martedì 12 aprile 2016

Una Occupy francese: l'illusione "costituente" nella deriva populista e movimentista della ritirata strategica



Se non si comprende la fase, che è appunto l'inizio di una lunghissima ritirata strategica, è sempre questo il risultato che si ottiene - un delirio per cui bisogna "rifare una costituzione. Una costituzione che abolisca la proprietà privata dei mezzi di produzioni e istituisca la proprietà d’uso": vasto programma! - e dieci anni dopo bisogna ricominciare sempre da capo [SGA].


di Frédéric Lordon. Effimera


Contro il Jobs Act di Hollande, Frédéric Lordon: «Passare all’offensiva, essere costituenti»
Nuit Debout. Intervista al filosofo Frédéric Lordon, uno dei protagonisti del movimento contro il Jobs Act di Hollande, la Loi Travail El Khomri: «Vogliamo realizzare una convergenza tra giovani, intellettuali precari, classi lavoratrici e la collera delle periferie. Allora il governo tremerà. Oggi bisogna cambiare la logica delle lotte in Europa: non basta dire né destra, né sinistra o l'1% contro il 99%. Bisogna essere costituenti»

Marta Fana Manifesto 12.4.2016, 23:59 
Frédéric Lordon è un filosofo ed economista francese, direttore di ricerca al Centre National de la Recherche Scientifique (Cnrs). Nelle ultime settimane è stato protagonista dei dibattiti all’università di Tolbiac, occupata a seguito delle mobilitazioni contro la proposta di riforma del mercato del lavoro, Loi El Khomri, e del movimento Nuit Debout parigino che da queste mobilitazioni è nato. Nel 2015, per DeriveApprodi, ha pubblicato Capitalismo, desiderio e servitù, un saggio in cui Marx e Spinoza si incontrano e spiegano lo sfruttamento del capitalismo contemporaneo. 

Qual è l’origine, le radici politiche e le parole d’ordine del movimento Nuit Debout? 

All’origine di questo movimento c’è il film di François Ruffin Merci Patron! Il film racconta la storia di un lavoratore licenziato della LVMH per il quale Ruffin e la sua squadra sono riusciti a estorcere 40 mila euro a Bernard Arnault, uno dei più importanti imprenditori francesi, e a far reintegrare il lavoratore a tempo indeterminato all’interno del gruppo. Questo film è talmente rincuorante e dà una tale energia che qualcuno tra noi si è detto che avremmo dovuto farne qualcosa. Ci siamo detti soprattutto che conteneva forse qualcosa come un detonatore. La situazione generale ci sembrava molto ambivalente: triste e senza speranza per molti aspetti, ma allo stesso tempo molto promettente: satura di collera e in attesa di qualcosa che la facesse precipitare. Il film poteva essere il catalizzatore di questa precipitazione. Abbiamo quindi organizzato una serata, a fine febbraio, per parlare di cosa fare a partire dal film e di quel che potevamo fare in generale. Ci è sembrato che il gioco istituzionale dei partiti era ormai irrimediabilmente sclerotizzato, serviva un movimento di altro tipo, un movimento di occupazione dove le persone potessero riunirsi senza intermediari, come Occupy Wall Street e il 15M in Spagna. L’idea è partita da una proiezione pubblica del film a Piazza della Repubblica a Parigi, e poi aggregarvi altro. Là, la legge El Khomri arriva e aggiunge necessità e slancio alla nostra iniziativa. La parola d’ordine è diventata “dopo la manifestazione, non rientriamo a casa”. E siamo rimasti. 


In Italia la debole battaglia contro il Jobs Act è stata completamente frammentata. In Francia si parla invece di «convergenza delle lotte». Cosa significa? 


