lunedì 18 aprile 2016

"Primavera referendaria": chi non lavora non fa l'amore

L'assetto politico prefigurato dalla controriforma costituzionale non è un capriccio di Renzi o qualcosa di casuale. È una tappa importante in un processo storico di costruzione del neobonapartismo postmoderno che rappresenta oggi la normalità del dominio liberale, data la forma in cui si manifesta la sconfitta delle classi subalterne e lo squilibrio generale dei rapporti di forza.
Quella proposta è dunque legata ai corposi interessi di un blocco sociale e persino allo spirito di un'epoca e ha quindi solide fondamenta nella realtà.

Il fronte avverso invece, oltre a disprezzare l'organizzazione e ad essere rappresentato dai logori protagonisti di mille accordi con il Pd che giustamente si odiano tra loro, è l'erede neppure legittimo del blocco che è stato schiantato e giace ora in frantumi.

Con la realtà esso intrattiene poi - per cultura politica idealistica e volontaristica e per prassi inveterata - un rapporto piuttosto distaccato, preferendole sempre i ricordi o i desideri.

Fate due conti.

Non esistono scorciatoie in politica e nemmeno conigli dal cilindro: chi non lavora non fa l'amore.
Senza progetti, senza organizzazione, senza un'idea di alternativa, senza più nemmeno uno spazio di democrazia da riempire e addirittura senza che ci sia più nulla in comune tra noi, ci affidiamo più che altro al caso, agli umori del momento o alla buona sorte, sperando di sfangarla. E sapendo già che, comunque, dopo sarà più o meno la stessa merda di prima.
Ieri abbiamo già perso il referendum per impedire lo smantellamento della Costituzione, altro che trivelle [SGA].

La minoranza dem ammette la sconfitta “Rivincita al congresso”
“Quella di Renzi è una vittoria di Pirro. I 14 milioni di votanti una “base”per lanciare Speranza”
Cuperlo critica Guerini che esulta per i pochi votanti: “C’è in ballo la democrazia in Italia”
di Giovanna Casadio Repubblica 18.4.16
ROMA. «Noi abbiamo perso, ma quella di Renzi è una vittoria di Pirro, ottenuta sfruttando la malattia dell’astensione, un frutto marcio di cui pagherà la conseguenza magari già al referendum costituzionale di ottobre». Il fronte anti Renzi ha sperato fino all’ultimo di arrivare al quorum sulle Trivelle, a quel 50% più uno, che sarebbe stato il segnale della sconfitta della linea del premier-segretario. È stata battuta. Ma considera comunque il 32% di votanti nel referendum di ieri un «risultato buono». Per la sinistra dem quei 14 milioni e mezzo di elettori possono aiutare a riaprire la partita anche nel Pd.
Il risultato insomma lascia sul campo una scia di conseguenze. Lancia la corsa per la leadership nel Pd di Michele Emiliano, anche se la Puglia non ha raggiunto il quorum. Il governatore pugliese è stato capofila dei No-Triv. Da settimane al Nazareno, la sede dem, si dice che «Michele» è pronto alla sfida per la segreteria. Nell’ultima Direzione del partito, Renzi lo ha invitato a non agitarsi troppo: «Hai detto parole volgari su di me, non sono da te...ti vogliamo bene».
«Bisogna ammettere che Michele ha un gruzzolo di consensi, in chiave anti renziana », riflette Gotor. Miguel Gotor è sponsor di Roberto Speranza, leader della sinistra del Pd, che vedrebbe volentieri come sfidante di Renzi alla guida del partito. Ma prende atto che il governatore dalla Puglia sta scaldando i muscoli. Però ad avere avuto un successo personale in questa sfida referendaria è proprio Speranza: nella sua città, a Potenza, il quorum è stato sfiorato, nella sua sezione del centro storico sono andati a votare il 75% degli elettori, a Matera c’è il quorum. La Basilicata, la regione di Tempa Rossa, “la mia terra martoriata”, la definisce Speranza, lo ha superato.
Speranza raccoglie insomma i frutti della campagna fatta per il Si, anche in dissenso da Pierluigi Bersani, di cui è il “delfino”, che è andato a votare ma ha votato No. «L’enfasi di Renzi sull’astensione è stata eccessiva. Ha politicizzato il referendum anche oltre misura, non rendendosi conto che molti dei nostri elettori erano sulla posizione del Si, delle energie rinnovabili».
Non vuole sentire parlare delle altre partite che questo risultato si porta dietro, Gianni Cuperlo. Lo sfidante di Renzi alla primarie del 2013 e leader di Sinistradem, invita ad attenersi ai fatti. Bacchetta l’atteggiamento dei renziani. «L’indicazione dell’astensione è stata un errore serio. Davvero non mi è piaciuto il vice segretario Lorenzo Guerini che brinda perché poche persone vanno a votare: in ballo non c’è il congresso del partito ma la democrazia italiana».
A metà giornata elettorale, a poche ore da quel dato delle 19 del 23,49% di votanti, che ha spazzato via l’illusione del quorum, lo scontro si era acceso nel Pd con il tweet di Ernesto Carbone, che ironizzava sul battiquorum, lanciando l’hashtag #ciaone.
Clima surriscaldato. Calcoli sul peso dei votanti. L’altra posta in gioco, intrecciata alle Trivelle, è il referendum costituzionale. «È Renzi ad avere fatto del quesito ambientalista un antipasto di quello costituzionale - ragiona Gotor -Per questo l’astensione è un boomerang, perché i cittadini non vanno a fasi alterne, ora li inviti a non votare poi li chiami alle urne, potrebbero astenersi pure a ottobre».

