venerdì 15 aprile 2016

Problemi dei beni culturali in Italia



L’uomo solo al comando dei beni culturali italiani
di Salvatore Settis Repubblica 20.4.16
SCADONO il 23 aprile i termini del bando interno per la nuova Direzione Generale “Archeologia, Belle Arti e Paesaggio”, che fonde in una tre direzioni generali: tappa ulteriore della riforma Franceschini, che sarebbe stato assai meglio lanciare tutta insieme come un disegno organico, e non a puntate come un fotoromanzo o uno sciame sismico. Chi difende quest’ultima decisione del ministro richiama antichi precedenti (Bianchi Bandinelli direttore generale alle Antichità e Belle Arti dal 1945 al 1948), o sbandiera una concezione “olistica” del ministero. Ma chiamare “olistico” l’intatto arcipelago delle altre dieci direzioni generali sfida non solo l’etimologia, ma il buon senso. Se è giusto avere una direzione per gli archivi e una per le biblioteche, una per il cinema e una per lo spettacolo, perché accorpare archeologia e storia dell’arte? Ma a riforma fatta, è dovere civico (proprio come votare, anche nei referendum: Costituzione, articolo 48) sperare che non tutto vada storto. La verità è che Franceschini ha imposto, a se stesso prima che al ministero, la mission impossible di accorpare in uno tutte le funzioni di tutela sul territorio, dall’archeologia preventiva ai reati contro il paesaggio, dai centri storici agli affreschi, dalle cattedrali alle statue nelle piazze. Giusto o sbagliato che sia, farlo con scarsissimo personale, governando al tempo stesso la simultanea creazione di “soprintendenze uniche”, con l’archeologia guidata da architetti (e viceversa), richiederà abilità acrobatiche, o piuttosto taumaturgiche. È vero che si annuncia, dopo decenni, un concorso per 500 nuovi addetti ai lavori, ma «il personale, con una età media di 54 anni, ha carenze di organico per oltre 1000 posti», come scrive il consigliere giuridico di Franceschini, Lorenzo Casini, nel suo recente Ereditare il futuro. Dilemmi sul patrimonio culturale (Il Mulino); una carenza che aumenta ogni giorno, per pensionamenti e abbandoni “da scoraggiamento”.

A chi toccherà pilotare «in gran tempesta» la navicella della tutela in uno scenario politico sempre più distratto? Una decina di alti funzionari del ministero hanno titolo a concorrere, e lo sterminato decreto che fissa i criteri per la scelta del super- direttore generale traccia il profilo desiderato. Dev’essere in grado di reggere la «complessità della struttura interessata » (massima, visto che è l’Italia tutta), avere adeguate esperienze sul campo (di natura amministrativa e giuridica, con speciale riferimento alla normativa di tutela, dal Codice alle norme più recenti, come l’archeologia preventiva), capacità organizzativa (dimostrata nel reggere altre direzioni generali e direzioni regionali). Il nuovo direttore non dovrà emettere di quando in quando una qualche fatwa in favore o contro oleodotti o Tav: dovrà, in una fase delicatissima di riorganizzazione del ministero, quotidianamente approntare ed emanare (in sintonia con il ministro) un gran numero di regolamenti, circolari e norme applicative. Dovrà dunque avere una conoscenza di prima mano del Codice dei Beni Culturali e del paesaggio. Dovrà vegliare a che la tutela sul territorio nazionale non scenda sotto il livello di guardia, e avere esperienze anche sul fronte della valorizzazione. Dovrà sorvegliare l’equilibrio fra tutela e valorizzazione, funzioni che in Italia e solo in Italia sono artificiosamente separate da pochi decenni, e che devono convergere alla radice (ricerca e conoscenza) e al punto d’arrivo (la fruizione da parte dei cittadini). Dovrà essere in grado di seguire da vicino le criticità della legge Madia, e in particolare la normativa sulla conferenza dei servizi, su cui hanno giustamente attirato l’attenzione l’Osservatorio Nazionale per la qualità del paesaggio e il Sottosegretario Ilaria Borletti-Buitoni. Dovrà negoziare con le regioni i rispettivi piani paesaggistici (quasi tutti in enorme ritardo), sapendoli valutare nel merito e nella forma giuridica. E questo identikit dovrebbe includere anche una professionalità tanto solida da essere indipendente dalle pressioni della politica, o ancora la capacità di dialogo con i titolari di grandi collezioni private (la cui tutela spetta allo Stato).
Dal nuovo direttore generale dipenderà il futuro immediato del paesaggio e del patrimonio in Italia (cioè il rispetto dell’articolo 9 della Costituzione). Se il ministro sceglierà una persona adeguata alla funzione delicatissima che ha voluto creare, saremo in molti ad essergli grati. Se invece dovesse collocare in quella posizione un funzionario debole, incerto, incapace di seguire la straordinaria complessità dei compiti che lo attendono, darà ragione a chi sostiene che la raffica di riforme è intesa non a rafforzare, ma a indebolire la tutela. 


