lunedì 4 aprile 2016

La crisi mortale della Cgil ha una lunga storia


Risultati immagini per trentin cgilLa sfida di un sindacalismo senza legami con i partiti
di Marco Cianca Corriere 4.4.16
Maggio 1952. A Roma i partiti si mobilitano per le elezioni comunali. La capitale è teatro del tentativo, promosso da settori del mondo cattolico e visto di buon occhio dalla Santa Sede, di dare vita ad una lista guidata da don Luigi Sturzo, il fondatore del Partito popolare. Un blocco d’ordine, aperto a missini e monarchici, che in nome dei valori tradizionali Dio-Patria-Famiglia faccia da diga all’avanzata della sinistra nella città eterna: «Un contraltare al Vaticano e al Quirinale non può essere elevato in Campidoglio». Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio, si oppone a questa virata a destra della Democrazia cristiana temendo la rottura con gli alleati laici (repubblicani, liberali, socialdemocratici). L’operazione fallisce. Sull’altro fronte socialisti e comunisti hanno dato vita a una lista unitaria cittadina guidata dal vecchio liberale Francesco Saverio Nitti. Tra i candidati Giuseppe Di Vittorio, il capo della Cgil. Si va al voto. Non c’è Sturzo ma il Campidoglio, titola il Popolo, resta «nelle mani dei difensori della democrazia e della fede». La lista di sinistra ottiene però un notevole successo (oltre il 33 per cento dei voti) e Di Vittorio raggiunge il più alto numero di preferenze, 69.533, distanziando il sindaco uscente Salvatore Rebecchini.
Aprile 1956. Tra un mese si vota di nuovo. Di Vittorio, che tanto si è speso in consiglio comunale nonostante il gravoso impegno di sindacalista e di parlamentare e le non buone condizioni fisiche, ritiene che sarà messo capolista, visto il successo precedente e la sua capacità di attrarre voti come sigillo di garanzia per le classi lavoratrici. Ma così non è. Lo fanno precedere da Aldo Natoli e da Edoardo D’Onofrio. Il segretario generale della Cgil, amareggiato e umiliato, protesta, scrive ai dirigenti del Pci, parla di «metodo caporalesco e burocratico», teme di essere screditato, lui e il sindacato che guida. Chiede di farsi da parte, di ritirare la sua candidatura. Alla fine gli risponde Palmiro Togliatti, con una lettera breve e sferzante nella quale gli dice che avrebbe fatto meglio a non lamentarsi. A Di Vittorio non resta che piegarsi a quello che lui stesso definisce il «dovere di obbedire» alla ragione di partito. Morirà l’anno successivo, pieno di dolore e di delusione, piegato dal nuovo scontro con il Migliore sui fatti d’Ungheria.
Altri uomini, altre tempre. Vicende raccontate da due storici (Ilaria Romeo e Giuseppe Sircana, Una questione capitale , Ediesse) in un libro che sembra venire da un pianeta lontano. Oggi non è nemmeno pensabile che Matteo Renzi obblighi Susanna Camusso a scendere nell’agone politico per attrarre voti a sinistra. Il Pd non è il Pci e la Cgil dagli anni Cinquanta ha mutato pelle e sostanza.
La cinghia di trasmissione tra il partito e il sindacato è rotta da tempo. Vale la pena di ricordare che fu proprio Di Vittorio a chiedere il superamento di questa concezione ancillare durante l’ottavo congresso del partito comunista (dicembre 1956). Ci vollero altri anni prima che l’autonomia della Cgil diventasse un valore acclarato. Con alti e bassi. Decisiva la spinta negli anni Sessanta delle lotte in fabbrica, la federazione unitaria dei metalmeccanici, l’autunno caldo del ‘69, la scelta dell’incompatibilità tra dirigenza sindacale e incarichi parlamentari.
Nella prima metà degli anni Ottanta il cammino dell’autonomia andò a sbattere contro il decreto San Valentino (14 febbraio 1984) che tagliava quattro punti di scala mobile e la decisione del Pci di indire un referendum abrogativo. Luciano Lama subì a malincuore questa scelta che portò alla rottura con Cisl e Uil e alla spaccatura della stessa Cgil, con la componente socialista favorevole alle decisioni del governo Craxi. L’esito fu una bruciante sconfitta. Il pomeriggio del 10 giugno 1985, quando dalle urne uscì la vittoria dei no all’abrogazione del decreto, lo stesso Lama amareggiato e preoccupato ripeteva ai cronisti presenti: «Aiutateci a ritessere la tela, non a stracciarla del tutto».
La tela di rapporti con gli altri sindacati fu ritessuta piano piano. Poi arrivò l’89, la caduta del muro di Berlino, Achille Occhetto che annuncia il cambio di nome del Pci. E la Cgil? «Noi non abbiamo alcun bisogno di cambiare nome, continuiamo ad essere noi stessi, senza doverci vergognare di alcunché», replicò a chi gli poneva la domanda Bruno Trentin, allora segretario generale, che al congresso di Rimini del ‘91 impose il superamento delle correnti politiche interne.
Trentin, di origine azionista e impregnato di cultura francese, inaugurò quella che per il più grande sindacato italiano doveva essere la stagione dei diritti. Un modo per uscire dalle secche del riflusso politico e per indicare una strada di lungo corso. Che arriva fino ad oggi: l’ultimo direttivo della confederazione, il 22 marzo, ha deciso di avviare dal 9 aprile la raccolta di firme per la presentazione di una proposta di legge contenente la «carta dei diritti universali del lavoro». Ma verranno anche lanciati tre referendum che vanno ad impattare il Jobs act. Una sfida al governo, manna per il segretario della Fiom Maurizio Landini che cerca di tirare la coperta sindacale il più a sinistra possibile.
E così durante la campagna per le elezioni amministrative i banchetti della Cgil toglieranno un po’ di attenzione alle piazze dei candidati. Un tempo le camere del lavoro erano un volano formidabile per la raccolta dei consensi elettorali, come fu per Di Vittorio. Ora tutti in ordine sparso. Nella segreteria della Cgil non risultano iscritti al Pd. Lo scontro tra Susanna Camusso e Matteo Renzi assume forme diverse da quelli tra Di Vittorio e Togliatti, tra Lama e Berlinguer, tra Cofferati e D’Alema. L’autonomia sembra a tutto tondo. Resta da chiarire se l’assenza di legami con i partiti comporti la scomparsa dal dibattito politico. Rischia di essere un silenzio assordante. Ha detto Vittorio Foa: «Liberiamoci dalle residue illusioni sull’efficacia di un sindacalismo che non parla di politica».

È Nuit Debout, in place de la République
Oggi nuove manifestazioni dei giovani. Il governo ha paura Il movimento Nuit Debout ha raggiunto altre 23 città di Anna Maria Merlo il manifesto 9.4.16
PARIGI Ieri era il 39 marzo in place de la République. Nuit Debout, il movimento che si è manifestato nella piazza parigina il 31 marzo scorso (e che da allora conta i giorni con un nuovo calendario), che è nato in realtà il 23 febbraio alla fine di una serata alla Bourse du Travail, è alla vigilia di un giorno importante: oggi, ci saranno di nuovo numerosi cortei in Francia contro la riforma del lavoro, liceali e studenti in testa, ma con la partecipazione anche di alcuni sindacati (che hanno già previsto un’altra giornata di lotta a fine mese). C’è una prima vittoria: l’idea era di “uscire da place de la République”, portare il progetto della “convergenza delle lotte” fuori da questo luogo simbolico. Già in 23 città francesi di provincia ci sono delle Nuit Debout, iniziativa sbarcata ormai anche a Bruxelles. Attorno ai licei di banlieue ci sono stati ieri momenti di tensione, finiti con 38 fermi.