Sta già dando la risposta alla sua domanda. Finché le lotte rimangono locali, di settore e disperse, esse falliranno e sono destinate a ricominciare eternamente da capo. Tutto il nostro lavoro consiste nel cercare permanentemente il denominatore comune a tutte le lotte così da creare massa critica. È allora possibile riunire sia i lavoratori – di tutte le condizioni, anche i quadri – i disoccupati, i precari, ma anche gli studenti universitari e secondari che saranno i futuri precari. Ma possiamo anche raggiungere gli agricoltori, che seppur non sono dei salariati, soffrono ugualmente della logica del capitale, ma anche per la stessa ragione gli Zadisti di Notre Dame des Landes che si oppongono a progetti locali, dettati dalle stesse logiche economiche cieche. L’interesse è quello di fare incontrare e discutere delle frazioni di sinistra che stanno quotidianamente separate e si guardano con sospetto; in sintesi, da una parte i militanti delle città, giovani di un livello culturale e scolastico relativamente elevato, spesso intellettuali precari, e dall’altra parte, le classi lavoratrici sindacalizzate le cui tradizioni di lotte sono estremamente differenti. Ora, questa convergenza è decisiva per la potenza di un movimento sociale. E più decisiva ancora è la convergenza con la gioventù segregata delle periferie, caratterizzata da collera e lotte proprie, ma che gli altri due blocchi ignorano completamente. Credo che questa connessione è la più decisiva perché quando sarà fatta, allora veramente il governo tremerà: è in questo momento che il movimento diventerà inarrestabile. 

Lei dice «noi non rivendichiamo niente» perché l’oggetto di questa rivendicazione è qualche briciola. Che cosa intende dire esattamente? 

Il nostro tentativo è quello di cambiare la logica delle lotte. Evidentemente bisogna continuare a rivendicare ovunque dove ci sia bisogno di farlo! Ma bisogna esser coscienti che rivendicare è una prospettiva difensiva che accetta implicitamente i presupposti del quadro in cui la si chiude, senza possibilità di mettere in discussione il quadro stesso. È quindi urgente mettere in discussione il quadro generale! Il che vuol dire passare dalla rivendicazione all’affermazione di un quadro generale che vogliamo ridisegnare. Non c’è nessuno a cui possiamo “rivendicare” un altro quadro. Sta a noi impadronirci di ciò e farlo! Ecco allora come noi articoliamo rivendicazione e affermazione: noi diciamo “no alla legge e al mondo El Khomri”. Noi rivendichiamo contro la legge ma affermiamo che ambiamo a un altro mondo rispetto a quello che ripropone costantemente leggi come quella. Finché rimaniamo nel registro rivendicativo non faremo che parare i colpi, uno dopo l’altro, in questo registro esclusivamente difensivo in cui il neoliberismo ci ha rinchiusi da tre decenni. Bisogna passare all’offensiva, e passare all’offensiva significa smetterla di dire ciò che non vogliamo per iniziare a dire invece quel che vogliamo. 

Podemos, come movimento che ha saputo guadagnarsi il sostegno popolare, ripete sempre che non bisogna parlare di destra e sinistra, ma di alto/basso, quindi 1% contro il 99%. Lei è d’accordo?

Sono in totale disaccordo con questa linea di Podemos. In Francia, le degenerazioni della frattura destra-sinistra hanno delle pessime eco. Chi ne parla fa parte sia di quella che io chiamo la “destra generale”, cioè la destra classica e quella nuova destra che è il Partito Socialista – il partito indifferenziato della globalizzazione neoliberista-, sia dell’estrema destra. In Francia, chi dice “né di destra né di sinistra” è immancabilmente di destra, o finirà per esserlo. Allo stesso tempo, io non credo che le diseguaglianze monetarie (da cui Podemos converte la divisione destra/sinistra in 1%/99%) sia un tema politicamente molto perentorio. Oggi, il tema delle disuguaglianze sta diventando una specie di consenso molle – ci ritroviamo pure l’OCSE e l’Economist… La vera questione non è quella delle disuguaglianza di reddito o ricchezza, ma la questione della disuguaglianza politica fondamentale insista nel capitalismo: i lavoratori vivono un rapporto di subordinazione e di obbedienza. Il rapporto salariale, prima ancora di essere all’origine delle disuguaglianze monetarie, è un rapporto di dominio e questo è il principio di una disuguaglianza fondamentale che è la diseguaglianza politica. Che sia questo l’oggetto in discussione con la legge El Khomri, le persone l’hanno ormai capito: questa legge rafforza come non mai l’arbitrio sovrano degli imprenditori, che possono ormai fare quel che vogliono della forza lavoro. È questa la vera questione: l’impero del capitale sugli individui e sulla società intera. La sinistra è questo: il progetto di lottare contro la sovranità del capitale. Allontanare l’idea di sinistra nel momento in cui invece la lotta deve radicalizzarsi e chiamare in causa i suoi veri obiettivi- il salariato come ricatto, il capitale come potenza tirannica- significa a mio avviso farsi sfuggire ciò che sta accadendo dopo decenni di martellamento neoliberista, e proprio nel momento in cui le persone emergono dal KO per iniziare ad alzar la testa. Se è così, temo, si commetterà un errore strategico considerevole. 

Qual è la finalità di questa mobilitazione: la rappresentanza politica, la creazione di un processo costituente?

È ciò che credo fondamentalmente. Lo sbocco costituente s’impone ai miei occhi per due ragioni. La prima è che offre una soluzione a quella che io chiamerei la contraddizione di OWS/Podemos. OWS è stato un gran bel movimento… ma completamente improduttivo. Non riuscendo a dotarsi di obiettivi politici e una struttura, questo movimento si è autocondannato alla dissoluzione e all’inutilità. All’esatto opposto, Podemos rappresenta lo sbocco politico del 15M, ma in una forma ultra classica, al prezzo di tradire le sue origini: un partito classico, con un leader classico che fa il gioco classico delle istituzioni elettorali… et si ritrova nella melma delle coalizioni parlamentari, come il più classico dei partiti tradizionali… Come sfuggire all’antinomia tra l’improduttività e il ritorno alle stanze parlamentari? La sola risposta ai miei occhi è: strutturarsi non per ritornare nelle istituzioni ma per rifare le istituzioni. Rifare le istituzioni significa riscrivere una costituzione. Ed ecco allora la seconda ragione per cui l’uscita dalla costituzione ha senso: la lotta contro il capitale. Per farla finita con il salariato come rapporto di ricatto, bisogna farla finita con la proprietà a scopo di lucro dei mezzi di produzione, che è pure sancita negli stessi testi costituzionali. Per farla finita con l’impero del capitale, che è un impero costituzionalizzato, bisogna rifare una costituzione. Una costituzione che abolisca la proprietà privata dei mezzi di produzioni e istituisca la proprietà d’uso: i mezzi di produzione appartengono a chi li usa e a chi li userà per fare cose che non siano la valorizzazione del capitale.

Nuit Debout, una lotta ri-costituente
Il racconto. Il movimento francese contro il Jobs act di Valls e Hollande dilaga in tutto il paese. La protesta degli studenti e dei precari contro la riforma del lavoro El Khomri coinvolge i ferrovieri e i portuali. In migliaia restano nelle piazze fino a notte fonda. La polizia sgombera, il giorno dopo ricominciano le occupazioni. A due settimane dal gigantesco sciopero contro il governo socialista, gli orologi sono fermi. Oggi in Francia è il 46 marzo di Jamila Mascat il manifesto 15.4.16
PARIGI A più di cinque settimane dal primo sciopero di protesta contro la riforma del lavoro, il 9 marzo, la Loi El Khomri sembra un effetto goffamente indesiderato. La legge di troppo, quella che ha fatto traboccare il vaso dell’insofferenza ed è riuscita a coagulare la rabbia delle vite precarie di giovani e lavoratori esposti ai contraccolpi della crisi economica e sottoposti da oltre cinque mesi alla cappa asfittica dello stato di emergenza. E infatti ni chair à patron, ni chair à matraque (non siamo carne da macello per le imprese né per i manganelli) è diventato il ritornello della protesta.
Se la difesa dello statuto dei lavoratori sotto attacco è il primo punto all’ordine del giorno, la posta in gioco della mobilitazione è ben altra. Al coordinamento nazionale degli studenti medi, che sabato e domenica si è riunito per la prima volta a Nanterre, c’è perfino chi suggerisce di votare la rivoluzione. Nelle assemblee universitarie (miste, non miste, di dipartimento e interfacoltà), che si susseguono e si moltiplicano a scadenze ravvicinate, il lavoro è in questione: si discute delle 32 ore, dei sussidi di disoccupazione, di basic income e organizzazione sindacale.
C’è chi perora la causa dei contratti a tempo indeterminato, chi dice “lavorare tutti/lavorare meno” e chi, come Selim, al quarto anno di filosofia alla Sorbona, di lavoro salariato non vuole sentire parlare perché andrebbe abolito. L’assemblea degli studenti di filosofia di Paris 1, riunita lunedì nell’anfiteatro Turgot, si confronta a lungo sulla mozione che propone l’aumento di 300 euro del salario minimo (Smic). Per alcuni è una mossa al ribasso, per Mathieu, che la difende a spada tratta, “non significa la fine del capitalismo, ma è una misura concreta che può servire a qualcosa”; alla fine conquista i pareri degli scettici e la maggioranza è favorevole.
“Fare deragliare il governo”
Rapidamente nel corso delle riunioni studentesche è maturata la consapevolezza che non è possibile combattere la Loi Travail senza espandere il perimetro della contestazione: quindi si esige anche la fine dello stato di emergenza, si chiede la revoca della nuova legge contro la prostituzione che criminalizza i clienti, si condannano gli sgomberi degli accampamenti dei rifugiati, si chiede il rilascio immediato dei manifestanti fermati e si decidono azioni concrete di sostegno ai lavoratori in lotta.
La lettera indirizzata ai ferrovieri della Gare d’Austerlitz dagli studenti di Paris 1 e dell’Ecole Normale Supérieure comincia così: “Cari lavoratori e lavoratrici, […] il 31 marzo eravamo più di un milione in piazza a manifestare e a esprimere in massa e con entusiasmo la nostra collera e il rifiuto categorico di questa progetto antisociale. La pioggia e i manganelli non sono riusciti ad abbatterci”. Se il calendario di mobilitazione previsto dalle direzioni sindacali rischia di “dividere il movimento proprio nel momento in cui è fondamentale restare uniti”, gli studenti prendono l’iniziativa da soli e invitano i ferrovieri a Tolbiac, a partecipare sabato mattina a un’assemblea interprofessionale di quartiere con i postini, gli insegnanti, il personale dell’ospedale della Pitié-Salpêtrière e altri lavoratori mobilitati. Se “la convergenza delle lotte non è un mito, né il disco rotto di militanti ottusi, ma la sola carta vincente di questo movimento”, allora bisogna darsi da fare.
E gli studenti non perdono tempo: in duecento martedì pomeriggio hanno fatto incursione alla stazione di Saint-Lazare per dare manforte ai travailleurs debout con la proposta di “far deragliare insieme il governo”. L’obiettivo di questo e altri interventi a fianco di un settore tradizionalmente combattivo, e ora in lotta contro l’attuale riforma dello statuto dell’impresa ferroviaria oltre che contro la Loi Travail, è il tentativo di rinnovare le relazioni pericolose tra studenti e ferrovieri e far scoccare la scintilla sui binari per accendere la fiamma dello sciopero generale, come accaduto a maggio del 1968 e a novembre del 1995.
Call Center, la catena della miseria
Karim, delegato di Sud Rail, che lavora nelle officine di manutenzione dei Tgv e degli Eurostar di Saint-Denis, prende la parola all’incontro sulla convergence des luttes organizzato dal comitato di mobilitazione di Paris 8. “Venite a trovarci in stazione e in officina, perché abbiamo bisogno di sapere che c’è gente là fuori che non aspetta altro che paralizziamo tutti i treni”. Marie, studentessa di Paris 8, raccoglie l’invito: “Se non lo facciamo noi che abbiamo tempo ed energia a disposizione, chi lo deve fare questo lavoro?”. La parata di lavoratori e studenti in lotta che chiedono e promettono di sostenersi a vicenda continua.