Quando il consumo è senza rivalità 
TEMPI PRESENTI. Si apre domani a Roma l’incontro «L’emergenza nascosta: archivi, biblioteche e il futuro della ricerca in Italia». Un estratto dell’intervento sul tema «Fotografie libere per i beni culturali»

Mirco Modolo Manifesto 14.4.2016, 0:07 
L’attuale discussione pubblica sulla fotografia ha una data di nascita precisa: il 1° giugno 2014, giorno in cui è uscito il decreto «Art Bonus» che sanciva la libera riproduzione a distanza e per finalità culturali, di tutti i beni culturali. Una libertà da leggersi come gratuità ed esenzione da qualsiasi autorizzazione preventiva, che non faceva altro che attuare un principio in realtà scontatissimo, quello della appartenenza dei beni culturali all’intera collettività. 
La liberalizzazione fu accolta con entusiasmo anche dagli studiosi in archivi e biblioteche che furono liberi di fotografare ciò che consultavano. Una libertà tuttavia di breve durata, azzoppata, appena un mese dopo, da un emendamento restrittivo che ha escluso dalla liberalizzazione i beni bibliografici e archivistici, quindi archivi e biblioteche determinando per di più un disallineamento paradossale: mentre al turista è ora concessa libertà di selfie nei musei, lo studioso impegnato nella ricerca in archivi e biblioteche tornava a pagare per fare fotografie. 
È così tornata l’odiata tariffa per le fotografie scattate con il mezzo digitale personale negli istituti che permettono l’uso della macchina fotografica, oppure, nei casi meno fortunati divieto assoluto di ricorrere al mezzo proprio, con l’obbligo di rivolgersi, a pagamento, alla ditta esterna di riproduzioni. Un vero e proprio «bazaar» con mille varianti locali: all’archivio di Napoli l’utente è invitato a recarsi in posta per pagare il bollettino postale, mentre a Venezia si è pensato di aggiungere alla tariffa di riproduzione con mezzo proprio il noleggio obbligatorio di una sala-riproduzioni a 10 euro l’ora. 
Se poi malauguratamente si decidesse di pubblicare la foto in un libro o in una rivista scientifica occorre munirsi di carta da bollo, scrivere una lettera e attendere l’autorizzazione che può arrivare anche dopo mesi. La pubblicazione editoriale è un lucro per l’editore (anche se poi a pagare è solo l’autore) e dunque la foto non può essere divulgata liberamente. Tutto questo accade quando, da circa un anno, i più grandi istituti culturali europei, come la British Library o la Bnf, hanno aperto le porte alle fotocamere degli studiosi. 
Il peso della ricerca 
Le ragioni di una simile retromarcia si rinvengono in presunte preoccupazioni per la tutela del bene. Non si vede per quale ragione, tuttavia, utenti già abilitati a manipolare documenti fragilissimi non possano fotografare, a distanza, la documentazione che giunge loro sui tavoli in consultazione, come già avviene ormai da tempo negli archivi francesi. 
La seconda obiezione, di carattere economico, contesta la gratuità della riproduzione, ma chi si pone il problema del «danno erariale» per l’ente pubblico, forse non si interroga abbastanza sul danno culturale che un simile atteggiamento può provocare. Prima ancora di concepire tariffe che inevitabilmente gravano sulla ricerca, semmai sarebbe utile ricercare altrove le risorse, per esempio in una seria opera di razionalizzazione della spesa, oggi più che mai urgente se si pensa che quasi i quattro quinti dei finanziamenti annuali agli archivi sono spesi per l’affitto delle sedi degli stabili che ospitano gli archivi di Stato. 
