venerdì 15 aprile 2016

Musica d'ambiente: filosofia e discipline umanistiche come consolazione edificante e ristoro nel modello neoliberale del rapporto tra sapere e lavoro: un esperimento


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Non aggiornamento professionale ma "humanities". Dalla psicologia alla storia in un'azienda friulana oeprai e impiegati a lezione con i docenti di Trieste
Mario Baudino  Busiarda 14 4 2016
Ore 17,30, fine dell’orario di lavoro. Fra scaffalature multicolori che paiono la scenografia di uno spettacolo teatrale, un docente di linguistica italiana legge pagine di Volponi, Bianciardi, Primo Levi, Ottieri a un pubblico di «colletti bianchi», ingegneri e impiegati della Modulblock, fabbrica friulana di scaffalature industriali, con due stabilimenti in zona e 130 addetti. Siamo nella sede di Pagnacco, ma in altri giorni qualcosa di simile accade a Amaro, dove la maggioranza dell’uditorio è composta invece da operai.
Il programma è fitto, e andrà avanti per un bel po’. Sei ricercatori dell’Università di Trieste (Dipartimento di studi umanistici) e un’impresa «illuminata», da sempre molto attenta alla formazione, stanno realizzando un esperimento che per molti versi è totalmente nuovo: portare le «humanities», gli studi umanistici, fuori dall’accademia, e andare direttamente sui luoghi di lavoro. Non è facile come sembra; e non è così scontato, tant’è vero che fino ad ora si è riusciti semmai a «aprire» le università alla formazione permanente, coinvolgendo gli adulti, ma in sedi accademiche o «neutre».
Organizzare in fabbrica le lezioni - lezioni molto particolari - comporta anche problemi logistici che interferiscono con l’organizzazione del lavoro. Va inoltre considerato che questi, sottolinea lo psicologo Matteo Cornacchia, capofila dell’esperimento, non sono corsi di formazione come tutti gli altri, ormai abituali e utilissimi, che però hanno funzioni diverse. Si tratta sì di formazione, ma «formazione umana». Viene trasmesso qualcosa che l’economia di mercato tende a considerare inutile o superfluo. Si risponde a bisogni culturali soffocati, quelli che emergono magari nei festival o nei numeri dei frequentatori delle mostre.
Fra Pagnacco e Amaro il risultato è stato addirittura sorprendente: metà dei dipendenti hanno aderito con entusiasmo (trenta colletti bianchi e quaranta colletti blu, ovvero la maggioranza degli operai), tanto che, da sette incontri previsti, si è arrivati a 14. Viene osservato il normale orario di lavoro, e poi alle 17 ci si dà appuntamento. Ad Amaro, dove i turni sono diversi, gli addetti alla verniciatura sospendono l’attività, per riprenderla a incontro terminato. In questo caso «staccano» due ore di ferie, come ricorda il direttore logistico, Fulvio Fregonese, che fin da subito aveva molto creduto nel progetto, insieme col direttore dello stabilimento di Amaro, Mario Di Nucci.
Il proprietario della Modulblock, azienda che pure ha ormai una tradizione consolidata nel campo del cosiddetto lean thinking, il «pensare snello» per migliorare l’organizzazione del lavoro, chiese invece una verifica prima di dare il via libera. Ora Mario Savio ammette di essere stato, sulle prime, troppo «incredulo». «Avevo posto come condizione che ci fossero almeno venti partecipanti. Come vede, sono stato travolto. E sono entusiasta. Scoprire una grande volontà di sapere all’interno della propria azienda è la più grande ambizione di un imprenditore».
Le motivazioni sono varie, com’è naturale. C’è la semplice curiosità, magari il gusto, come confessa un operaio, di capire come lavorano gli insegnanti di sua figlia, iscritta all’Università di Trieste, o la scoperta di una vocazione conculcata («Non vedo l’ora di andare in pensione - dice un partecipante - per potermi iscrivere a Lettere e laurearmi in storia»): ma soprattutto il desiderio di «mettere in prospettiva». Dopo la «lezione» di Fabio Romanini, che ha usato la nostra «letteratura industriale» per ripercorrere i momenti della vita in azienda, Leonardo Loppi, giovane geometra, mi dice che tutto questo gli è utile per guardare con una cornice più larga alla sua esperienza personale, per arricchire il senso dei gesti quotidiani.
I sei di Trieste hanno puntato su lezioni che non siano accademiche, e neppure banalmente divulgative, ma che mettano insieme la conoscenza, l’esperienza e l’autobiografia, in altre parole un percorso nella conoscenza. Si tratta di narrare al di là degli schemi scolastici, arrivare insieme all’uditorio alla scoperta «che i saperi umanistici sono interessanti», come mi dice Matteo Cornacchia. «L’Accademia ha molti meriti, ma si è chiusa in se stessa - aggiunge l’anglista Laura Pelaschiar - è ora di uscire e parlare con la gente, trovando un nuovo linguaggio». 
Gli altri membri di quella che per il momento è una spedizione, forse avventurosa, in territori sorprendenti, sono uno storico del teatro (Paolo Quazzolo), un giovanissimo filosofo del linguaggio, (Paolo Labinaz), una storica contemporanea (Tullia Catalan). Credono nella «terza missione» dell’Università (ovvero il mettere a disposizione della società i risultati di ricerca e servizi), hanno trovato un’azienda disposta a scommettere.
Già, ma perché lo fate, chiedo al direttore. Per voi è comunque un impegno. «Per il benessere del personale» risponde Fabio Fregonese. E perché non aumentare invece lo stipendio? «Innanzi tutto, non ce l’hanno chiesto. E poi perché questo lo realizziamo tutti insieme, fidandoci e affidandoci. Indirettamente, fa anche bene all’azienda, oltre che alle persone». Sono le sette e mezza, lezione finita. I partecipanti hanno appena consegnano i biglietti, su cui hanno scritto come richiesto dallo psicologo tre parole per definire le loro reazioni. Le più frequenti indicano sorpresa ed emozione. Tra gli scaffali si brinda con prosecco.  BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI


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