Hollande e il governo sono preoccupati. Lunedi’ i sindacati degli studenti e dei liceali saranno ricevuti a Matignon, sede del primo ministro. Giovedi’ ci sono stati incontri con la ministra dell’Educazione nazionale, Najat Vallaud-Belkacem, la responsabile del Lavoro, Myriam El Khomri, che ha dato il nome alla legge contestata, e della Gioventù, Patrick Kanner, ma è stato un dialogo tra sordi. Le organizzazioni chiedono misure concrete contro “il precariato dei giovani”, ma il governo risponde che sono già state fatte molte cose, tra riforma della scuola, assunzione di insegnanti, 250mila “impieghi d’avvenire”, “garanzia giovani” ecc., per attuare una delle principali promesse di Hollande, fare dei giovani la “priorità” del quinquennato. Il governo puo’ ritoccare ancora i dispositivi in atto, ma non ci sono segnali per un reale cambio di marcia.
Cosi’, giorno dopo giorno, la protesta si organizza. Rémy Buisine, un community manager, continua a filmare e passare sull’applicazione Periscope quello che succede a place de la République. Ormai c’è anche una radio, che trasmette la parola di chi protesta (giovedi’ molto tempo è stato dato ai migranti). Le reti sociali svolgono un ruolo importante. L’economista Frédéric Lordon, che scrive su Le Monde Diplomatique, segue da vicino il movimento, partecipa alle assemblee. Ma non c’è un leader, anche se alcune personalità sono più impegnate di altre, alcuni sono militanti del Front de Gauche o di formazioni della sinistra della sinistra. Alcuni politici hanno già messo il naso in piazza (è venuto persino il segretario Ps, Jean-Christophe Cambadelis, c’è stato Pierre Laurent del Pcf), Jean-Luc Mélenchon spera di “farsi recuperare” dai militanti (pensando alle presidenziali 2017).
“La legge lavoro è la goccia che ha fatto traboccare il vaso”, spiega Benjamin, della Boite militante. “La legge lavoro cristallizza i problemi, oggi la situazione è matura”, conferma un militante di Podemos, gli spagnoli sono tra i principali consiglieri a Place de la République. Di “convergenza delle lotte” aveva parlato il regista-giornalista François Ruffin, caporedattore della rivista Fakir e autore del documentario Merci patron! (che incastra Bernard Arnault, pdg del gruppo di lusso Lvmh). Bisogna “far loro paura”, afferma Ruffin. Per il momento, ad aver paura è soprattutto il governo, mentre il padronato ignora il movimento e continua a fare pressione per arrivare all’approvazione definitiva della legge El Khomri (la piccola e media impresa ha ottenuto, grazie a un emendamento, una ancora più grande facilità di licenziare in caso di difficoltà economiche).
Il comune di Parigi adotta la mano leggera. Il Dal (Droit au logement, Diritto alla casa), Attac e Sud-Solidaires hanno presentato una regolare domanda di autorizzazione per occupare la piazza. Ma al mattino, la polizia interviene regolarmente, sgomberando il materiale. “La polizia viene ogni giorno a sloggiarci – spiega una ragazza – non sappiamo dove immagazzinare le cose, ma dobbiamo tenere la piazza, siamo abbastanza numerosi per farlo”. Ogni giorno ci sono discussioni, assemblee. L’organizzazione avviene in diverse “commissioni” (mensa, musica, coordinamento, azione, logistica ecc.), il modello sono gli Occupy della California. Su una lavagna sono segnate le “iniziative collettive” per la convergenza delle lotte. “Il movimento si amplifica” constata un militante del Dal, “prenderà una svolta politica? Non ci sono leader, ma dei militanti che emergono”. Contro la deriva a destra del governo, contro una democrazia “negata”, per “un altro sistema”, Nuit Debout, spiega uno spagnolo, vuole “attirare i saperi”, anche se, aggiunge un ragazzo, “non vogliamo definirci troppo rapidamente”.
Ieri, alla Défense c’è stata una manifestazione europea con lavoratori anche dall’Italia, della General Electric, che ha in programma 6500 licenziamenti in Europa, in nome del recupero della “competitività”. 

Nessun commento: