domenica 24 aprile 2016

Pitrè e le storie di Sicilia

L’ape che punge i sogni 
Scaffale. A cent’anni dalla morte di Giuseppe Pitrè, Donzelli torna sulla sua figura di studioso. E presenta le storie siciliane che si erano aggiunte alle trecento leggende popolari pubblicate in un corpus di quattro volumi nel 1875 
Fabrizio Scrivano Manifesto 29.4.2016, 0:10 
La parola che affiora alle labbra andando a curiosare nella vita e nell’opera di Giuseppe Pitrè è «miracoloso», anche se si ha una fiducia grande nelle forze naturali dell’uomo.
Questo leggendario studioso palermitano (1841-1916), nato in una famiglia di marinai o di pescatori, svolgeva la professione di medico e con quella si era guadagnato la fama di amico dei poveri. Sembra che fosse amatissimo dai suoi concittadini, tanto che gli venne proposta più volte la carica di sindaco, che lui rifiutò benché sedette nel Consiglio comunale, e per meriti fu infine nominato senatore del Regno. I motivi di queste onorificenze si devono tanto alla sua compassione quanto alla dedizione nello studio e nella tutela della cultura siciliana, soprattutto quella popolare. Per la maggior parte si deve a lui, e alla collaborazione con Salomone Marino (1847-1916), compagno di ricerche e cofondatore dell’«Archivio per lo studio delle tradizioni popolari» nel 1882, la conoscenza del patrimonio immateriale siciliano, così come si manifestò in quei cinquant’anni circa di indagini, dal 1870 fino alla Grande Guerra. E a lui si deve pure la conservazione del patrimonio materiale, dato che nel 1909 fondò un museo con i millecinquecento oggetti che aveva collezionato. 
La comunità senza più segreti
Non si può proprio tralasciare di menzionare alcune sue opere di storico e di linguista, come la Grammatica siciliana (1875), importante documento sulle varietà dialettali siciliane, o La vita in Palermo cento e più anni fa (1902), saggio amabilissimo nel quale racconta, e si potrebbe dire fotografa, le abitudini sociali della comunità palermitana.
Ma la sua opera maggiore sono i venticinque volumi della Biblioteca storica e letteraria di Sicilia, che raccoglie documenti e studi di ogni tipo riguardanti la demografia, il folklore, la cultura popolare, l’etnologia. Canti, poesia e versificazioni, fiabe e racconti, proverbi, spettacoli e feste, giochi dei bambini, usanze (tra cui l’analisi dei comportamenti mafiosi), credenze e superstizioni, rimedi medici popolari, indovinelli e scioglilingua, feste patronali, leggende, motti, pasquinate, tradizioni domestiche e familiari. Migliaia e migliaia di trascrizioni dalla cultura orale, con la scrupolosa annotazione di modalità, luoghi, fonti del prelievo, e con chiose comparative, non solo tra diverse versioni locali ma anche con quelle italiane ed europee. E poi saggi e studi, suoi e di altri. La mole di documentazione prodotta non ha quasi paragoni con altre attività simili. Per tutto questo lascito intellettuale ed editoriale, Pitrè si meritò due Edizioni nazionali delle opere, che permisero l’edizione di lavori rimasti inediti; una presieduta da Giovanni Gentile e dalla figlia Maria Pitrè, prevista in cinquanta volumi, e un’altra istituita nel 1985 e portata avanti fino al 2007 dal Centro internazionale di etnostoria, organizzata in sessanta tomi. Giuseppe Pitrè 
Una parte ragguardevole del repertorio della Biblioteca – cinque volumi – era già di per sé il risultato di un incredibile lavoro di trascrizione della narrazione orale del popolo siciliano. Pitrè, anche con l’aiuto di corrispondenti, aveva setacciato nei tre angoli dell’isola un mondo destinato alla silenziosa scomparsa e al rapido cambiamento; e da questa ricerca emergeva, selezionata, una vasta gamma di storie, che aveva raggruppato per tipologie e argomenti. Un tesoretto di narrazioni che non era mai stato tradotto in italiano in modo integrale, finché l’editore Donzelli e la Fondazione Sicilia non si sono incaricati dell’impresa. Già nel 2013 erano stati presentati i quattro volumi di Fiabe, novelle e racconti popolari e ora, proprio a cento anni dalla morte di Pitrè, esce il volume di Fiabe e leggende popolari siciliane (pp. XLVI-916, euro 45).
La traduzione, lo sottolinea Giovanni Puglisi nella prefazione, rende finalmente accessibile e condivisibile, sia in Italia sia all’estero, questo patrimonio narrativo. E la resa, curata da Bianca Lazzaro, risulta brillante ed efficace; forse perché estremamente fedele al lessico e rispettosa dell’ordito sintattico, è capace di riportare la lingua siciliana scelta da Pitrè a un italiano mediano e vario. Che è certamente quello di oggi e che tuttavia non indulge mai in forme gergali, tipiche del linguaggio dei grandi mezzi di comunicazione, forse l’insidia e la trappola più facile in cui inciampare. La lettura scorre piana e disinvolta, e il testo originale a fronte facilita chi volesse provare la lettura del siciliano. 
Come spiega Jack Zipes in una nota introduttiva al volume, Pitrè aveva ridotto la varietà delle parlate dell’isola al palermitano dell’epoca. Lo studioso ascoltava e faceva ascoltare, trascriveva e faceva trascrivere i racconti di un ventaglio largo e socialmente diversificato di voci. Non solo di «vergini di istruzione», come Pitrè stesso chiama gli analfabeti, ma anche di persone istruite; e, a volte, da fonti scritte. Bellissima la sua introduzione, e chiarissima nel dichiarare un indirizzo che si potrebbe definire sociolinguistico: come esiste una differenza profonda tra scritto e parlato, nella cultura orale è presente la stessa differenza tra il dire domestico e il raccontato. Quella del racconto è una lingua particolare rispetto alla versione quotidiana, così come il narrare costituisce un momento speciale della vita, per quanto possa essere frequente. Un’altra distinzione che suggerisce, senza però approfondire, è quella tra «raccontatori» e «novellaie», come se il genere portasse con sé un repertorio o forse uno stile. Fiabe incantate, storie di santi, racconti morali, novelle, racconti di fondazione di luoghi e monumenti, storie di animali, narrazioni che spiegano come si siano prodotti proverbi o modi di dire. Nelle sei serie che ordinano le leggende si trova di tutto, per grandi e piccini, per insipienti e per dotti, e qualsiasi tentativo di sintesi non può che rivelarsi parziale. 
Quel tesoro di gatto
Bellissima, ed esercitando questa arbitrarietà si potrebbe dire la più bella di tutte, è la storia 135. Due contadini se ne stanno stesi su un campo, uno dorme l’altro è sveglio. Questi vede uscire dal naso del compagno un’ape, che dopo un bel po’ vede rientrare nella narice. Quando l’altro si sveglia, racconta di aver sognato di essersene andato in giro; al che il primo, senza dire nulla, si convince che l’ape sia la mente dell’amico. Purtroppo nessuna spiegazione accompagna questo raccontino, intensamente visionario e poetico, che forse dà conto (non poteva essere altrimenti) di un’espressione comune che riguarda il vagare del pensiero.
La 156, intitolata La birbunazza!, è un’incredibile fiaba circolare che presenta una figura con una funzione narrativa ben conosciuta: il gatto che porta ricchezza, una sorta di variante del gatto con gli stivali. Il carattere di fiaba è dato anche dalla immotivazione degli ingranaggi narrativi, che rendono quasi impossibile una vera sintesi. Tutto parte da un gatto che di nascosto si mangia una minestra; per colpa sua, una bella fanciulla, la birbantona, entrerà in una vicenda che nei suoi vari episodi può risolversi nel bene o nel male, e che solo la sottile astuzia della ragazza, non priva di cinismo e crudeltà, farà superare, finché lo stesso felino non aiuterà la fanciulla a procurarsi una grande ricchezza che le permetterà di sposare il re. 
Magnifico il gruppo di racconti dedicati alla nascita di modi di dire, di motti e proverbi. Ricorda la giornata sesta del Decameron, in cui i novellatori hanno a tema i motti sagaci, e che in qualche modo poteva aver influenzato i criteri di ordinamento di Pitrè. In fondo, è sempre racconto orale la materia delle due raccolte. E cattura come un mistero la narrazione che ha la funzione di spiegare il linguaggio. Fa precipitare l’immagine di Sancho Panza del Don Quijote, che parlava solo per proverbi. Fa turbinare l’idea di un effetto comico che circola nei vari gesti narrativi. E associato al paragone istintivo con il libro eccezionale di Giambattista Basile, che da autore compose Lo Cunto de li Cunti, ci si può anche accorgere quanto sia labile la frontiera tra la grande letteratura e la narrazione popolare. Ma presi in questa vertigine, sta già girando a tutti la testa.


Un Ulisse sottomarino
Scaffale. «Cola Pesce e altre fiabe e leggende popolari siciliane», a cura di Bianca Lazzaro, per Donzelli. Nella raccolta, vengono proposte diciassette versioni della storia del ragazzo anfibio

Arianna Di Genova Manifesto 29.4.2016, 0:05
Nonostante un detto siciliano metta in guardia sulle insidie della vita dei naviganti («chi può andar per terra, non vada per mare», cui pò jiri pri terra nun vaja pri mari) una delle leggende più antiche e popolari dell’isola riguarda proprio uno strano essere acquatico: è un uomo mutante che acquista un corpo anfibio – metà umano metà pesce – probabilmente in seguito a una maledizione materna, ma ancor più grazie alla sua inesauribile curiosità e desiderio di esplorazione delle viscere sottomarine.
Cola Pesce, il ragazzo di Messina e tuffatore esperto che viene preso di mira da un re (Federico II o Ruggero?) affinché gli riporti notizie affidabili sulle fondamenta della Sicilia proprio lì dove l’acqua è più profonda, tra Scilla e Cariddi, affascinò con la sua baldanza eroica anche Benedetto Croce e poi Italo Calvino, che gli conferì un posto d’onore nella sua raccolta di fiabe italiane. Lo scrittore trascrisse una delle tante versioni del racconto che, secondo lo studioso Giuseppe Pitrè, ne contava almeno quaranta, con picchi di emigrazione a Napoli (ma Pitrè in questo caso contrastava Croce sulle presunte ascendenze partenopee di quel nuotatore ossessivo), Catania e pure in Francia.
Con la pubblicazione del libro Cola Pesce e altre fiabe e leggende popolari siciliane (Donzelli, illustrazioni di Fabian Negrin, a cura di Bianca Lazzaro, pp. 323, euro 30), che può viaggiare separatamente dall’altro volume di quasi mille pagine, si può disporre di ben diciassette «adattamenti». Pitrè, in calce ad ognuno di questi, rivela la fonte dei suoi affabulatori occasionali – marinai, pescatori, «novellaie» novantenni, contadini, compiendo un’operazione filologica raffinata e mantenendo un distacco intellettuale che non lo fa propendere per nessuna delle versioni raccolte.
Mito di fondazione (Cola Pesce, immergendosi, scoprirà che la Sicilia – o Messina, per sineddoche – è retta da tre colonne di cui una molto rovinata a causa di un fuoco sotterraneo), che funge da raccordo fra le forze della natura che incorniciano l’isola, l’Etna e il mare, la leggenda rovescia lo «spazio di conoscenza» greco di Ulisse per trascinarlo negli abissi. Cola Pesce risponderà a tutte le prove richieste dal suo sovrano: come un figlio di Poseidone che ha dimistichezza con i segreti del mare, tornerà a galla più volte riconsegnando oggetti simbolici, coppe d’oro, corone e anelli, ma poi sparirà, forse inghiottito da vortici e bocche fumanti. Al suo posto, riaffiorerà un bastone malconcio e carbonizzato, oppure un pugno di lenticchie, a seconda della scelta del raccontatore. Si dice che, un giorno, quando nel mondo non ci sarà più dolore, Cola Pesce uscirà in superficie, ormai certo che la Sicilia sia saldamente ancorata all’immaginario del suo stesso popolo.
I ripetuti tuffi tra le onde dello Stretto non significano comunque che il ragazzo subacqueo sia un patrimonio solo siciliano. Secondo Bianca Lazzaro, che ha trascritto in italiano l’oralità della tradizione popolare rimanendo fedele al suo ritmo e lessico, è una figura mediterranea, creatura mitologica che non disdegna le coste nord atlantiche.

Fiabe per voce siciliana caricate sul calesse del medico Pitrè 
Folklore. La trascrizione delle storie raccolte in «Cola Pesce e altre fiabe e leggende popolari » impedisce che vada smarrita la visionarietà intrinseca alla cultura orale
Milena Bernardi Alias Manifesto 15.5.2016, 6:00 
Un’ eco sorda e cadenzata accoglie il lettore che sfoglia le prime pagine di Cola Pesce e altre fiabe e leggende popolari siciliane (Donzelli, traduzione di Bianca Lazzaro, pp. XXIV-330, euro 30,00): viene dal rotolare del calesse di Giuseppe Pitrè, medico-etnografo siciliano che ogni giorno percorreva sentieri sassosi tra borghi rurali e quartieri della Palermo ottocentesca per assistere i suoi pazienti. Gente del popolo, da cui apprese la memoria e il sapere radicati nel patrimonio culturale della tradizione folklorica siciliana. Così, i pazienti di Pitrè, testimoni dell’immaginario dell’isola, diventarono assoluti protagonisti del suo incredibile e pionieristico lavoro di raccolta. 
Pitrè era un instancabile ascoltatore: delle voci che narrano fiabe, leggende e proverbi, intonando canti e declamando poesie, e delle chiacchiere sull’uscio che tramandavano antiche credenze circa magici medicamenti naturali per ogni malattia, ripassando il calendario di ricorrenze, feste e fiere. Visitava, curava, dava consigli e poi scriveva appunti rigorosi su piccoli quaderni in cui registrava quanto aveva appena udito e che si riprometteva di riascoltare. Saliva sul suo calesse – «il mio studio viaggiante» lo chiamava – e si immergeva nel mestiere dello studioso appassionato del folklore della sua terra: annotava l’atto affabulante della narratrice o del narratore orale e lo faceva con la perizia, la profondità e il rispetto per il testo che si addicono al filologo, aggiungendo l’attenzione speciale che alla fonte orale riserva la ricerca etnografica. Non intendeva smarrire, infatti, l’intensità espressiva e comunicativa che abita da sempre nell’efficacia della lingua siciliana, né la corporeità della narrazione che, congiunta a gesti densi di vocazione attorale, a sguardi che ammiccano al non detto svelando segrete allusioni, rende visibile la potenza immaginifica della storia detta «a voce». 
Connotate da uno spessore narrativo unico, le raccolte che Giuseppe Pitrè ha compilato nel corso della sua insaziabile ricerca, lunga una vita, sono confluiti in 25 volumi della «Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane» documentando una impresa iniziata intorno al 1870 e conclusa con la morte, nel 1916, di cui ricorre il centenario. Pitrè nomina scrupolosamente ogni fonte: a margine delle storie non manca mai di citare l’autore del racconto, o chi abbia contribuito a raccogliere quel testo offrendo uno spaccato di realtà che rende credibile l’autenticità della fonte: «Raccontata da Sara Barbiera, ragazza sui 30 anni, analfabeta, ai servigi della famiglia Crescenti»; oppure, «Raccontata da Giuseppa Todaro, venditrice di strutto, olio, sapone», e ancora, «Raccolta dal Sig. Avv. Pasquale Prestamburgo», e «Raccolta da me sui laghi di Ganzirri, in una gita al Faro». Mai approssimativo, Pitrè rimanda fedelmente agli autori orali, quasi sempre analfabeti, firmando i loro testi con la sua penna mentre, in altri casi, riconosce la collaborazione di amici complici dell’incessante e interminabile opera cui si è votato. 
Più frequentemente si ascoltano voci femminili ma non mancano quelle maschili, così come, pur prevalendo le donne anziane se ne incontrano di giovani. Tra le narratrici di Pitrè si impone la presenza di Agatuzza Messia, che Italo Calvino chiama «cucitrice di coltroni d’Inverno al Borgo», e prima ancora donna al servizio di casa Pitrè, bambinaia e forse balia dell’autore. Colei che, a sentire Pitrè «ha ripetuto al giovane le storielle che aveva raccontato al bambino». 
Raccontate come? Con l’immediatezza di chi ha interiorizzato la storia, il proverbio, la cantilena e la mette in scena con niente altro se non la forza del dialetto e l’agire del corpo che narra in perfetta sintonia con la voce da cui fluiscono parole-immagini. Così, in calce a una delle fiabe narrata dalla Messia, Il tignoso, il rognoso e il moccioso, compare una nota in cui Pitrè racconta che «la narratrice accompagnava con i gesti le parole dei tre: quando parlava il tignoso si grattava la testa con tutte e due le mani; alle parole del rognoso si grattava l’avambraccio sinistro con la destra; e per il moccioso, si strusciava l’indice destro sotto il naso». L’efficacia espressiva dell’oralità è oltremodo rappresentata dai tre ritratti resi con l’abilità del bozzetto che incarna il tipo teatrale, quasi fosse la recita del caratterista. Ma la pagina, come ben sapeva Pitrè, non può riprodurre l’ ampiezza comunicativa della narrazione orale nella sua componente umana, la parola scritta può solo testimoniare, stabilizzare il testo. 
Preserva e difende dalla perdita di quella visionarietà e quell’universo di segni e di simboli che compongono la cultura orale ma non può tradurne la dimensione fluttuante, mobile, modificabile e performativa; il flusso inarrestabile dell’oralità cade sulla pagina e vi trova un approdo ma la potenza dell’invenzione imprevista e propria di ogni narratrice e di ogni narratore deve, forzatamente, riepilogarsi in un registro linguistico che tende a sacrificare, per sua natura, la corporeità giocata nell’interazione tra chi narra e chi ascolta. 
Eppure, per merito della dedizione di Pitrè, gli stili del dire, dell’arte della pausa e del commento confidenziale con cui il narratore intermezza la trama, hanno trovato un codice di scrittura in cui si cerca di evidenziare il sedimentarsi di temi, icone, credenze della tradizione folklorica siciliana, nella rispettosa riedizione delle costanti che le versioni delle storie e delle fiabe conservano. La traduzione italiana di Bianca Lazzaro, che è curatrice della raccolta Cola Pesce e altre fiabe e leggende popolari siciliane, oltre che delle precedenti edizioni integrali dell’opera di Giuseppe Pitrè pubblicate da Donzelli, tiene rigorosamente conto «dei criteri grafici adottati da Pitrè nelle trascrizioni in siciliano (maiuscole, corsivi, virgolette, accapo…), nella convinzione che quelle scelte fossero motivate dal più rigoroso rispetto del parlato dei raccontatori e delle raccontatrici». 
L’uso delle maiuscole – ad esempio per Re, Reginella, Conte, Mago, Morte – i vari protagonisti delle fiabe, evoca la centralità dei ruoli, e di grande interesse – dal punto di vista dello sforzo compiuto da Pitrè per rendere ascoltabile e visibile la narrazione scritta – «l’uso del corsivi individua in genere una particolare accentuazione del tono della voce del narrante, magari quando riferisce il bando di un re o la maledizione di una vecchia megera». Non è tutto. Di Cola Pesce, vera icona del folklore siciliano, si leggono 17 versioni della leggenda marina dell’uomo pesce, «essere intermedio» lo definisce Pitrè, e si tocca con mano il nucleo concettuale del principio di variazione su cui si fondano gli studi sul folklore: all’interno dell’ampio corpus narrativo tessuto intorno ai personaggi di Cola Pesce risalta la costante del protagonista metamorfico abitante di terra e d’acqua, e nel contempo si moltiplicano le versioni in cui quel motivo è libero di spostarsi nel flusso instabile e continuo della cultura orale. 
Le varianti che hanno investito Cola Pesce e il mito di cui è metafora non sono mai riducibili a un solo testo ma guardano alla pluralità delle versioni, e ciò vale per ogni storia che provenga dall’espansione della letteratura orale. Sulle infinite vie dell’immaginario si incontrano dei Cola Pesce in Sicilia come in Nord Europa. Nelle illustrazioni di Fabian Negrin si riconosce un altro sintomo del potere di variazione proprio di storie che appartengono a chiunque le narri a suo modo: Pesce Cola è un bimbo che nuota sul fondo del mare di Messina, solo in parte rivestito di richiami alla sua natura marina: ci guarda con occhi enormi, stupiti, mentre le sue mani sono già pinne. In un’altra tavola è un ragazzino che si inabissa nel mare inseguito dalla maledizione materna che lo tramuterà in quell’essere intermedio di cui il folklore e l’immaginario si sono innamorati. 
L’attrazione per esseri metamorfici e doppi, esploratori della misteriosa appartenenza all’unità delle cose tutte, del fondo del mare e del profondo oscuro dell’esistenza e del destino, si perpetua, dal dialetto siciliano fino all’illustrazione, che racconta a sua volta l’ennesima versione di una importante testimonianza della complessità di cui si sostanzia il tramandare della cultura orale.

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