Roberto D’Alimonte “Risultato scontato, va abbassato il quorum per salvare l’istituto”
intervista di Giuseppe Alberto Falci La Stampa 18.4.16
«Mi sarei stupito se si fosse raggiunto il quorum». Roberto D’Alimonte, politologo e direttore del dipartimento di Scienze politiche alla Luiss, non ha dubbi sul dato dell’affluenza sul referendum sulle trivelle.
Le risulta scontato l’esito del referendum?
«Certo, se il 50% più uno degli italiani si fosse recato alle urne sarebbe stato un fatto eccezionale. Il risultato “normale” è che non si facesse il quorum su un referendum di questo tipo».
Perché?
«Avrebbe significato una sola cosa».
Cosa?
«Che non avremmo compreso cosa succede nel profondo del Paese. Il che vuol dire non aver capito un bel niente».
Il premier Renzi e l’ex Capo dello Stato Napolitano sono scesi in campo evocando l’astensione. Avranno influenzato l’opinione pubblica?
«No, no. Non credo».
Anche questa volta il quorum è lontano.
«Quando c’è un’asticella così alta per convalidare il referendum si crea un incentivo per i fautori del “no”, un vantaggio strutturale che fa tendere la bilancia da una sola parte».
Come si elimina questo incentivo?
«Bisogna abbassare il quorum, ed è quello che introduce la nuova riforma costituzionale, ovvero il ddl Boschi. Con il nuovo quorum sarebbe bastato il 37%»
Avrà avuto un peso il contenuto del quesito referendario?
«Di certo, se si fosse votato sul divorzio o sull’aborto ci sarebbe stata una partecipazione maggiore e si sarebbe raggiunto il quorum. In sostanza, conta sempre il contenuto, insieme a tanti altri fattori».
D’Alimonte, un’ultima domanda: ieri lei si è recato al seggio?
«No, non ho votato. Sono un’astensionista strategico».

Ora il premier prepara la battaglia d’autunno “Quella è la sfida finale”
Il presidente del consiglio è preoccupato dall’orientamento dei giovani elettori che sono stati attratti dalle ragioni dei referendari e anche dalle indicazioni della ChiesaL’affondo del premier: “Ma il governatore pugliese ha ancora la fiducia dei suoi elettori?” La consultazione referendaria sulle riforme dovrebbe svolgersi il 16 ottobredi Goffredo De Marchis Repubblica 18.4.16
ROMA. La scelta è quella di guardare da subito al referendum costituzionale di ottobre. Sottolineando la sconfitta delle regioni e dei governatori, gli stessi che potrebbero rivoltarsi contro la legge Boschi promuovendo il No per la consultazione di autunno. «Hanno perso sonoramente una battaglia. Vogliono perdere anche la guerra?» dice Matteo Renzi ai suoi collaboratori nello studio di Palazzo Chigi. Ma allo stesso tempo cerca la pace con i 14 milioni di italiani che sono andati a votare ieri, nonostante l’appello all’astensione abbastanza chiaro del premier. Per questo, prima di prendere la parola a urne chiuse, con i consiglieri più fidati Renzi decide una linea soft, almeno nei confronti dei cittadini. «Possiamo ribaltare il loro voto a ottobre. Per esempio c’è sicuramente una larga parte del mondo giovanile, penso a quello cattolico, che è andato alle urne ispirato dall’enciclica del Papa sull’ambiente o dagli inviti della Cei. Sono sicuro che gli stessi possono convincersi a dire sì all’abolizione del Senato».
Dunque, Renzi in pubblico mostra la tranquillità del vincente eppure non sottovaluta le possibili proiezioni dell’esito referendario. Decide di sparare sui governatori, quasi tutti del Pd, su chi ha strumentalizzato il quesito contro di lui per far risaltare la sua vittoria. E prima di presentarsi al microfono si informa soprattutto del risultato della Puglia e della Basilicata. «Emiliano non ha raggiunto il quorum nemmeno nella sua regione. Sarebbe bene che si facesse qualche domanda, a partire dalla Puglia che governa», sibila velenosamente il premier. «Ha ancora la fiducia dei cittadini? Non mi pare l’abbiano seguito. Ed è stato eletto appena nove mesi fa...». La Basilicata invece è l’epicentro dell’inchiesta giudiziaria che ha acceso i riflettori sul quesito. «Senza l’indagine l’affluenza sarebbe stata al 20 per cento », ripete Renzi. La Basilicata è anche la regione di Roberto Speranza, l’avversario interno più probabile per il congresso del Pd. Speranza è andato al seggio e ha votato Sì. E nella sua regione il quorum è stato superato.
Ma quei dati, al di là della vittoria che allontana anche i pericoli della mozione di sfiducia di domani e il vento di una spallata contro l’esecutivo, Renzi vuole leggerli bene. In particolare, quelli delle regioni che non erano coinvolte direttamente perché lì, quasi certamente, si annida una pulsione direttamente anti-Renzi, una voglia di voto che ha come bersaglio proprio il premier. E può condizionare il voto di ottobre, la partita finale del renzismo alla quale il premier pensa continuamente tanto da aver già individuato una data da cerchiare sul calendario. Per dire Sì o No alle riforme si andrà alle urne il 16 ottobre. Renzi ha sondato durante il giorno la Lombardia, cuore produttivo del Paese (e a Milano si vota a giugno per il comune). O la Sicilia, che non ha promosso il referendum, ma ha un bacino di elettori vicino ai 4 milioni.
Renzi comunque non è andato al mare per evitare l’urna, evocando l’antico invito craxiano. Da Pontassieve, campagna toscana, ha tenuto sotto controllo il referendum per tutta la domenica. È sempre rimasto in contatto con i vicesegretari Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini. Ha monitorato alcune regioni chiave, le più popolose, chiamando i rappresentanti del Pd di Lombardia, Emilia Romagna e Sicilia. Per capire gli umori, per avere delle sensazioni sull’affluenza. Quando è stato chiaro che il traguardo dei referendari era lontanissimo, ha telefonato al sindaco di Melpignano in Salento, Ivan Stomeo. Stomeo è stato uno dei capi del comitato contro le trivelle, alleato di Michele Emiliano in questa battaglia. Renzi gli ha fatto credere che la soglia della metà più uno degli aventi diritto fosse dietro l’angolo, che il miracolo fosse possibile. Non era vero, naturalmente.
La scuola di Pontassieve dove c’è il suo seggio, Renzi l’ha solo sfiorata con la sua auto nel solito percorso che da casa sua porta alla parrocchia che sta dall’altra parte della ferrovia e obbliga a un lungo giro del Paese. Sfiorata e basta perché ovviamente il premier non è andato a votare. Dopo la messa in famiglia, Renzi è andato a vedere la partita del figlio Francesco, calciatore dell’Africo impegnato contro la Cattolica Virtus. Ha fatto un po’ di jogging, ha lavorato da casa con la Protezione civile per coordinare i possibili aiuti da inviare alla popolazione dell’Ecuador colpito dal terremoto e ha twittato la notizia. Sempre su Twitter ha festeggiato il ciclista Gasparotto vincitore dell’Amstel Goldrace, ha fatto gli auguri al centrocampista della Juve e della Nazionale Claudio Marchisio che ieri si è rotto il legamento crociato. Ma nel pomeriggio ha cominciato a scrivere il discorso di martedì quando il governo sarà chiamato ad affrontare di nuovo una mozione di sfiducia in Parlamento. Il risultato del referendum rende la strada più semplice, visto che le mozioni delle opposizioni muovono proprio dall’inchiesta di Potenza sul petrolio, inchiesta che la giornata delle urne ha dimostrato non aver condizionato gli elettori fino al punto da trascinarli in massa al voto.

Fallita la spallata no alla resa dei conti
di Stefano Folli Repubblica 18.4.16
NEL fallimento del referendum anti-trivelle due sono gli aspetti più significativi, prevalenti sugli altri. Il primo, come è logico, riguarda il bilancio della giornata: chi ha voluto usare il quesito ambientalista, astruso e ambiguo come pochi altri, per trasformarlo in una clava con cui colpire il presidente del Consiglio, ha sbagliato i conti. Alla fine della giornata deve registrare la propria sconfitta, anziché quella di Renzi: quorum irraggiungibile, solo la Basilicata oltre la soglia.
Naturalmente c’è chi vorrà sostenere che il 32 per cento, dato finale alle 23, non è poi così male: equivale a 13 milioni di elettori che non hanno raccolto gli inviti all’astensione e si sono comunque recati alle urne. Ma questa cifra può rincuorare, sia pure in modo molto parziale, solo chi ha considerato il referendum alla stregua di un grande sondaggio sul premier, una specie di prova generale dell’altro referendum, quello di ottobre sulla riforma costituzionale, che costituirà l’autentica, grande battaglia pro o contro Renzi. In altri termini, se chi ha votato lo ha fatto per lanciare un segnale di ostilità a Palazzo Chigi, può considerare l’esito di ieri sera negativo ma non pessimo.
QUEI milioni di voti sono la piattaforma su cui tentare di costruire le vittorie di domani o di dopodomani, dentro o fuori il Pd.
Resta il fatto, tuttavia, che l’operazione trivelle non ha funzionato. Il presidente della Puglia, Emiliano, ha sbagliato le previsioni e a poco serve considerare che un paio di regioni e alcune città del Sud sono quelle dove si è votato di più. Con ciò rovesciando la tradizione secondo cui è il Nord l’area geografica dove l’affluenza è maggiore, mentre il meridione detiene il tradizionale primato dell’assenteismo. In ogni caso, è evidente che il merito del quesito è stato sommerso dalla volontà di utilizzare il referendum come arma impropria contro il governo. Forse era inevitabile, ma è opportuno che su questo aspetto non secondario si avvii una riflessione: soprattutto da parte di chi ha avviato la consultazione e di chi l’ha piegata verso uno scopo tutto politico. L’altro aspetto della giornata referendaria destinato a esser ricordato riguardall’incredibile uso di “twitter” che ha segnato il pomeriggio, via via che il quorum del 50 per cento si allontanava. Alcuni esponenti renziani (uno in particolare: Ernesto Carbone) hanno usato la rete per irridere i sostenitori della partecipazione, ossia gli avversari della scelta astensionista propagandata da Renzi. Deridevano soprattutto i militanti della minoranza Pd, sostenitori del “sì” e comunque partigiani del quorum. Il referendum è quindi servito per mettere in luce la modestia di una certa classe dirigente, incapace di pensare ad altro che a regolare i conti con gli avversari interni di partito. Ed è, purtroppo, una modestia intellettuale e politica che si mescola a una spontanea tendenza all’arroganza. Ne deriva un intreccio vagamente inquietante, non si sa quanto di buon auspicio per il futuro ma abbastanza vicino “partito del premier”.
Sarebbe quindi un grave errore ritenere che il fallimento del quesito anti-trivelle sia un trionfo di Renzi e dei suoi collaboratori. È più semplicemente una sconfitta dei nemici del premier che hanno scelto l’occasione sbagliata per tentare un’offensiva peraltro poco convinta. C’è da augurarsi che a Palazzo Chigi nessuno pensi di annettersi le astensioni, nel senso di adombrare che il 68 per cento di non-votanti equivale ad altrettanti consensi per la politica del presidente del Consiglio. In democrazia, giocare con i numeri può essere pericoloso, a maggior ragione se sono i numeri di chi resta a casa anziché andare a votare. Altri passaggi critici attendono Renzi, dal voto amministrativo al referendum di ottobre già ricordato. Appuntamenti per i quali non solo il premier, ma l’intero Partito democratico, meglio se unito, dovranno augurarsi che la gente esca di casa e vada alle urne. A differenza di ieri. «La demagogia non serve» ha chiosato in tarda serata il presidente del Consiglio. Ha ragione, ma egli per primo dovrà ricordarsene nei prossimi mesi.

Il primo verdetto 
di Antonio Polito Corriere 18.2.16
Le trivelle in alto mare non sono come l’acqua che esce dai rubinetti. Non provocano le stesse angosce sul nostro futuro e sulla nostra salute. Per quanto i politici tentino sempre di sfruttarne le paure, il corpo elettorale ha una sua pachidermica saggezza, e si muove solo per cause che ne valgano la pena. Così, a sorpresa, cinque anni fa rivitalizzò lo strumento referendario raggiungendo il quorum in difesa dell’acqua pubblica. Stavolta invece la materia delle trivellazioni in mare è apparsa ai più troppo complessa tecnicamente e forse troppo pericolosa economicamente per un Paese che ha fame di energia. Bisogna anche aggiungere che il movimento referendario aveva già ottenuto buona parte delle sue richieste, spingendo il governo ad accettarle per via legislativa, e che era rimasto sulla scheda solo un quesito di minor portata e valore. Il che, se da un lato conferma l’esistenza di una forte sensibilità ambientalista nel Paese, e anche di una combattività su questo tema delle Regioni (nove delle quali avevano promosso la consultazione), dall’altro lato rendeva ancora meno importante e convincente la battaglia referendaria residua.
Allo stesso tempo , il tentativo di politicizzare il referendum, e di trasformarlo nel debutto di una Alleanza contro Renzi di tutte le opposizioni, esterne e interne, da Emiliano a Salvini, da Brunetta a Di Maio, non ha funzionato. È probabile che una parte dell’affluenza al voto, un po’ superiore che in altri casi di quorum mancati, venga proprio da lì, da una motivazione politica più che di merito. Ed è plausibile che Renzi stesso l’abbia favorita, eccitando i suoi avversari con un appello all’astensione che forse ne ha portato qualcuno di più alle urne. Ma il conto finale è chiaro: l’operazione «spallata al governo» è fallita. Nemmeno lo scandalo lucano, che pure odora di petrolio e di mare, ha smosso più di tanto le acque.
Eppure il referendum di ieri era solo la prima tappa del tour elettorale che aspetta il premier da qui a ottobre. Adesso arrivano le Comunali, il terreno più difficile per Renzi perché più che su di lui si vota sui candidati di un Pd debole nelle città, e l’appello «o me o il caos» è molto meno efficace. Ma poi, dopo le Amministrative, la madre di tutte le battaglie: il referendum confermativo della riforma costituzionale, al cui successo Renzi ha legato la sua carriera politica.
Si tratterà, come è ovvio , di una prova molto diversa da quella sulle trivelle. Ma alcune indicazioni del voto di ieri dovranno essere attentamente considerate dal premier. Si può infatti supporre che nell’affluenza di ieri si annidi un nocciolo duro, numericamente tutt’altro che disprezzabile, di opposizione al governo. E se stavolta Renzi ha potuto agevolmente scavalcarlo facendo leva sulla «maggioranza silenziosa» di chi non è andato a votare, a ottobre, quando non sarà richiesto il quorum, dovrà invece mobilitare quella maggioranza e farla parlare, portarla alle urne, se vorrà vincere. Un’affluenza bassa come quella di ieri sarebbe infatti l’humus perfetto per un successo dei No, perché a votare ci vanno sempre i più motivati.
Però è anche vero che abrogare il Senato elettivo può risultare più popolare che abrogare le trivelle in alto mare. E in ogni caso il premier, prima di un voto importante, si tiene sempre nella manica un asso fiscale da giocare, proprio come fece alle Europee del 2014.
Antonio Polito

Ora lo aspetta la prova più difficile
di Marcello Sorgi La Stampa 18.4.16
Dalle urne del referendum sulle trivelle arriva un segnale chiaro per Renzi: la consultazione è fallita, per mancato raggiungimento del quorum, e il premier può a ragion veduta cantar vittoria, avendola definita «una bufala» ed essendosi schierato apertamente per l’astensione. Il numero dei votanti, in maggioranza schierati per il «Sì», che in pratica era un «No» a Renzi, in nessuna provincia - tranne Matera - ha raggiunto il cinquanta per cento degli elettori necessario per rendere valido il voto, è rimasto lontano complessivamente anche dal quaranta per cento che gli organizzatori si erano assegnati come traguardo significativo della loro iniziativa, sebbene quattordici milioni e mezzo di persone che vanno a votare siano un dato politicamente non irrilevante.
Forse è presto per dire che tra Movimento 5 stelle, minoranza Pd, sinistra ambientalista e radicale, Lega e Fratelli d’Italia, tutti schierati contro l’astensione e per la riuscita del referendum, sebbene con posizioni di merito differenti, sia nato una sorta di fronte popolare, che partendo dalla sconfitta di ieri sera, punta a prendersi la rivincita nelle prossime amministrative, in vista delle quali la condizione dei candidati sindaci renziani nelle grandi città si fa giorno dopo giorno più difficile, o nel referendum costituzionale sulla riforma Boschi a ottobre.
Ma che gli avversari del presidente del Consiglio, dentro e fuori il Pd, ci proveranno ancora, è sicuro, anche se non è detto che riusciranno nel loro intento.
Il voto di ieri riflette infatti alcune caratteristiche contingenti: l’affluenza è stata più forte, ad esempio, nella Basilicata toccata (e sensibilizzata) dallo scandalo trivelle, e nella Puglia del governatore Emiliano, a tutti gli effetti capo dello schieramento trasversale antirenziano; non così in altre regioni, come la Campania, la Calabria e la Sicilia; e non parliamo di quelle non direttamente interessate al problema, ma chiamate lo stesso a pronunciarsi. Insomma un risultato deludente, seppure non del tutto negativo, per uno schieramento trasversale destinato a dividersi nel prossimo voto per i Comuni tra sinistra, destra e 5 stelle. Non sarà così facile rimetterlo insieme in autunno, dopo averlo smontato a giugno.
Al di là della soddisfazione espressa a caldo a tarda sera, anche in nome dei lavoratori che avrebbero perso il posto se il referendum fosse riuscito con la conseguente vittoria dei «Sì», Renzi dovrà dunque rimettere mano alla strategia per il 2016, prendendo atto che la sua narrazione è ancora mobilitante nel suo mondo di riferimento, ma risulta divisiva sul complesso dell’elettorato, e perfino aggregante, sul versante opposto al suo, e in vista di un’altra e più importante consultazione referendaria, senza quorum, in cui la somma dei voti dell’eterogeneo insieme dei suoi avversari potrebbe ritrovare consistenza e rivelarsi più rischiosa.
Inoltre la pur breve campagna per il referendum ha rivelato come, a causa di imprevisti, un appuntamento elettorale nato morto (nel senso che fino a pochi giorni prima dell’apertura dei seggi una larga parte degli elettori coinvolti apparivano freddi sul contenuto della consultazione) si sia rivitalizzato via via a causa dello scandalo esploso pochi giorni prima e delle reazioni, favorevoli alla partecipazione al voto, delle alte cariche istituzionali e di leader ed ex leader del Pd. Sollecitati, va detto, dalla stessa campagna astensionista del premier.
Resta il fatto che Renzi, alla fine, se l’è cavata anche stavolta, tirandosi fuori da una strettoia che non prometteva nulla di buono per lui. Di qui a giugno, e soprattutto di qui a ottobre, la strada sarà ancora in salita, con due incognite - migranti e situazione economica - che potrebbero di nuovo pesare sulle convinzioni degli elettori, più delle promesse di tagli di tasse o aiuti materiali che il premier continua a sfornare senza sosta. Da un lato l’annunciata (e contestata dal governo italiano) chiusura del Brennero, dall’altro la pressione crescente degli sbarchi di immigrati provenienti dalla Libia, potrebbero creare una nuova emergenza, assai difficile da gestire. Il resto potrebbe farlo il ristagno di un quadro economico che non reagisce (o reagisce appena appena) alle stimolazioni della Bce e alla spinta delle riforme economiche varate dall’esecutivo. 

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