sabato 2 aprile 2016

Robertino Chiagne & Fotte imbratta Dante Virgili

La distruzione
Avevo le fotocopie. Atterrito dall'idea di dover comprare un libro con la prefazione di Saviano, ho ordinato la copia a tiratura limitata che potete trovare anche su fb [SGA].

Dante Virgili: La distruzione, Il Saggiatore pagg. 318 euro 23

Risvolto

Un uomo repellente e luciferino, abbandonato a se stesso nell’orrore di un’estate milanese, sogna
l’apocalisse nucleare e rimpiange il Terzo Reich. È stato interprete per le SS, ha amato e perduto una donna di nome Bianca. Adesso che la guerra è finita, lavora come correttore di bozze per un giornale, insegue giovani cameriere e garzoni spinto da un’ossessione sadomasochista e da ciò che resta di una turpe volontà di potenza. È il 1956, la crisi di Suez gli sembra il preludio alla Terza guerra mondiale, una guerra che agogna, igiene di un Occidente immondo che odia, come odia se stesso.
La distruzione, primo romanzo italiano apertamente nazista, apparve per Mondadori nel 1970,
mentre il mondo celebrava l’illusione di un futuro di pace e di palingenesi collettiva. Nei due anni precedenti, alcuni dei maggiori intellettuali italiani – tra loro Sereni, Giudici e Parazzoli – valutarono l’opportunità della sua pubblicazione. Doveva essere una bomba a orologeria, accendere polemiche, stanare benpensanti, rivitalizzare come un elettroshock la scena letteraria nazionale con l’irruenza di Céline o de Sade. Non se ne accorse nessuno. Da allora, però, l’opera di Virgili riemerge ciclicamente come un incubo, interrogando con le sue sinistre profezie, con la sua bruciante inattualità.
È l’odio a essere messo in opera in questo romanzo, un odio senza appello, che permea una lingua sfaldata, lirica pur nella sua polifonica schizofrenia, squarciata in improvvise accelerazioni morbose, nei ritorni di un tedesco mai rimosso che invade la prosa, nelle intrusioni del mondo che erompono sulla pagina come esplosioni dal sottosuolo. Un’invettiva deviata che violenta il reale e lo ricrea, lo trasforma in visione, in furore profetico: «VEDO i grattaceli di acciaio sotto un diluvio di fiamme» scrive Virgili, preconizzando la caduta delle Torri gemelle e prefigurando un universo postremo in cui l’uomo non può sopravvivere a se stesso.
Il Saggiatore riporta La distruzione in libreria, con un’introduzione di Roberto Saviano che ne illumina le zone d’ombra, dischiudendo quest’opera traumatica e veggente, dominata da un senso totalitario della letteratura: le parole di Dante Virgili ci chiamano ancora una volta a riconoscerci nel disgusto del presente, nella schiuma dell’umano, nella fragilità del male.

Dante Virgili
è nato nel 1928 e morto nel 1992. Scrisse due libri, La distruzione e Metodo della
sopravvivenza. Di lui non esiste nemmeno una fotografia.
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Odio. Odio vivo, sanguinante, pulsante. Odio vero, non gioco di prestigio, sotterfugio letterario, pigro sfogo di penna. Odio, odio, odio. Scriverlo tre volte di seguito forse basterà nella somma a far intuire cosa ha scritto e chi è stato Dante Virgili. I francesi, in letteratura, sanno quando si parla d’odio vero, con che cosa si ha a che fare. Louis-Ferdinand Céline, che non abbisogna altro che d’esser citato, Blaise Cendrars e la sua mano mozza, artefice di pagine dove l’odio umano vibra in un incredibile meccanismo armonioso, e il padre assoluto degli odiatori, Charles Baudelaire, sono autori capaci d’usare la parola come arnese acuminato contro tutto ciò che si pone a portata d’affondo, di staffilata. L’odio totale non ha un obiettivo preciso, o un piano d’accusa, è un’irradiazione circolare che investe ogni elemento e soprattutto l’origine
del proprio odio: se stessi. Nell’attività dell’odiatore letterario vi sono oggetti prediletti, preferenze di distruzione, precedenze di disprezzo ma non v’è una chiara gerarchia e ancor più non v’è una politica dell’odio, una possibilità di soluzione dialettica tra odiatore e odiato. È una scrittura fatta col martello!
Torna ora in libreria Dante Virgili, non me l’aspettavo, credevo ormai che non avrebbe mai più rivisto scaffale, che sarebbe rimasto nelle mani di chi già sprovvedutamente ne avesse preso rara copia. Detto ciò, prendete le pagine di Dante Virgili e schiacciatele con un pestello in un robusto mortaio di pietra viva, dopo pochissime pestate nel fondo del mortaio troverete un liquido bilioso, denso, simile a un bolo di catarro narrativo e rigagnoli di sangue, un pasticcio d’ossa umane e ali di falena. Non mi sovviene altra figura descrittiva per meglio rappresentare la scrittura di questo osceno narratore ritrovato. Il nome Dante Virgili è sconosciuto ai più. Anche gli addetti ai lavori non ricordano questo strano nome, anzi si arrovellano nel cercare di venire a capo di uno pseudonimo così assurdo da sembrare banale. Nessuno pseudonimo. Dante Virgili è il nome reale dell’unico scrittore “nazista” italiano, autore di un solo romanzo pubblicato (e con diversi pseudonimi autore di molti romanzi western e libri per ragazzi), personaggio solitario, ipocondriaco, di lui non esiste neanche una fotografia. Quando è morto nessun familiare ha voluto spendere un obolo per fargli il funerale, nessun amico ha sofferto, nessuna lacrima, nessuna presenza. Dante Virgili faceva schifo a tutti e tutti gli facevano schifo, o quasi.
Nel 1970 la Mondadori pubblica un romanzo, La distruzione, in copertina campeggia il volto di Adolf Hitler in una sua smorfia tipica, costruita con una molteplicità di colori a chiazze. Una grafica particolare per un testo davvero singolare. Il libro è provocatorio, dannatamente tormentato, un inno disperato al nazismo e al Führer come negazione assoluta di un presente decadente e decaduto. Il libro di Dante Virgili è una cassa di nitroglicerina pronta a esplodere. Sogna stroncature, si immagina fiaccolate contro di lui, raccolte di firme che lo indichino come bersaglio. Invece, il romanzo è ignorato. Gli ambienti politici non lo considerano, i cenacoli intellettuali non lo detestano, non lo stroncano. Virgili e La distruzione sono riassorbiti nell’oblio.
Il protagonista è un uomo brutto, che lavora come correttore di bozze in un giornale squallido, burocratizzato, circondato da mediocrità e stupidaggine. Sogna la fine dell’umanità, gode nell’immaginare la tragedia ultima di una guerra nucleare che possa far terminare «l’esperimento umano, come quello dei dinosauri». Il distruttore non ha famiglia, non ha moglie né figli, osserva la politica internazionale nella speranza che i tempi per il conflitto nucleare si velocizzino, che la catastrofe sia prossima. Il distruttore ha nostalgia del Reich, ammira la Germania di Hitler, adora le possenti armate tedesche, ha svolto il ruolo di traduttore per le Ss, durante l’occupazione tedesca in Italia, ha assistito estatico a Berlino a un discorso del Führer. Eppure Dante Virgili non sembra essere un intellettuale conservatore. Predilige il suono del cingolato, la marcia della Wermacht, la protervia del soldato; gli scenari di sangue che appaiono nella sua mente gli ricordano, nella melma della pigrizia, cosa può ancora significare essere uomo. «Ho evitato la mediocrità. Moglie scialba prole male allevata. Accettando la pura sopravvivenza non mi sono compromesso. Vivendo in attesa della vendetta non mi sono alienato. Sono ancora IO... In ultimo un conflitto nucleare mi salverà. È fatale che scoppi prima o poi. DEVE scoppiare. Si strazieranno a vicenda bruceranno vivi nel loro calderone di streghe. Si macereranno in un’orgia di fuoco».
La libidine e la Germania sono due cardini, due ossessioni che tempestano il romanzo. Il sadomasochismo, spinto sino ad aneliti pornografici, è una costante per Virgili che lo usa con un accento misogino. Il distruttore considera la donna null’altro che la vita trionfante che si manifesta in tutta la sua versatilità. Trionfo della vita, che nel tempo del capitalismo significa trionfo della merce, attrazione per il danaro, rapporti finalizzati all’accumulare finanze. Il distruttore vede nella possibilità di pagare le donne un mezzo per dominarle, per esperire il potere su quegli esseri che essendo lui squattrinato, brutto e trascurato, non si avvicinerebbero mai.
Nel suo libro Cronaca della fine Antonio Franchini racconta della vicenda umana e intellettuale di Dante Virgili, della complicatissima vicenda editoriale dei suoi scritti, delle sue manie di tormentare i funzionari della Mondadori. Molti funzionari si erano legati a Virgili, nonostante la sua insistenza, antipatia, spesso tracotanza. Insomma Virgili, pur avendo tutte le caratteristiche del solito aspirante scrittore, scocciatore e rompiballe, aveva lasciato traccia di sé nella casa editrice.
Il suo primo romanzo fu pubblicato quasi come tentativo provocatorio, l’altro testo fu bocciato, eppure quando Dante Virgili si presentava, fisicamente, alla Mondadori, un capannello di persone gli si raccoglieva d’intorno. Cosa vedevano questi funzionari nelle pagine e nella vita di Virgili? Solo curiosità per un mostro metropolitano, nascosto al terzo piano di un qualsiasi palazzo a imbrattare fogli? Giuseppe Genna, Michele Monina e Ferruccio Parazzoli scrissero un bel libro dal titolo I Demoni dove il personaggio Dante Virgili (modificato in Dante Virgilio) è mostrato in tutto il suo aspetto mitico, amalgamato agli spettri dostoevskijani di cui sembra essere figlio abortito. Proprio la magica impubblicabilità di Virgili, rende le sue pagine così importanti e necessarie, ma d’una necessità che trascende il piano d’un romanzo. Le parole di Virgili marchiate a fuoco su pagine bianche, potranno anche esser pubblicate, ma manterranno la loro labirintite scompaginata, l’accumulazione parossistica d’odio ed efferatezza, la tenerezza nascosta di un’umanità in letargo. Virgili non è da leggere ma da iniettare.
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