In risposta all’esclusione dei beni bibliografici e dei beni archivistici dalla liberalizzazione tra gli studiosi è nato il movimento «Fotografie libere per i Beni Culturali» (di cui l’appello è apparso qui, insieme all’intervista con Carlo Federici), che chiede di estendere nuovamente la libera riproduzione agli archivi e alle biblioteche, allo scopo di promuovere la ricerca storica, e dunque semplicemente dando seguito a quanto dispone l’art. 9 della Costituzione: si pensi agli enormi vantaggi per chi è costretto a raggiungere archivi lontani dalla propria sede, oppure a chi svolgendo anche altre attività ha solo poco tempo da dedicare alla ricerca, o alla possibilità di verifica delle trascrizioni.
Sono state raccolte più di 4500 sottoscrizioni di studiosi, docenti di ogni disciplina umanistica e persino funzionari del ministero. Il movimento propone oltre alla libera riproduzione con mezzo proprio in archivi e biblioteche, di sostituire la richiesta formale di «concessione di pubblicazione» in carta bollata con una semplice comunicazione per via telematica dell’intenzione di pubblicare all’istituto detentore del bene.
Una distinzione che non è formale, ma di sostanza: comunicare una intenzione in luogo del chiedere un permesso è un modo per ribadire che i beni culturali sono di tutti. 
Tutto questo è oggi impossibile perché l’Art Bonus stabilisce la libertà di fotografia solo per fini culturali, e non di lucro. Si chiede allora di contemplare una «eccezione culturale» per una attività, come l’editoria scientifica che, pur essendo a rigore a fine di lucro, persegue anche importanti finalità culturali; la pubblicazione dovrebbe essere infatti lo sbocco naturale di ogni ricerca. Sulla base di queste premesse è stata allora proposta una nuova formulazione dell’art. 108 del «Codice dei Beni Culturali» che ha già dato vita a due disegni di legge di iniziativa parlamentare e a una interrogazione parlamentare, cui il ministero ha risposto positivamente a dicembre dichiarando di essere pronto a mettere mano al problema. 
Beni immateriali 
Non si può ignorare tuttavia che una simile proposta rischia oggi di apparire tutt’altro che rivoluzionaria se confrontata con le più recenti esperienze nell’ambito del libero riuso dell’immagine di beni culturali. Negli ultimissimi anni alcuni dei più importanti musei e biblioteche in Europa e in Nord America, hanno infatti autorizzato il libero riuso delle immagini digitalizzate in rete delle proprie collezioni per qualsiasi tipo di riutilizzo, persino commerciale, favorendo al massimo grado la diffusione, il riuso e la condivisione delle fotografie. 
In altre parole si è compreso che il bene culturale digitalizzato è un bene immateriali a consumo «non rivale», nel senso che il consumo da parte di qualcuno non riduce la disponibilità per altri. Il valore del digitale quindi risiede nella sua capacità di disseminare il sapere, e non nella sua conservazione statica. 
Il progresso digitale e le sterminate possibilità di comunicazione offerte dal web ci spingono ad andare oltre la frontiera della fruizione passiva per favorire il riuso e la condivisione dell’informazione generata dal bene culturale, superando il tabù ideologico del lucro, con tutte le limitazioni normative che esso oggi comporta. Del resto, è risaputo: dalla riscossione di diritti proprietari sulle riproduzioni lo Stato e gli enti locali hanno ben poco da guadagnare, la collettività e il nostro patrimonio, invece, molto da perderci. Alcuni dei più grandi istituti al mondo ci stanno indicando una nuova prospettiva, e dunque, se è vero che presto si rimetterà mano all’art. 108 per liberalizzare la foto in archivi e biblioteche, sarà l’occasione per rivedere le norme sul riuso.
Sta a noi scegliere se accettare la sfida o perdere l’ennesima occasione per innovare, laddove «innovazione» è per definizione «riuso» creativo di idee precedenti. 


