lunedì 4 aprile 2016

Una disputa assai carente su monoteismo, dogmatismo e violenza tra Canfora e Von Kaiser

L’idea di un libro sacro come unica fonte della verità induce a cercare la salvezza nella lotta agli «infedeli»
di Luciano Canfora Corriere La Lettura 3.4.16
«La bomba all’Étoile ha chiuso Parigi in una morsa di terrore» scriveva vent’anni fa, il 20 agosto 1995, Igor Man, su «La Stampa» di Torino in un elzeviro intitolato Maometto e le nostre paure. E ancora: «L’apertura al culto della moschea di Roma, gli arresti di presunti terroristi islamici prima a Roma, poi a Milano, l’orrificante lotta al coltello in Algeria tra militari e “barbuti”, l’attentato a Mubarak in furiosa lotta contro gli integralisti egiziani». Cambiati alcuni nomi, sembra la cronaca di oggi. La diagnosi suggerita da Man era: «Smaltita la sbornia del consumismo che aggrava l’ignoranza poiché la vita facile allontana dai giornali, dai libri, dalla riflessione pura e semplice, cominciamo ad accorgerci che non esistiamo solo noi, che gli immigrati sono la cima di una immensa massa montagnosa, chiamata Sud. Il Sud del Mediterraneo, del mondo occidental-cristiano. Un Sud povero, arrabbiato. Fatto di persone che si sentono tradite. Da noi: dall’Europa egoista, catafratta nel suo declinante benessere». Il pezzo, ricco di suggerimenti bibliografici, aveva come occhiello: Per non demonizzare l’islam .
Oggi questo genere di diagnosi, che peraltro andrebbe resa meno schematica e arricchita di fattori quali l’appoggio Usa ai talebani afghani contro il governo laico pro-sovietico, la complicità tra l’Occidente sedicente cristiano e le oligarchie ipermusulmane e straricche come quella saudita ovvero con semidittature fondamentaliste quale la Turchia di Erdogan, non basta più: non ci soddisfa. E se formulata in quel modo manicheo, appanna anche il fondo di verità che pur contiene.
La questione che ancora oggi si agita è dunque se l’elemento religioso sia il fattore scatenante e determinante della guerra in atto, guerra che è andata molto avanti rispetto agli anni in cui Man si esprimeva in quel modo; o se la religione sia il veicolo primordiale con cui si esprimono fattori di altro genere, soprattutto materiali. Va da sé che le religioni hanno una forza mobilitante che nessun movimento politico riesce ad eguagliare se non facendosi esso stesso religione o «mistica» (il nazismo ad esempio), ma ciò non deve farci perdere di vista che esse si sviluppano a partire da fattori concreti e profondi. Fattori che, in determinati periodi storici prendono quella forma, e in alcuni casi conseguono un successo travolgente.
Questo accadde all’islam, la cui espansione tra VII e IX secolo dalla Mesopotamia alla Spagna fu altrettanto travolgente quanto lo era stata, nella stessa area geografica, la diffusione del cristianesimo tra IV e V secolo. L’Alessandria — metropoli mediterranea per eccellenza — del tempo di Filone Ebreo e di Caligola e poi di Caracalla, dilaniata da conflitti tra masse ellenistico-pagane e minoranza ebraica, cedette dopo secoli il passo alla Alessandria dei terribili vescovi cristiani Teofilo e Cirillo (distruttore il primo del Serapeo e istigatore dell’assassinio di Ipazia il secondo). E questa Alessandria fanaticamente cristiana fu a sua volta cancellata, se così si può dire, dalla Alessandria di Amr, distruttore — secondo una leggenda sorta molto dopo — dei libri «diversi dal Corano» conservati ancora nella città che era stata simbolo e vanto della realtà bibliotecaria.
Sorge a questo punto la domanda se siano soprattutto le religioni di salvezza a forte impianto monoteistico quelle che contengano dentro di sé non soltanto una potente capacità di attrazione sulle masse, ma anche un robusto corollario di intolleranza, terreno di coltura di una idea altrettanto monocratica dell’ordinamento politico. La simbiosi tra cristianesimo trionfante e impero tardoantico (e poi bizantino e, a Occidente, carolingio) nonché tra islam e forma politica del Califfato (Chiesa, Stato e Comunità sono nella visione giuridica della Sharia una cosa sola) farebbero propendere per una risposta affermativa. Opere discusse, come la monumentale S toria criminale del cristianesimo di Karlheinz Deschner, edita in Germania da Rowohlt e in Italia dalle meno note edizioni Ariele di Milano, portano ampia documentazione di una storia che è, largamente, storia di intolleranza omicida.
Ma questo non significa affatto che le religioni non monoteistiche siano, per tale loro natura, tolleranti o propizie al pluralismo politico e ideologico. Una giuria popolare ateniese mandò a morte Socrate con l’accusa di «non credere agli dèi della città». E analoga sorte sarebbe toccata al filosofo e scienziato Anassagora, se questi non si fosse sottratto per tempo a un assurdo processo. E un secolo più tardi Aristotele, nell’Atene dominata dai sempreverdi capi della democrazia, si sottrasse fuggendo a un processo per empietà. Ed è una tradizione greca di pensiero critico, che prende avvio dal sofista Crizia, che addita nella religione uno strumento di controllo etico e politico. Il che, secoli dopo, pensava lo storico Polibio, ammiratore dell’uso romano della religione come instrumentum regni .
L’altra faccia della questione però è che il mondo greco, non possedendo il libro «unico» e «unico detentore della verità» tipico dei monoteismi, consentiva una rigogliosa reinterpretazione del mito in varianti innumerevoli, documentate per noi dalla superstite produzione dei tragediografi ateniesi. Varianti mai percepite come eresie, diversamente da quel che accade nel caso delle «religioni del libro». Ovviamente ogni tentativo di frigida reviviscenza pagana può avere, per tenerci all’esperienza novecentesca, o effetti comici (il circolo di Stefan George) o criminali (il neopaganesimo nazista).
Il fatto è che la polarità politeismo/monoteismo può apparire, in casi storicamente molto significativi, come una semplificazione depistante. Basti pensare al piano inclinato in direzione del politeismo che sta dentro caposaldi, sia teologici che empirici, cristiani quali la trinità o il culto dei santi, e, per altro verso, alla evoluzione in senso deistico, cioè di venerazione di una astratta entità divina ( to theion) che connota il politeismo pagano, sempre più col passare dei secoli, per influsso del pensiero filosofico.
Questo fenomeno sincretistico, di depurazione delle rigidità teologiche, è inarrestabile, soprattutto ai vertici e tra i seguaci acculturati delle varie confessioni. Da tempo un tale processo ha investito le varie confessioni cristiane: tra alti e bassi da almeno mezzo secolo. La contrapposizione cattolici versus chiese riformate si appanna sempre più, e l’ecumenismo che si protende anche verso ambienti greco-ortodossi ed ebraici, e trova sponde, non è che deismo inconfessato, anche se tuttora bardato di lessico e rituali specifici (cari alle masse). Ma questi rassomigliano sempre più alla difesa del simbolo tradizionale (l’altare della vittoria) da parte di un colto senatore pagano come Simmaco, il quale, cercando di fare breccia nell’oltranzismo del vescovo Ambrogio, formulava idee quasi illuministiche: «Tutto ciò che tutti adorano — egli scriveva — è giusto reputarlo una sola cosa», e ancora, premesso che tutti in vario modo cercano il vero: «Non per una sola via si può giungere a un così grande mistero» (Relatio Tertia all’imperatore).
Parole come queste oggi risuonano negli incontri di impianto ecumenico tra confessioni diverse. Se l’islam contiene ancora dentro di sé l’ala marciante che vede la via della salvezza nella eliminazione degli «infedeli», ciò significa che esso rispecchia, nel suo sviluppo storico, una fase che corrisponde a  quella del cristianesimo nei secoli XVI e XVII, il cui simbolo è la notte di San Bartolomeo. 

Processo al monoteismo 2 La difesa Una rivoluzione egualitaria

Il pagano passa da un idolo all’altro senza via d’uscita. Solo l’infinitamente Altro può liberarci dalla schiavitù

di Donatella Di Cesare Corriere La Lettura 3.4.16
Cosa c’è di più facile, nel contesto politico odierno, che leggere il conflitto globale come una guerra scatenata dal sacro contro la laicità, addossandone la colpa al Dio unico? Ecco, dunque, il vero colpevole, la causa scatenante, il fondamento ultimo. «Dio non è grande» — gli vanno imputati oscurantismo, superstizione, intolleranza. L’atto d’accusa, che viene ripetuto ormai da tempo, si compendia, anzi, nel refrain: «Dio è violenza».
Gli esempi da addurre sarebbero innumerevoli. Ma basta a tal fine sfogliare le pagine del libro di Michel Onfray Trattato di ateologia (Fazi), che in Francia ha avuto anni fa un grande successo di pubblico, giungendo a vendere 150 mila copie. Il bersaglio di Onfray è il monoteismo, contro cui si scaglia senza mezzi termini: «Il monoteismo parteggia per la pulsione di morte, ama la morte, è affezionato alla morte, gode della morte, è affascinato da essa». Uccisioni, massacri, crimini efferati: «Dietro tutti questi abomini, versetti della Torah, brani dei Vangeli, sure del Corano, che legittimano, giustificano e benedicono».
Vale la pena sottolineare che tesi analoghe circolano diffusamente nel contesto italiano e, sebbene formulate con accenti e forme diverse, sono rinvenibili nella letteratura più recente. Ma la posizione di Onfray, che molto deve ai libri di Jean Soler, è emblematica anche per altri motivi. Anzitutto perché, dovendo colpire la fonte del monoteismo, sferra l’attacco contro gli ebrei. «Onore al merito. Gli ebrei che inventano il monoteismo, inventano tutto ciò che ad esso si accompagna». In particolare inventano la «guerra santa». Il jihad sarebbe contenuto nella Torah. «Un Dio unico, bellicoso, impietoso, un combattente spietato, capace di galvanizzare le sue truppe e di sterminare i nemici senza battere ciglio»: questo sarebbe il Dio degli ebrei, i quali non avrebbero mai preso le distanze. «Nessun responsabile del popolo eletto ha deciso che queste pagine sono favole». Passato inosservato al mondo ebraico italiano, il libro di Onfray ha suscitato aspre critiche in Francia. Shmuel Trigano, una delle voci più autorevoli dell’ebraismo francese, lo ha accusato di «enorme violenza» e di quella «profonda incultura» che apre le porte all’antisemitismo.
Nelle pagine di Onfray affiora una tesi che ha un rilievo non solo teologico, ma anche politico. «Ogni teocrazia rende impossibile la democrazia». Il riferimento è ancora al popolo ebraico che porta sia la responsabilità del Dio unico sia l’idea stessa della teocrazia.
L’equiparazione tra il Dio unico, il pensiero unico e il regime totalitario è stata sviluppata, a un ben altro livello, dall’egittologo Jan Assmann. Erede della tradizione tedesca, dove questo tema era già stato toccato a più riprese, Assmann punta il dito contro l’intolleranza insita nel monoteismo. In un suo libro molto fortunato, ma anche molto controverso, parla di «distinzione mosaica» per indicare la «svolta» dal politeismo al monoteismo che segnerebbe, per la prima volta, il limite tra il vero Dio e i falsi dèi. Questa svolta, di cui è protagonista Israele, appare agli occhi di Assmann un decadimento. Il Dio che si presume eletto vuole scalzare gli altri dèi — geloso e intollerante, non può sopportarli accanto a sé e perciò, pretendendo di essere l’unico vero Dio, vuole far passare gli altri per falsi dèi, idoli.
Prima le religioni antiche si tolleravano a vicenda; i popoli non facevano perciò fatica a mettere in relazione i loro dèi, anzi a equipararli. Solo quando entra in scena Israele, ha inizio la «guerra santa», viene inaugurata la violenza che gli altri monoteismi, il cristianesimo e l’islam si limitano a riprendere in forma più blanda. Studioso di teologia politica, Assmann compie un passo ulteriore: il monoteismo viene visto come il paradigma teologico della dittatura. Il politeismo permetterebbe invece l’apertura democratica e il confronto pluralistico. Dove ci sono gli dèi, c’è tolleranza; dove domina il Dio unico, c’è violenza.
L’opera di Assmann ha suscitato un acceso dibattito. Accolta con favore in Europa, in particolare in Germania, è stata criticata, con validi argomenti, soprattutto da parte ebraica. Il che ha spinto Assmann a correggere la sua tesi riconoscendo che nel libro dell’Esodo non gioca alcun ruolo la distinzione tra vero e falso, mentre decisiva è quella tra schiavitù e libertà. Sebbene Assmann abbia proclamato l’ebraismo «religione della differenza», indifferente agli dèi degli altri, resta il suo impianto accusatorio contro il monoteismo. In molti lo hanno rilanciato — da ultimo anche Peter Sloterdijk nel libro intitolato All’ombra del Sinai.
Ma che cosa vuol dire «Dio»? Non è forse una parola usata troppo spesso senza riflettere sul suo significato e sulla sua etimologia? «Dio» rinvia a Zeus, a Giove, infine a un nume della volta celeste; soprattutto è il nome comune di una classe, quella appunto degli dèi. È questo il Dio della Torah? Il «Dio» che ricapitola in sé gli altri, l’unico a restare di una serie di dèi? Certo che no. Perché questo «Dio» manterrebbe un saldo legame con gli dèi. Nella Torah compare invece il Tetragramma, quattro lettere non vocalizzabili, a indicare il Nome proprio (non comune) dell’assolutamente Altro. Non pronunciarlo! — perché sarebbe come pretendere di definirlo. Piuttosto, mentre leggi, fermati, e leva lo sguardo in alto.
Rivoluzionario è il passaggio dal politeismo al monoteismo. Lo sottolinea Jacob Taubes con parole che Assmann sembra aver dimenticato. Il pagano cerca il numinoso e il sacro: una stella è una dea, un fiume è un dio. Va da un idolo all’altro, incapace di uscire dal mondo. Si tormenta, perché si accorge di essere migliore dei suoi dèi in quell’universo tragico dove non c’è ordine etico. Ma la sua breve rivolta non è che il sintomo della sua «morale infantilità», come la chiama Walter Benjamin, dell’impossibilità, cioè, di trovare la via dell’esodo e della liberazione.
Israele de-sacralizza il mondo, toglie la magia, rompe con l’idolatria. Nessun cedimento può essere ammesso — neppure verso l’immanenza delle immagini, verso il sacro che si spazializza. Perciò l’ebraismo potrebbe persino assomigliare all’ateismo. E corre questo rischio. Perché il monoteismo ebraico richiede di rapportarsi all’infinitamente Altro a partire dalla separazione. Dubbio, solitudine, rivolta devono già essere stati attraversati. Al Nome impronunciabile che, separato dalle numerose divinità locali, guiderà la storia universale, gli ebrei restano fedeli nei secoli. Quale deve essere stata l’irritazione dei soldati romani quando, entrati nel Tempio, videro che era vuoto. Come poteva quel popolo sovrano adorare con tanto fervore l’Assenza, così presente, di un infinitamente Altro?
D’accordo — si dirà — non si può proiettare, come fa anche Assmann, la concezione pagana di Dio sull’ebraismo. Ma non si deve forse ammettere che il monoteismo ebraico è un paradigma totalitario, che non ci può essere democrazia dove esiste la teocrazia? Per rispondere basta riprendere le pagine di Spinoza. Secondo un’etimologia antica Israel vuol dire «che Dio regni», e può essere tradotto in greco con teocrazia, potere di Dio. In questa forma politica «nessuno è asservito a un suo uguale». La teocrazia, che resta un ideale regolativo, è per Spinoza condizione della democrazia. Nel patto stretto con il Dio sovversivo dell’Esodo, nell’esperienza della liberazione dalla schiavitù, nella uguaglianza di tutti, che esclude ogni dominio se non quello dell’assolutamente Altro, emerge per la prima volta la democrazia.

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