta politica che i contemporanei consideravano troppo spregiudicata. Occupandosi non di uno stato di eccezione, bensì della costituzione normale del potere sovrano, Richelieu infatti non ha bisogno di romperne la concezione tradizionale: la sovranità viene da Dio, e a Dio risponde; la ragione (non la passione, e nemmeno l’autorità) deve essere la guida dell’agire politico, perché siamo esseri razionali.
Se il cardinale non abbandona le strutture tradizionali del pensiero politico e non si avventura in una fondazione totalmente secolarizzata del potere, mostra tuttavia come queste stesse strutture possano essere modellate dall’interno per servire non più l’ideale di una christianitas in cui i sovrani si inseriscono in un complesso sistema di vassallaggio, che culmina nel predominio del potere papale, ma quello di un potere sovrano certamente non secolarizzato, ma ormai responsabile solo e unicamente nei confronti del proprio popolo. Non stupisce, per fare un esempio, che chi ha messo sotto assedio La Rochelle, per eliminare la resistenza ugonotta al re, affermi che «I Principi sono obbligati a stabilire il vero culto di Dio e a bandirne le false apparenze, che sono molto pregiudizievoli per lo Stato». È più inatteso invece il fatto che questo obbligo alla conversione sia accompagnato da un invito alla ragionevolezza, alla prudenza e alla gradualità.
L’invito spiega bene perché Richelieu, una volta piegata la ribellione ugonotta capeggiata da grandi famiglie nobiliari, non abbia avuto nulla in contrario a tollerare il culto calvinista: come se il problema autentico non fosse la difesa della vera fede, ma il rafforzamento del potere regale rispetto alle autonomie nobiliari. Non è soltanto una questione di cinico tatticismo: le scelte di Richelieu si spiegano solo tenendo a mente come la religione non sia tanto, per lui, una convinzione personale del credente, quanto un potente collante della società, e perciò rientra dunque a pieno titolo – come le finanze, gli eserciti, i ceti – tra quegli elementi che i re devono saper maneggiare saggiamente in quanto strumenti di governo.
L’universo di religioso del Testamento di Richelieu è cristiano, ma queste stesse considerazioni potrebbero essere state sottoscritte da Naudé, che usava la sua grande familiarità con i classici latini e greci per mostrare quanto la religione potesse funzionare, anzi essere indispensabile, al consolidamento del potere politico.

Golpe, l’ultima tentazione del Principe 
Dalla Bibbia a Malaparte: fenomenologia di un eterno espediente del potere La democrazia ha vinto Ma lo Stato di diritto resta un nemico per le destre
EZIO MAURO Restampa 10 5 2016
IN PRINCIPIO, naturalmente, c’era il Regno dei Cieli. Ma subito sotto, il primo re nel mondo degli uomini fu Nemrod figlio di Cus che era figlio di Cam, uno dei tre figli di Noè. Lui, gran cacciatore al cospetto del Signore, «fu il primo a esercitare il potere sopra la terra» e il suo regno cominciò a Babel e proseguì in Assiria, dove costruì Ninive e la città grande di Resen. Nelle stesse pagine sacre della Bibbia insieme con il nome del primo sovrano è iscritto il primo colpo di Stato che fu di un figlio contro un padre, quando Assalonne si ribellò al re Davide, lo costrinse a fuggire da Gerusalemme piangendo a piedi nudi con il capo velato, seguito dai familiari con tutti i leviti che portavano l’Arca di Dio: finché in battaglia nella foresta di Efrain l’esercito ribelle fu sconfitto e tre giavellotti colpirono nel cuore Assalonne, uccidendo il primo golpista della storia.
Più che con un “putsch” nel senso classico del termine, dopo il diluvio il mondo della politica cominciò così con un’”intentona”, come in Sudamerica chiamano i golpe falliti. La storia politica dell’umanità è dunque segnata fin dal suo inizio dal sangue versato per rovesciare il sovrano o per difenderlo perché il comando — dalle tribù agli Stati — porta da sempre con sé il volto demoniaco.
SEGUE ALLE PAGINE 48 E 49
Ovvero il lato oscuro di quel trono che si mostra in pubblico ai sudditi illuminato dai bracieri e profumato dagli incensi. In quell’oscurità degli “arcana imperii” si muovono trame, congiure, tradimenti, complotti, giuramenti e presagi, insieme con le ambizioni, le paure, le ribellioni che nei millenni hanno agitato i Principi e il popolo portandoli a temere e concepire il colpo di Stato, strumento comune di lotta politica in ogni era e a ogni latitudine, ben prima che nascesse il concetto stesso di Stato nel senso moderno del termine.