Uno scenario da ripensare 
Alessandra Pigliaru Manifesto 14.4.2016, 0:06 
Comincia domani, presso l’Archivio di Stato di Roma, il convegno Emergenza nascosta: archivi, biblioteche e il futuro nella ricerca in Italia. Promosso dal Coordinamento nazionale per gli archivi e le biblioteche, formatosi nel 2014 e a cui hanno aderito associazioni di utenti, studiosi, addetti ai lavori per segnalare le condizioni degli istituti archivistici e bibliotecari pubblici, l’incontro romano prevede numerose relazioni che si avvieranno alle 10 per concludersi in serata con una tavola rotonda. 
Nel documento introduttivo si legge: «se chiude per un giorno il Colosseo, tutti i giornali ne parlano. Se per tre anni chiude la principale emeroteca italiana e se il principale Archivio di Stato italiano diminuisce di oltre il 60% il numero di faldoni che ogni ricercatore può richiedere al giorno, nessun giornale ne parla. Il taglio dei servizi al pubblico di archivi e biblioteche, però, costringe storici e altri ricercatori a rinunciare ai propri progetti di ricerca o a ridimensionarli fortemente». 
Il resto dello scenario- aggiunge Giulia Barrera, rappresentante del personale nel Consiglio superiore beni culturali e redattrice del testo – non è più promettente, «negli ultimi vent’anni, il personale di Archivi di Stato e Biblioteche pubbliche statali è costantemente diminuito. Vi sono ormai diversi Archivi di Stato con un solo archivista e Biblioteche importanti costrette a ridurre orari e servizi per mancanza di personale». Inoltre, specifica Barrera «uno dei punti chiave è che i 95 archivisti che verranno assunti con il prossimo concorso copriranno a stento le attuali carenze di organico. Ma nel corso dei prossimi 4-5 anni andranno in pensione circa 400 archivisti. Per i bibliotecari la situazione è ancor peggiore». 
Risulta allora rispondente all’attualità di un problema intricato ciò di cui si discuterà domani. Le e gli ospiti della prima sessione – presieduta da Marcello Verga – si concentreranno su vari elementi attinenti al tema in discussione con particolare cura verso le riforme del Ministero e il ruolo del personale Mibact. Le relazioni saranno di Marco De Nicolò, Claudio Meloni, Alberto Petrucciani, Giovanna Tosatti e Mariella Guercio. 
Quest’ultima, presidente dell’Associazione nazionale archivistica italiana, svolgerà un ragionamento a partire dal modello conservativo da ripensare per gli archivi del futuro. «Da anni – secondo Guercio – le riforme e gli interventi organizzativi dettati dall’esigenza di tagliare risorse hanno ridotto non solo il numero ma anche l’autorevolezza degli archivisti nel loro difficile ruolo di difesa di una memoria documentaria (cartacea e digitale) sempre più complessa e sovrabbondante». 
Oltre alla mancanza di riqualificazione – prosegue la presidente dell’Anai, «gli istituti archivistici sono stati accorpati per mere ragioni economiche senza rendersi conto che si sono creati uffici che non sono più in grado di garantire la tutela su un territorio sempre più ampio – si veda il caso dell’accorpamento delle soprintendenze di Umbria e Marche». 
La sessione del pomeriggio – coordinata da Isabelle Chabot – prevedrà gli interventi della stessa Barrera che si concentrerà sul confronto tra archivi italiani nel contesto internazionale, Raffaele Di Costanzo, Mirco Modolo ed Elena Dagrada. la tavola rotonda, moderata da Benedetta Tobagi, ospiterà Giampaolo D’Andrea, Paola Carucci, Natalia Piombino, Gian Maria Varanini e Giovanni Solimine – attualmente componente del Consiglio superiore beni culturali e paesaggistici – che ci dice come occorra «ripensare compiti e funzioni delle biblioteche pubbliche statali, a partire dalle due Biblioteche nazionali centrali di Roma e Firenze, tenendo conto dei mutati bisogni della cittadinanza e degli studiosi che si rivolgono a queste strutture e che spesso non trovano un’offerta di servizi adeguati alle loro esigenze. 
Quest’anno, con la legge di stabilità, assistiamo a un significativo incremento della dotazione finanziaria delle biblioteche appartenenti al Ministero dei beni culturali, dopo che i tagli degli anni passati ne avevano praticamente dimezzato le risorse. Un rilancio di queste biblioteche passa anche attraverso un loro diverso posizionamento sul territorio e una più stretta collaborazione con le Regioni e le Università in un nuovo assetto organizzativo a rete».

Nessun commento: