martedì 12 aprile 2016

Renzi avvisato mezzo salvato: i padroni e i loro servi acculturati vogliono un costo del lavoro ancora più basso assieme alle spoglie delle classi subalterne

L'intervento di Mingardi sulla Busiarda è emblematico dell'aria che tira ma quello di Ezio Mauro è assai inquietante per questa corte dei miracoli. Nemmeno il Renzi gli sta più bene [SGA].


Se lo Stato ritorna padrone 
Alberto Mingardi Busiarda 12 4 2016
Il nuovo Def prevede entrate da privatizzazioni per lo 0,5% del Pil nel 2016 e per lo 0,3% nel 2017 e 2018. È davvero poca cosa, tenendo conto che il primo ministro aveva annunciato nuove privatizzazioni per «tranquillizzare» i partner europei. Per intenderci, nel Def 2013 si parlava di dismissioni per un punto di Pil all’anno, nel quinquennio 2013-2017.
Promesse a parte, oggi assistiamo a un trend opposto. È in atto cioè una ripubblicizzazione dell’economia italiana.
Immerso in una crisi fiscale permanente, negli Anni Novanta il nostro Paese ha molto privatizzato. Per sessant’anni, siamo stati un’economia «mista» fortemente sbilanciata verso la componente pubblica: l’Istituto per la Ricostruzione Industriale era nato nel 1933 come strumento emergenziale ma, si sa, in Italia nulla è stabile come il provvisorio. 
Ci indussero a privatizzare il dissesto della finanza pubblica e Tangentopoli. Nel discorso con cui lasciò la presidenza del Consiglio, nel 1993, Giuliano Amato evidenziò come «il regime fondato su partiti che acquisiscono consenso di massa attraverso l’uso dell’istituzione pubblica» venisse meno assieme al «regime economico fondato sull’impresa pubblica». Due invenzioni, l’una e l’altra, del periodo fascista: indebolite dalla tempesta finanziaria e dall’ondata «moralizzatrice» seguita alle inchieste di Milano.
Che cosa abbiamo venduto, negli Anni Novanta? Abbiamo privatizzato la telefonia, le autostrade, la siderurgia, le assicurazioni di Stato; abbiamo ceduto quote delle imprese elettriche e del gas; abbiamo denazionalizzato le banche. In un modo un po’ ambiguo: costituendo dei centauri, le fondazioni di origine bancaria. Ma per la prima volta in settant’anni lo Stato usciva dal mondo del credito: lasciava, cioè, al privato decidere chi finanziare e chi no.
Oggi lo Stato è di nuovo proprietario della seconda assicurazione italiana: non si chiama più Ina, ma Poste Vita. 
È di questi giorni la notizia che, su forte sollecitazione del governo, Enel farà la propria rete telefonica in fibra. Le aziende municipalizzate che fanno concorrenza a Enel in alcune delle principali città si sono subito fatte avanti, disponibili a posare fibra ottica anch’esse.
Nelle aree «a fallimento di mercato» (dove, cioè, non c’è domanda che possa sostenere gli investimenti), il governo ha scelto di costruire una rete pubblica, che sarà di proprietà di Infratel. Non siamo ancora arrivati ad avere un operatore telefonico statale: ma è alle viste.
Ieri il Tesoro ha tenuto a battesimo un veicolo finanziario di 5/7 miliardi di euro, al quale con le fondazioni parteciperà la Cdp, per garantire l’aumento di capitale di Veneto Banca e Banca popolare di Vicenza, acquisendo gli eventuali diritti inoptati. Originariamente era Unicredit che doveva garantire la ricapitalizzazione della Vicenza per 1,75 miliardi: la banca milanese pareva però pronta a sfilarsi, non riuscendo a collocare l’istituto vicentino sui mercati internazionali. Di qui l’ipotesi di uno strumento «misto», così da dribblare l’accusa di aiuti di Stato.
Che c’è di male in tutto questo? Si chiederà il lettore. Non rischiamo di fare del «privato» un feticcio?
Oggi abbiamo tariffe telefoniche basse per la media europea e un buon grado di concorrenza, anche e soprattutto perché l’incumbent telefonico è uscito dal perimetro pubblico e del pubblico ha perso la protezione. Un grande operatore statale è visto, naturalmente, dai regolatori, con un occhio di riguardo: il che non va necessariamente a vantaggio dei consumatori.
È difficile sostenere che in campo assicurativo ci siano «fallimenti di mercato»: che o se ne occupa lo Stato oppure non si trova chi possa fare, bene, quel mestiere.
