martedì 26 aprile 2016

Rivoluzione e Terrore: una lettura moralista e psicopatologica che rimuove le contraddizioni oggettive

Cover: The Coming of the Terror in the French Revolution in HARDCOVERTimothy Tackett: The coming of the Terror in the French Revolution, Harvard University

Risvolto
Between 1793 and 1794, thousands of French citizens were imprisoned and hundreds sent to the guillotine by a powerful dictatorship that claimed to be acting in the public interest. Only a few years earlier, revolutionaries had proclaimed a new era of tolerance, equal justice, and human rights. How and why did the French Revolution’s lofty ideals of liberty, equality, and fraternity descend into violence and terror?
The Coming of the Terror in the French Revolution offers a new interpretation of this turning point in world history. Timothy Tackett traces the inexorable emergence of a culture of violence among the Revolution’s political elite amid the turbulence of popular uprisings, pervasive subversion, and foreign invasion. Violence was neither a preplanned strategy nor an ideological imperative but rather the consequence of multiple factors of the Revolutionary process itself, including an initial breakdown in authority, the impact of the popular classes, and a cycle of rumors, denunciations, and panic fed by fear—fear of counterrevolutionary conspiracies, fear of anarchy, fear of oneself becoming the target of vengeance. To comprehend the coming of the Terror, we must understand the contagion of fear that left the revolutionaries themselves terrorized.
Tackett recreates the sights, sounds, and emotions of the Revolution through the observations of nearly a hundred men and women who experienced and recorded it firsthand. Penetrating the mentality of Revolutionary elites on the eve of the Terror, he reveals how suspicion and mistrust escalated and helped propel their actions, ultimately consuming them and the Revolution itself.
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Le emozioni che trasformarono in Terrore gli ideali rivoluzionari 
Rivoluzione francese. Tra il 1792 e il 1793 l’imperio del raziocinio venne sostituito da una mentalità cospirativa, nutrita da un mix di fatti reali e altri immaginari: «The coming of the Terror in the French Revolution» di Timothy Tackett 
Francesco Benigno Manifesto 24.4.2016, 6:00 
Com’è possibile che individui attivamente impegnati nella cura del bene comune, dediti al culto della libertà e dei diritti umani e amanti della fratellanza si siano a un certo punto trasformati in efferati assassini, responsabili di quel periodo di inaudita violenza noto come il Terrore? Questo interrogativo, che già toglieva il sonno ai contemporanei e che ha poi appassionato e diviso generazioni di studiosi della Rivoluzione Francese, non cessa di essere attuale, e sta al centro dell’ultima riflessione di Timothy Tackett, The Coming of the Terror in the French Revolution (Harvard University, Belknap Press, pp. 463, $ 35, 00). Recenti traduzioni in italiano di testi sul periodo rivoluzionario – tra cui La Rivoluzione francese. Una storia intellettuale dai diritti dell’Uomo a Robespierre di Jonathan Israel, (Einaudi, 2016) e Rivoluzionari. Antropologia politica della Rivoluzione Francese di Haim Burstin (Laterza, 2016) mostrano un rinnovato interesse dell’editoria nazionale per la Grande Révolution e fanno ben sperare in una traduzione di questo libro. 
Tackett è infatti tra i più noti e maggiori studiosi viventi della Rivoluzione francese, autore di volumi sul clero di quegli anni e sulla fuga di Varennes (Un re in fuga, Il Mulino); oltre al fondamentale Becoming a Revolutionary (reso in italiano col bizzarro titolo di In nome del popolo sovrano, Carocci), con il quale ha sostenuto che non sono stati tanto i rivoluzionari a «fare» la Rivoluzione, quanto la Rivoluzione – una straordinaria trasformazione delle fondamentali strutture del vivere politico e sociale – a plasmare, e quindi a «fare», i rivoluzionari. 
Ora quest’ultimo volume continua idealmente il precedente, seguendo lo stesso orientamento «processuale», al punto che esso si sarebbe potuto chiamare Becoming a Terrorist, divenire terroristi. 
«Non è il potere che corrompe, ma la paura»Aung San Suu Kyi 
Significativa è poi l’epigrafe scelta da Tackett per il libro, una frase di Aung San Suu Kyi che recita: «Non è il potere che corrompe, ma la paura»; essa svela infatti l’intento dell’opera: valutare l’impatto delle emozioni, e in particolare della paura, sulla trasformazione di uomini normali, spesso generosi idealisti, in efferati omicidi. L’analisi delle emozioni della folla popolare, protagonista delle journées rivoluzionarie, non è certo una novità, anzi: una lunga tradizione di studi storico-sociologici che vanno dalla Psychologie des foules di Gustave Le Bon alla Grande peur di Georges Lefebvre ha indagato, in vario modo, la questione. 
L’innovazione di Tackett consiste però nello spostare l’attenzione dalle attitudini mentali delle masse popolari agli stati emotivi dei leader della Rivoluzione, noti e meno noti. Questa scelta risente di una recente tendenza in voga nella storiografia contemporanea, specie anglosassone, nota come «History of emotions». Di fronte al problema di spiegare il dark side della Rivoluzione, Tackett sceglie di usare proprio il grimaldello delle emozioni per penetrare la psicologia dei rivoluzionari, le loro ansie in un tempo che fu certamente carico di tensioni e profondamente inquietante, un tentativo dichiarato di trovare qualche via di uscita rispetto alla vera e propria morsa costituita dalle due interpretazioni tradizionali del Terrore, specularmente opposte ed entrambe insoddisfacenti: quella, classica, propria della storiografia progressista (da Aulard a Lefebvre a Soboul) che vede nel Terrore una risposta tragica alle «circostanze», e cioè la guerra, la carestia e la controrivoluzione; e l’altra, revisionista, tipica della storiografia conservatrice (da Taine a Cochin a Furet), che ne fa l’esito ineluttabile di un’ideologia rivoluzionaria d’ispirazione roussoiana e perciò radical-democratica, populista e tendenzialmente totalitaria. 
Occorre invece, afferma Tackett, superare la visione del rivoluzionario come di un individuo esclusivamente raziocinante, per studiarne le modificazioni emotive: l’unico processo in grado di spiegare l’affermarsi della logica del terrore; ovvero – usando il linguaggio poetico di William Blake – la coesistenza, in uno stesso individuo, dell’agnello e della tigre. 
Spesso gli storici, per approfondire gli aspetti più intimi e minuti, i turbamenti psicologici dei protagonisti del palcoscenico rivoluzionario, hanno usato le memorie. Questi testi però, scritti a distanza di tempo dai fatti narrati, paiono giustamente a Tackett inadatti ai suoi fini, ed egli usa perciò solo documenti che consentono di rilevare la variabilità degli stati d’animo, le reazioni, per così dire, «in presa diretta», agli eventi che vanno occorrendo: vale a dire lettere, diari e altri scritti immediati. In effetti, da questi documenti si riscontra in abbondanza ciò che sarebbe invero strano non trovarvi: di fronte a rivolgimenti di enorme impatto, coloro che ne sono coinvolti manifestano gioia, speranza, illusione, rabbia, disgusto e così via. Ma soprattutto un’emozione domina su tutte: la paura. 
È la paura che fa vedere cose che non ci sono ed è sempre la paura a «illuminare» fatti realmente avvenuti con ipotesi indimostrate e supposizioni improbabili. Paura del caos, dell’invasione straniera, della vendetta monarchica, ma soprattutto paura della cospirazione. Qui Tackett riprende la classica tesi di Richard Hofstadter, che tanto ha influenzato la politologia statunitense, sul cosiddetto paranoyd style of politics. La circolazione incontrollata di rumors e la sfrenata prassi delle denunce per svelare «i nemici tra noi», i reazionari che indossano la maschera di patrioti, inducono uno stato di allerta continuo, che trova il suo modello letterario classico nel racconto sallustiano e nella difesa ciceroniana della Repubblica dalle trame di Catilina. 
L’emergere nel processo rivoluzionario, tra il 1792 e il 1793, di una mentalità cospirativa ossessiva, nutrita da una mescola inscindibile di fatti reali e di trame immaginarie, sarebbe dunque tra le cause più significative del Terrore. Non l’unica, perché Tackett, con molto buonsenso è incline a lasciare spazio ad altre concause, tra cui soprattutto la crisi di ogni potere costituito e l’attività controrivoluzionaria, segnata da avvenimenti clamorosi come la fuga di Varennes e i tradimenti dei generali La Fayette e Dumouriez. Tra esse tuttavia colpisce la mancanza di una riflessione su ciò che potremmo chiamare «l’uso politico delle emozioni». Può certo accadere che un individuo sia direttamente spettatore di eventi eclatanti e capaci di suscitare ansia o paura. Più spesso però la sua percezione dei fatti che vanno accadendo è mediata dal circuito comunicativo, a quel tempo essenzialmente costituito dalla stampa, dai pettegolezzi e dalle performances oratorie esibite sui banchi dell’Assemblea nazionale, tra i tavoli dei caffè o agli angoli delle strade. 
Il problema è che nella sfera pubblica dell’epoca esistevano precise conoscenze su come suscitare le emozioni, consumate strategie retoriche volte a infiammare il popolo, inducendo rabbia e indignazione. Il tema così cruciale della creazione e dello sfruttamento delle emozioni è dunque parte non irrilevante di quello che potremmo chiamare il coinvolgimento emotivo: che perciò non è solo una creazione intima, spontanea, autopoietica, come Tackett sembra credere, ma anche qualcosa di scientemente costruito. Jean-Paul Marat, per dire, sapeva bene come eccitare la gente e le pagine infiammate dell’Ami du peuple erano capaci di produrre emozioni violente e anche azioni sanguinarie: come mostra il gesto di Charlotte Corday, che non aveva mai conosciuto personalmente Marat: le era bastato leggerlo.

Le emozioni che trasformarono in Terrore gli ideali rivoluzionari 
Rivoluzione francese. Tra il 1792 e il 1793 l’imperio del raziocinio venne sostituito da una mentalità cospirativa, nutrita da un mix di fatti reali e altri immaginari: «The coming of the Terror in the French Revolution» di Timothy Tackett
Francesco Benigno Manifesto 23.4.2016, 18:47 
Com’è possibile che individui attivamente impegnati nella cura del bene comune, dediti al culto della libertà e dei diritti umani e amanti della fratellanza si siano a un certo punto trasformati in efferati assassini, responsabili di quel periodo di inaudita violenza noto come il Terrore? Questo interrogativo, che già toglieva il sonno ai contemporanei e che ha poi appassionato e diviso generazioni di studiosi della Rivoluzione Francese, non cessa di essere attuale, e sta al centro dell’ultima riflessione di Timothy Tackett, The Coming of the Terror in the French Revolution (Harvard University, Belknap Press, pp. 463, $ 35, 00). Recenti traduzioni in italiano di testi sul periodo rivoluzionario – tra cui La Rivoluzione francese. Una storia intellettuale dai diritti dell’Uomo a Robespierre di Jonathan Israel, (Einaudi, 2016) e Rivoluzionari. Antropologia politica della Rivoluzione Francese di Haim Burstin (Laterza, 2016) mostrano un rinnovato interesse dell’editoria nazionale per la Grande Révolution e fanno ben sperare in una traduzione di questo libro. 
Tackett è infatti tra i più noti e maggiori studiosi viventi della Rivoluzione francese, autore di volumi sul clero di quegli anni e sulla fuga di Varennes (Un re in fuga, Il Mulino); oltre al fondamentale Becoming a Revolutionary (reso in italiano col bizzarro titolo di In nome del popolo sovrano, Carocci), con il quale ha sostenuto che non sono stati tanto i rivoluzionari a «fare» la Rivoluzione, quanto la Rivoluzione – una straordinaria trasformazione delle fondamentali strutture del vivere politico e sociale – a plasmare, e quindi a «fare», i rivoluzionari. 
Ora quest’ultimo volume continua idealmente il precedente, seguendo lo stesso orientamento «processuale», al punto che esso si sarebbe potuto chiamare Becoming a Terrorist, divenire terroristi. 
«Non è il potere che corrompe, ma la paura»Aung San Suu Kyi 
Significativa è poi l’epigrafe scelta da Tackett per il libro, una frase di Aung San Suu Kyi che recita: «Non è il potere che corrompe, ma la paura»; essa svela infatti l’intento dell’opera: valutare l’impatto delle emozioni, e in particolare della paura, sulla trasformazione di uomini normali, spesso generosi idealisti, in efferati omicidi. L’analisi delle emozioni della folla popolare, protagonista delle journées rivoluzionarie, non è certo una novità, anzi: una lunga tradizione di studi storico-sociologici che vanno dalla Psychologie des foules di Gustave Le Bon alla Grande peur di Georges Lefebvre ha indagato, in vario modo, la questione. 
L’innovazione di Tackett consiste però nello spostare l’attenzione dalle attitudini mentali delle masse popolari agli stati emotivi dei leader della Rivoluzione, noti e meno noti. Questa scelta risente di una recente tendenza in voga nella storiografia contemporanea, specie anglosassone, nota come «History of emotions». Di fronte al problema di spiegare il dark side della Rivoluzione, Tackett sceglie di usare proprio il grimaldello delle emozioni per penetrare la psicologia dei rivoluzionari, le loro ansie in un tempo che fu certamente carico di tensioni e profondamente inquietante, un tentativo dichiarato di trovare qualche via di uscita rispetto alla vera e propria morsa costituita dalle due interpretazioni tradizionali del Terrore, specularmente opposte ed entrambe insoddisfacenti: quella, classica, propria della storiografia progressista (da Aulard a Lefebvre a Soboul) che vede nel Terrore una risposta tragica alle «circostanze», e cioè la guerra, la carestia e la controrivoluzione; e l’altra, revisionista, tipica della storiografia conservatrice (da Taine a Cochin a Furet), che ne fa l’esito ineluttabile di un’ideologia rivoluzionaria d’ispirazione roussoiana e perciò radical-democratica, populista e tendenzialmente totalitaria. 
Occorre invece, afferma Tackett, superare la visione del rivoluzionario come di un individuo esclusivamente raziocinante, per studiarne le modificazioni emotive: l’unico processo in grado di spiegare l’affermarsi della logica del terrore; ovvero – usando il linguaggio poetico di William Blake – la coesistenza, in uno stesso individuo, dell’agnello e della tigre. 
Spesso gli storici, per approfondire gli aspetti più intimi e minuti, i turbamenti psicologici dei protagonisti del palcoscenico rivoluzionario, hanno usato le memorie. Questi testi però, scritti a distanza di tempo dai fatti narrati, paiono giustamente a Tackett inadatti ai suoi fini, ed egli usa perciò solo documenti che consentono di rilevare la variabilità degli stati d’animo, le reazioni, per così dire, «in presa diretta», agli eventi che vanno occorrendo: vale a dire lettere, diari e altri scritti immediati. In effetti, da questi documenti si riscontra in abbondanza ciò che sarebbe invero strano non trovarvi: di fronte a rivolgimenti di enorme impatto, coloro che ne sono coinvolti manifestano gioia, speranza, illusione, rabbia, disgusto e così via. Ma soprattutto un’emozione domina su tutte: la paura. 
È la paura che fa vedere cose che non ci sono ed è sempre la paura a «illuminare» fatti realmente avvenuti con ipotesi indimostrate e supposizioni improbabili. Paura del caos, dell’invasione straniera, della vendetta monarchica, ma soprattutto paura della cospirazione. Qui Tackett riprende la classica tesi di Richard Hofstadter, che tanto ha influenzato la politologia statunitense, sul cosiddetto paranoyd style of politics. La circolazione incontrollata di rumors e la sfrenata prassi delle denunce per svelare «i nemici tra noi», i reazionari che indossano la maschera di patrioti, inducono uno stato di allerta continuo, che trova il suo modello letterario classico nel racconto sallustiano e nella difesa ciceroniana della Repubblica dalle trame di Catilina. 
L’emergere nel processo rivoluzionario, tra il 1792 e il 1793, di una mentalità cospirativa ossessiva, nutrita da una mescola inscindibile di fatti reali e di trame immaginarie, sarebbe dunque tra le cause più significative del Terrore. Non l’unica, perché Tackett, con molto buonsenso è incline a lasciare spazio ad altre concause, tra cui soprattutto la crisi di ogni potere costituito e l’attività controrivoluzionaria, segnata da avvenimenti clamorosi come la fuga di Varennes e i tradimenti dei generali La Fayette e Dumouriez. Tra esse tuttavia colpisce la mancanza di una riflessione su ciò che potremmo chiamare «l’uso politico delle emozioni». Può certo accadere che un individuo sia direttamente spettatore di eventi eclatanti e capaci di suscitare ansia o paura. Più spesso però la sua percezione dei fatti che vanno accadendo è mediata dal circuito comunicativo, a quel tempo essenzialmente costituito dalla stampa, dai pettegolezzi e dalle performances oratorie esibite sui banchi dell’Assemblea nazionale, tra i tavoli dei caffè o agli angoli delle strade. 
Il problema è che nella sfera pubblica dell’epoca esistevano precise conoscenze su come suscitare le emozioni, consumate strategie retoriche volte a infiammare il popolo, inducendo rabbia e indignazione. Il tema così cruciale della creazione e dello sfruttamento delle emozioni è dunque parte non irrilevante di quello che potremmo chiamare il coinvolgimento emotivo: che perciò non è solo una creazione intima, spontanea, autopoietica, come Tackett sembra credere, ma anche qualcosa di scientemente costruito. Jean-Paul Marat, per dire, sapeva bene come eccitare la gente e le pagine infiammate dell’Ami du peuple erano capaci di produrre emozioni violente e anche azioni sanguinarie: come mostra il gesto di Charlotte Corday, che non aveva mai conosciuto personalmente Marat: le era bastato leggerlo.

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