Esattamente, infatti, il colpo di Stato è «un’azione ardita e straordinaria che i principi sono costretti a mettere in pratica per affari senza via d’uscita, con–
tro il diritto comune e senza tener conto di alcun ordine né forma di giustizia». La diagnosi è del bibliotecario di Richelieu e Mazarino, Gabriel Naudé, che nel 1639 pubblica in dodici esemplari le Considerazioni politiche sui colpi di Stato, un’analisi erudita e libertina degli strumenti eccezionali usati in circostanze particolari per difendere nel sangue il trono o per abbatterlo.
Naudé scrive un secolo dopo il Principe e alla fenomenologia delle congiure di Machiavelli oppone una vera e propria teoria del golpismo, in particolare di quello che si chiamerà poi l’”autogolpe”, cioè l’atto di forza compiuto dal potere sovrano per salvaguardare se stesso. Una teoria completa e sorprendente, che si apre col consiglio di San Tommaso ai tiranni (uccidere i ricchi, i potenti e i sapienti, non permettere scuole e conoscenza, creare scompiglio nel popolo, rendere poveri i sudditi, diffidare degli amici) e finisce con un vero e proprio manuale per l’uso del colpo di mano, dall’individuazione dei congiurati alla tempistica, all’inganno: «La più grande virtù che regna nelle corti è diffidare di tutti e dissimulare con ciascuno».
Le Considerazioni abbondano di esempi storici che raccontano come il “colpo” sia stato per secoli una risorsa politica comune, che non occorreva né spiegare né giustificare: quando Periandro, tiranno di Corinto, chiede come rendere sicuro il suo regno a Trasibulo, tiranno di Milito, quest’ultimo senza parlare va nel campo e tronca le spighe più alte: Poliandro capisce e fa uccidere i cittadini più illustri di Corinto. Ma spesso il potere e il contropotere insieme con la spada si servono del sacro, fingendo di essersi assicurati il favore del Cielo con inganni, visioni e superstizioni, con Silla che illustra il sostegno di Apollo alle sue azioni, Sertorio che riceve dalla sua cerva il racconto di ciò che si decide nel cenacolo degli dei, Carlomagno che entra in Spagna con la grande chiave caduta dalle mani di un vecchio idolo, come voleva la profezia. Tutte le monarchie, dice Naudé, hanno preso avvio da qualche espediente o soperchieria, «facendo marciare la religione e il miracolo in testa a un lungo seguito di barbarie e di crudeltà ».
D’altra parte, nei “coups d’Etat” è bene che tutto si faccia «di notte, all’oscuro, tra le nebbie e le tenebre » pregando la dea Laverna di coprire col buio i peccati dei congiurati, occultando le loro frodi. Si deve sentir «cadere il fulmine prima di udire il brontolio del tuono», scegliendo i mezzi più facili, svelando il piano ai congiurati solo all’ultimo, manipolando intanto il popolo con predicatori o libelli clandestini, in modo «da condurlo per il naso» dove si vuole, diffidando sempre perché il popolo è incostante è variabile, continuamente pronto a approvare e disapprovare insieme, a mormorare, a credere con leggerezza e lamentarsi all’improvviso. Ai congiurati servono «fortezza, giustizia, prudenza», per sfruttare le minime occasioni propizie, come Druso che riuscì a soffocare una rivolta delle legioni in Pannonia usando lo sconcerto provocato da un’eclissi di luna.
Inganno, sangue, frode. E qui le Considerazioni sfiorano e citano la teorizzazione di Giovanni Botero, che nel 1589, mentre lavora da ex gesuita alla Congregazione dell’Indice nella Curia romana si domanda per primo cosa sia la ragion di Stato e risponde che «è notizia di mezzi atti a fondare, conservare e ampliare un dominio fermo sopra popoli». Siamo alle soglie della moderna realpolitik, esasperata dalla violenza tipica dei colpi di Stato: la strada di chi detiene il potere — dice infatti il bibliotecario di Richelieu — «è più larga e più libera» di quella dei sudditi a causa della responsabilità che pesa sulle sue spalle. Per questo il sovrano può marciare con passo sbilenco e irregolare, perché «talvolta occorre che nasconda e deformi». È la teorizzazione della possibilità di trasgredire il diritto comune per il cosiddetto bene comune, valutato spesso a posteriori, da chi ha vinto. È quasi la teorizzazione dello “stato d’eccezione” di Carl Schmitt (il sovrano non è il garante dell’ordinamento ma colui che lo crea a partire dall’eccezione), con Naudé che ammette interventi straordinari fuori dal «diritto delle genti» e dalle leggi ordinarie per un interesse pubblico supremo. D’altra parte, spiega con lo scetticismo dei libertini, bisogna spesso servirsi «di una giustizia artificiale, politica, rapportata al bisogno dei governi, perché essa è abbastanza cedevole e molle da sapersi adattare».
Ci vuole teoria, sembra dire Naudé, dunque studio e scienza per un buon golpe. Ci vuole soprattutto metodo, risponderà nel 1931 Curzio Malaparte, nel suo insuperato Tecnica del colpo di Stato (Adelphi), proibito all’uscita da Mussolini e da tutte le dittature europee. Il problema della conquista e della difesa dello Stato moderno non è un problema politico ma squisitamente tecnico, dice Malaparte, un’arte specifica che non dipende dalle condizioni generali del Paese come credeva Lenin ma dalla capacità di organizzare l’insurrezione, come capì Trotsky, che infatti mentre Kerenskij difendeva i palazzi di Stato infiltrò con le sue “esercitazioni invisibili” le guardie rosse nei gangli dei servizi tecnici di Pietrogrado, dalle stazioni alle centrali dei telefoni, ai gasometri, ai telegrafi, collassando la città prima del governo. Il puro contrasto militare, come anche l’attacco di massa, non funzionano più: gli Stati si rovesciano e si difendono con una tecnica specifica che ogni dittatore aggiorna a se stesso, con Napoleone che pretende di compiere con la forza delle armi una rivoluzione parlamentare, Mussolini che si impadronisce dello Stato «molto prima dell’entrata delle camicie nere nella capitale» con una tecnica rivoluzionaria violenta che in tre anni porta il fascismo a fare il vuoto intorno a sé cancellando ogni forza organizzata politica o sindacale, proletaria o borghese.
Gli Stati dunque non si salvano e non si perdono con la tattica fondata sui sistemi di polizia, con i quali Cicerone sventò la congiura di Catilina. E in ogni caso conviene tener presente l’ammonimento di Machiavelli, per cui la congiura è «difficile e pericolosissima in ogni sua parte, donde ne nasce che molte se ne tentano e pochissime hanno il fine desiderato ». Si capisce il vincolo quasi sacro che unisce per la vita e per la morte i congiurati, con Catilina che nel racconto di Sallustio «fece girare delle tazze con dentro sangue umano misto a vino» e solo quando tutti ebbero bevuto svelò il suo piano, dopo l’”exsecrationem” rituale con cui si maledicevano i traditori. Il segreto resta il fondamento della congiura, a differenza del mistero e dell’occulto in cui affonda invece il complotto, secondo la distinzione di Alessandro Campi e Leonardo Varasano in Congiure e complotti. Da Machiavelli a Beppe Grillo (Rubbettino) per cui i colpi di Stato avvengono nella storia, con soggetti definiti e individuabili, mentre le cospirazioni complottistiche sono teorie e costruzioni astratte con soggetti indefiniti e entità misteriose. Una distinzione intellettualmente convincente, se non fosse che lo specifico del nostro Paese presenta una storia in cui abbondano negli snodi criminali proprio quei “soggetti indefiniti” e quelle “entità misteriose”, di cui spesso conosciamo solo le sigle e la ragione sociale eversiva, in debito come siamo di verità.
Verrebbe da concludere che nella parte di mondo in cui viviamo la democrazia ha vinto e nessuno pensa più ai colpi di Stato. Ma se guardiamo oggi all’Europa di mezzo, vediamo che la nuova destra considera proprio i valori liberali dello Stato di diritto i principali avversari, non i valori giacobini. E ovunque, in Occidente, la democrazia esausta rischia di ricordare quelle conchiglie di spiaggia perfette nella loro forma esterna, mentre all’interno l’organismo sta morendo. D’altra parte proprio l’uomo di Richelieu ci ricorda che «le leggi ci perdonano i delitti che la forza ci obbliga a commettere». E non consola nemmeno pensare che c’è poca forza oggi nella politica occidentale, manca una leadership capace di concepire l’inconcepibile in democrazia. Perché vale sempre il monito di Malaparte: le risorse della mediocrità sono inesauribili.
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