Ci sono anche Moustafa e Karine di Air France, Alexis della RATP, l’azienda metropolitana di Parigi, Elisa della coordination degli intermittenti dello spettacolo, e il collettivo degli operatori sociali del 93, un distretto alla periferia nord della capitale. Luís lavora al 3949, il call center del collocamento.
“Lo chiamiamo il gulag perché è un inferno. Noi lavoriamo come sorvegliati speciali, mentre i disoccupati che telefonano ci trattano come se fosse colpa nostra”. Luís racconta la “catena della miseria” che nelle banlieues si propaga all’infinito. Per questo “la battaglia contro la Loi El Khomri deve farsi carico delle periferie dove il lavoro è già una tragedia e per essere fermati dalla polizia non serve neanche manifestare”. Kenza, del coordinamento degli studenti medi, fa appello all’unità contro le intimidazioni.
Cgt: se la polizia tocca uno studente, blocchiamo i porti
Dopo il caso (virale su youtube con oltre due milioni di visualizzazioni) di Danon del liceo Bergson, a Parigi, preso a pugni da tre poliziotti che gli hanno spaccato il naso, e la vicenda di Ryan, il quindicenne fermato per 24 ore con l’accusa di aver tentato di bruciare un cassonetto davanti al liceo Voltaire, che ora rischia fino a 10 anni di prigione e 75mila euro di penale per danneggiamento di beni materiali suscettibile di causare danni a terzi, al liceo Blanqui, a Saint-Ouen, i militari pattugliano l’ingresso dell’edificio, formalmente per ottemperare al piano Vigipirate antiterrorismo.
Manuela lavoratrice portuale di Le Havre, in Normandia, lancia una proposta concreta: “Da noi la CGT ha votato una mozione semplice: se la polizia tocca uno studente, blocchiamo il porto, e finora la minaccia ha funzionato”. Applausi.
Contro la tentazione diffusa a isolare i casseurs (letteralmente “quelli che spaccano”), la portavoce del coordinamento nazionale degli universitari Aïssatou Dabo ha replicato che “la violenza sta tutta da una parte sola”. Gli studenti, insomma, non ci cascano. E il fatto che qualche migliaio di poliziotti abbia sfilato il 7 aprile scorso all’appello del sindacato Unité-police SGP-FO per chiedere una riqualificazione professionale e remunerativa all’altezza degli sforzi supplementari imposti dallo stato di emergenza, è forse la cartina di tornasole più palese di uno stato di repressione, che è riuscito ad affaticare non solo chi lo subisce ma perfino chi lo infligge.
Place de la République: centro irradiatore
Finora, nonostante gli incidenti di percorso, gli studenti hanno dimostrato di avere tutto quello che serve per continuare la protesta: i piedi per terra, per correre e sfuggire alle cariche della polizia, e la testa sulle spalle, per non lasciare che la divisione mediatica tra buoni e cattivi si insinui a frantumare il movimento. Il corteo del 5 aprile è stata una bella prova di solidarietà. A Parigi la manifestazione è finita dopo ore e ore di presidio davanti al commissariato di Rue de l’Evangile in attesa che i compagni arrestati venissero rilasciati (130, di cui molti adolescenti) e si è conclusa con una marcia trionfante e spontanea che poi è confluita verso la Place de la République per ripartire di nuovo, a tarda notte, verso il Quartiere Latino e erigere le barricate sul Boulevard Saint-Germain aspettando la liberazione degli ultimi fermati.
La place de la République, che solo pochi mesi fa era stata investita dal lutto commemorativo degli attentati di novembre, è stata designata dai promotori della Nuit debout a epicentro della protesta. La trovata viene da lontano e risale a una riunione organizzata il 23 febbraio alla Camera del lavoro, non lontano da lì, su iniziativa della redazione del giornale satirico Fakir, diretto da François Ruffin, il regista del film Merci patron!, che sta riscuotendo un successo sorprendente nelle sale e nelle piazze francesi.
In quell’occasione lavoratori, precari, studenti e sindacalisti hanno lanciato la proposta di inventare un modo per “mettere paura” al governo. Quando a marzo quell’iniziativa ha incrociato il percorso della battaglia contro la Loi Travail, è nata l’idea di occupare République, a partire dalla notte del 31 marzo, per perpetuare il movimento e fare in modo che il 1 aprile non segnasse una battuta d’arresto della protesta cristallizzata dallo sciopero del giorno precedente. Così è nato il nuovo calendario che sta prolungando all’infinito il mese di marzo.
Straripamenti
Trascorrere la nuit debout significa rimanere svegli e vigili, ma restare anche in piedi, ben dritti pronti a resistere e contrattaccare. Occupata dopo tre settimane dall’inizio della mobilitazione contro la Loi Travail, la Place de la République, non è il “crepuscolo dei bobo” (bourgeois-bohémiens) che vorrebbe Le Figaro, ma un centro di irradiazione delle lotte. La manifestazione del 9 aprile, partita da République e conclusa tra cariche e lacrimogeni a Place de la Nation, verso sera è tornata al punto di partenza. Da lì ancora centinaia di manifestanti hanno lanciato la proposta di andare a prendere l’aperitivo a casa del primo ministro Manuel Valls. E dopo una lunga scorrazzata in giro per i quartieri del centro – unica vittima un veicolo elettrico dell’autolib, il servizio di car sharing di proprietà del gruppo Bolloré, antico marchio del capitalismo francese dal 1822 – tutti sono riconfluiti di nuovo in piazza cercando di bloccare il traffico dei boulevard limitrofi.
Per prevenire altri “straripamenti”, paventati dalla sindaca socialista della capitale Anne Hidalgo, l’ennesimo sgombero della Place de la République minacciato per la notte di domenica, è avvenuto prevedibilmente all’alba di lunedì, ma la piazza è stata altrettanto prevedibilmente rioccupata dai protagonisti della Nuit debout. All’appello del segretario del Partito Socialista, Jean-Christophe Cambadélis rivolto ai CRS debout! (Celerini in piedi!) la piazza ha risposto per le rime: Paris debout, Valls à genoux! (Parigi in piedi, Valls in ginocchio). E intanto dalle tante piazze francesi della Nuit debout meno celebrate dai riflettori, ma combattive e persistenti, si fa strada l’idea di un appuntamento parigino nazionale, mentre si moltiplicano le notti brave anche nelle periferie della capitale grazie agli sforzi delle assemblee interprofessionali e delle associazioni di quartiere.
Anomalia francese
L’occupazione della piazza evoca inevitabilmente i precedenti illustri di questi ultimi anni – Puerta del Sol, Zuccotti e Gezy Park. Ma i paragoni aiutano fino a un certo punto e rischiano di annacquare l’anomalia francese. Intanto, a differenza del 15-M e di Occupy, la Nuit debout si inscrive all’interno di un movimento sociale nato per contestare un provvedimento di legge che rimette in discussione i capisaldi del diritto del lavoro; non a caso lo sciopero generale, profondamente inscritto nella tradizione del movimento operaio di questo paese, è una delle parole d’ordine della protesta.
E a République tra le tante commissioni che si riuniscono quotidianamente o quasi – Françafrique, azione, democrazia, migrazione lgbt+, educazione, femminismo, economia, discriminazione – per poi presentare lo stato dei lavori ogni sera in assemblea c’è anche la commissione grève générale. In secondo luogo si tratta di un movimento offensivo che ha dato ripetutamente prova di voler forzare limiti e divieti imposti dall’ordine pubblico, pur incanalando la collera nei ranghi della strategia. Merita di non essere trascurata nemmeno la partecipazione delle organizzazioni politiche e sindacali all’esperienza della Nuit debout. Il processo di erosione della legittimità di queste stesse organizzazioni che aveva largamente ispirato l’M15, è per ragioni storiche e congiunturali meno pronunciato in Francia che in Spagna.
Furiosamente espansivi
La dinamica della piazza è furiosamente espansiva. A République non solo confluiscono le tante anime della protesta, ma da lì defluiscono per mobilitare altre forze e altri spazi. La convergence des luttes, un cavallo di battaglia di vecchia data nella storia dell’extrême gauche francese, è nel ritmo prima e oltre che nello spazio, e consiste nel tentativo di sincronizzare gli orologi della lotta. Il tous ensemble, l’arma gloriosa degli scioperi del 1995 contro la riforma del welfare dell’allora primo ministro di Chirac, Alain Juppé, e l’obiettivo dichiarato di questo movimento, non può che essere il risultato di una trama composita di tempistiche non allineate.
Per questo tra le fila dei militanti sindacali, degli studenti e di tanti lavoratori mobilitati c’è timore che le direzioni confederali, la Cgt in primis, rischino di bruciare i tempi rinviando la convocazione del prossimo sciopero al 28 aprile. Per ora le gentili concessioni di Valls agli studenti non hanno sortito alcun esito, mentre Cgt, Sud, Fo, Fsu mantengono la richiesta del ritiro in blocco della Loi Travail.
Se ci fossero ripensamenti da parte dell’Unef, il principale sindacato degli universitari e il più moderato, il coordinamento nazionale degli studenti sarà pronto a contestare qualsiasi accordo unilaterale. A fine aprile inizia perciò il secondo round della mobilitazione: dopo lo sciopero intersindacale del 28, che alcuni settori sembrerebbero pronti a prolungare, la discussione della legge debutterà in Assemblea Nazionale il 3 maggio – qualche settimana prima del processo agli operai di Air France protagonisti a ottobre dell’affaire delle camicie strappate, fissato per il 27 maggio – per concludere a giugno l’iter parlamentare. Difficile fare previsioni in attesa di questo secondo round.
Intanto un nuovo movimento sociale ha cominciato a prender forma, tramutando la rabbia, la crisi, e i tempi bui dell’état d’urgence in qualcosa di nuovo e fortunatamente imprevedibile. “Non sapevano che fosse impossibile, allora l’hanno fatto”, direbbe Mark Twain. 

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