Il credito è la benzina dell’economia. Se si decide chi dev’essere finanziato e chi no sulla base di criteri «politici», il risultato più probabile è che non venga sostenuto chi ha progetti e capacità di realizzarli: ma gli amici degli amici. L’immenso problema dei crediti incagliati riflette in una certa misura il fatto che troppo spesso si sono privilegiate le relazioni rispetto al merito. Divellere la cultura del «salotto buono» è già difficile con le banche in mano ad azionisti interessati a far profitto: sarà impossibile, se la politica torna ad influenzare l’allocazione del credito.
In Italia non si può parlare di «ritorno dello Stato» perché lo Stato non se n’è mai andato, visto che la spesa pubblica sfiora la metà del Pil. Parliamo semmai di ritorno delle partecipazioni statali. Che stavolta non hanno nemmeno un ministero di riferimento, e operano attraverso strumenti metà pubblici metà privati, ambigui e sottratti anche alle logiche della responsabilità politica. Il massimo della discrezionalità, il minimo della certezza del diritto.
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L’abdicazione della politica
L’astensionismo invocato oggi rischia da domani di diventare la malattia senile di democrazie esauste, appagate dalla loro vacuitàdi Ezio Mauro Repubblica 12.4.16
UNA VOLTA, quando i rappresentanti eletti in un’assemblea si trovavano davanti un problema improvviso, su cui non avevano ricevuto un mandato preciso dai loro elettori, scattava il “referendum”: i delegati tornavano da chi li aveva votati per chiedere istruzioni specifiche, portando appunto la questione ad referendum. Era l’epoca del mandato imperativo, e cioè l’eletto era strettamente vincolato alla volontà specifica di coloro che rappresentava. Oggi invece c’è nelle Camere la piena libertà di mandato e ogni parlamentare esercita questa sua libertà e autonomia in quanto rappresentante della Nazione. E tuttavia l’istituto del referendum è arrivato fin qui, si potrebbe dire per vie traverse. Fu affacciato occasionalmente nel voto popolare che approvò la Costituzione delle Repubbliche Cisalpina, Cispadana e Ligure.
ASSENTE nello Statuto Albertino, usato da Mussolini sotto forma di plebiscito nel 1929 e nel 1934, sanzionò infine la nascita della Repubblica nel 1946, poco prima di iscriversi nella Costituzione repubblicana, come conferma solenne della forma mista scelta per il nuovo regime statuale, con singoli istituti di democrazia diretta chiamati a convivere in un sistema generale di democrazia rappresentativa.
Bisogna anzi ricordare che secondo il progetto originario preparato nella II Sottocommissione dell’Assemblea Costituente il sistema italiano aveva ben quattro tipi di referendum: due di iniziativa governativa (in caso di conflitto tra l’esecutivo e il Parlamento, o di legge bocciata dalle Camere) e due promossi direttamente dal corpo elettorale. Nel voto finale passò il solo referendum abrogativo tra le vive preoccupazioni del partito comunista, convinto che un abuso del nuovo istituto avrebbe potuto ostacolare l’efficienza democratica del Parlamento nella sua funzione legislativa fondamentale. La risposta del relatore, Costantino Mortati, fu che il referendum avrebbe consentito di superare «i limiti dei partiti» dando la parola agli elettori, e avrebbe permesso di verificare «la saldatura tra il popolo e la sua rappresentanza parlamentare». E qui Mortati rivendicò il principio di contraddizione democratica in base al quale il referendum inquieta il potere costituito, settant’anni fa come oggi: «Il referendum — disse — si basa proprio sul presupposto che il sentimento popolare possa divergere da quello del Parlamento».
Tutto qui, ed è moltissimo. Il referendum non è un disturbo, nel nobile procedere del cammino legislativo sovrano. È un’articolazione di quel potere, un suo completamento altrettanto nobile e legittimo e una sua integrazione attraverso la fonte popolare diretta, voluta dalla Costituzione proprio per consentire all’elettore di non essere soltanto un “designatore” ma di poter esercitare (oltre alla scelta dei suoi rappresentanti) lo ius activae civitatis, cioè il diritto di intervenire con la sua opinione su un tema controverso e dibattuto che riguarda la soddisfazione di un interesse pubblico. È dunque perfettamente corretto quel che ha detto ieri il presidente della Consulta Paolo Grossi, ricordando che ogni elettore è libero di votare nel modo che ritiene giusto ma «si deve votare perché partecipare al voto significa essere pienamente cittadini», anzi «fa parte della carta d’identità del buon cittadino».
Il potere dunque deve imparare, settant’anni dopo, che il «buon cittadino» è tale quando va alle urne per scegliere tra le proposte concorrenziali dei diversi partiti e dei loro rappresentanti (se possibile non con liste bloccate), ma anche quando usa la scheda referendaria per controllare-correggere- abrogare una scelta delle Camere, nel presupposto che esista un forte interesse popolare alla ri-discussione di quel tema e di quella legge: interesse certificato dalla soglia dei 500 mila elettori o dei 5 consigli regionali necessaria per chiedere il referendum, insieme con l’intervento di una minoranza parlamentare pari a un quinto. La democrazia che ci siamo scelti si basa dunque sulla compresenza delle due potestà, diversamente regolate, concorrenti e tuttavia coerenti nel disegno costituzionale così com’è stato concepito.
Non c’è dubbio (e da qui nascono ogni volta le riserve dei governi e dei capi-partito) che il referendum porta in sé quello che abbiamo chiamato il principio di contraddizione democratica. Anzi i suoi critici condannano questa potestà suprema ma saltuaria, intermittente, il carattere occasionale e fluttuante delle maggioranze che ogni volta si formano nell’urna, la riduzione della politica ad una logica binaria tra il sì e il no, la semplificazione e la radicalità del contendere, la parzialità della consultazione, la disomogeneità territoriale nella sensibilità ai problemi che stanno alla base del quesito referendario, la mobilitazione in negativo che deriva necessariamente dal voto per abrogare. Ma al centro di tutto sta la questione fondamentale che si trovò davanti la Costituente e che rimane viva, vale a dire la tensione tra gli istituti di democrazia diretta e i loro titolari (i cittadini) e gli istituti che derivano dalla democrazia rappresentativa, cioè le Camere, il governo, i partiti costituiti in legittima maggioranza con la responsabilità dell’esecutivo da un lato, e di guidare il processo legislativo dall’altro. La risposta su questo punto non può che essere radicale, assumendo l’obiezione per rovesciarla in nome delle ragioni in base alle quali l’istituto referendario è entrato nell’ordinamento costituzionale: il referendum è programmaticamente — si potrebbe dire istituzionalmente — un elemento di disarmonia regolata e intenzionale del sistema, a controllo di se stesso. Come disse ancora Mortati, certo il referendum altera il gioco parlamentare semplicemente «perché il suo scopo è proprio questo», nel presupposto democraticamente virtuoso di condurre con questa alterazione «la volontà del Parlamento ad una maggiore aderenza con la volontà politica del popolo». D’altra parte, almeno dodici quesiti popolari non sono arrivati al voto proprio perché davanti alla scadenza del referendum il Parlamento ha autonomamente deciso di intervenire preventivamente, cambiando la legge.
Non si tratta di contrapporre popolo e Parlamento, rappresentanti e rappresentati. Ma di conservare coscienza di una costruzione del meccanismo democratico che prevede una funzione di controllo e di correzione dell’intervento legislativo sottoposta a specifiche condizioni e tuttavia costituzionalmente autorizzata, con il beneficio democratico di un occasionale trasferimento controllato di potere tra governati e governanti e con l’articolazione della competizione politica in forme diverse dalle elezioni generali: per temi specifici invece che su programmi generali, con l’intervento esplicito di gruppi di interesse e di pressione e di movimenti più che di partiti. Potremmo parlare di un’integrazione dell’offerta politica e dei processi decisionali, che in tempi di disaffezione non è poco.
Naturalmente va ricordato che le storie dei sistemi politici e istituzionali non sono tutte uguali e l’istituto referendario non è impermeabile a queste vicende tra loro profondamente diverse. Non per caso (a parte la partecipazione diretta del popolo prevista dalla Costituzione giacobina del 1793) la prima traccia di consultazione popolare lasciata nelle colonie britanniche in America alla fine del diciottesimo secolo e nelle nascenti comunità cantonali svizzere nella stessa epoca continua a produrre risultati in quei Paesi: 13,5 referendum all’anno in tre decenni in California, mediamente, 10 quesiti all’anno nel medesimo periodo in Svizzera. Si sa che il referendum è più adatto a sistemi federali; si pensa che sia più consono a meccanismi di tipo proporzionale, perché rompe il nodo consociativo delle indecisioni politiche tra troppi partiti; si considera che l’abuso logori l’istituto, com’è avvenuto in passato in Italia, dopo che il referendum negli anni Settanta era stato clamorosamente l’apriscatole del sistema.
Tutto vero, tutto legittimo. Soltanto, secondo me, non si spiega l’invito insistito del premier Renzi e ieri ancora del ministro dell’Ambiente Galletti a non andare a votare. Il quesito è controverso, gli schieramenti classici sono saltati, gli stessi ambientalisti operano nei due campi, la contesa è dunque non solo legittima, ma aperta. Referendum strumentale, come dice il ministro? Tanto più, ci sarebbe spazio per una battaglia di merito, sul contenuto e non sul contenitore, non sull’istituto ma sui temi in questione, dal rapporto tra energia e territorio all’ambiente, al lavoro, alla crescita, alla sostenibilità, all’occupazione. Invitare a non votare è un’abdicazione della politica, come se non credesse in se stessa. Anche perché l’astensionismo invocato oggi rischia da domani di diventare la malattia senile di democrazie esauste, appagate dalla loro vacuità, incapaci di essere all’altezza delle premesse su cui sono nate.

Dalla Consulta messaggio al governo Grossi agli italiani: domenica votate
La partita sulla legge elettorale sarà apertissimadi Ugo Magri La Stampa 12.4.16
Questa Corte costituzionale non sarà, per Matteo Renzi, un interlocutore facile. Quando si occuperà di legge elettorale, o delle altre riforme-chiave del governo, lo farà con zero timore reverenziale e molta autonomia nei confronti del premier. Il presidente Paolo Grossi ne ha dato un saggio ieri, quando ha dichiarato in conferenza stampa che al referendum sulle trivelle «si deve votare». Aggiungendo: recarsi alle urne «fa parte della carta d’identità del buon cittadino». Per cui delle due l’una: o Grossi ignora che Renzi punta domenica su condizioni meteo tali da invogliare l’Italia ai primi tuffi in mare. Oppure lo sa, ma non se ne cura affatto. Più credibile la seconda. Perché al cronista che glielo ha chiesto avrebbe potuto tranquillamente ripetere quanto aveva appena detto a proposito delle intercettazioni: «Pronunciarmi sarebbe inopportuno e incauto». Invece sul diritto-dovere di voto ha voluto dire la sua. Questo giurista fiorentino di anni 82, professore da 53, con una proprietà lessicale d’altri tempi che lo porta a scrivere «intiero» anziché «intero», e «ufficii» anziché «uffici», sul referendum non si è tirato indietro e ha spiegato anzi che «è fatto per noi, per ognuno di noi», dunque guai a disertarlo. Chissà come l’hanno presa a Palazzo Chigi. Con entusiasmo, no di sicuro.
Idem quando Grosso ha parlato dei giudici, un po’ per rampognarli e un po’ per difenderli. Li ha trattati come somari nella ricca relazione sull’attività della Corte illustrata davanti a Sergio Mattarella e a tutte le più alte cariche. Parlano da soli i numeri, agghiaccianti: su 145 ricorsi sottoposti dai tribunali alla Consulta nel corso del 2015, solo 38 sono stati riconosciuti meritevoli. Altrettanti sono quelli dichiarati infondati, 10 i manifestamente infondati (cioè se ne sarebbe accorto anche un bambino), 27 gli inammissibili e, in un crescendo che si commenta da sé, 41 quelli manifestamente inammissibili, cui si aggiungono 11 restituzioni degli atti al giudice di origine. Tutte bocciature dovute, spiega con sadico puntiglio Grossi, al carattere «prematuro, astratto, apodittico, generico, ipotetico, ambiguo, ancipite, alternativo, oscuro, contraddittorio, incoerente, perplesso, indeterminato» delle questioni sollevate dai giudici. Qualche renziano si spellerà le mani nell’applauso; sbagliando, però, perché il presidente della Corte ha poi specificato: la colpa non è delle toghe bensì dei loro ritmi di lavoro. Vanno sempre di corsa e mancano del tempo per approfondire. Insomma, guai a presentare i giudici come dei fannulloni.
Interrogato sull’«Italicum», che secondo il premier è la madre di tutte le riforme, Grosso ha piantato due interessanti paletti. Il primo: quando sarà il momento, la legge elettorale verrà giudicata dalla Corte in base alla sua «ragionevolezza» (stesso criterio con cui il «Porcellum» venne bocciato). Secondo: la valutazione sulla costituzionalità sarà collegiale, ciascuno dei 15 giudici avrà voce in capitolo. Insomma, una partita apertissima. Sul piano politico, una mina vagante. 

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