lunedì 23 maggio 2016

Agnes Heller si auto-espone impudica come testimonianza vivente del trionfo liberale sul socialismo

Il vento e il vorticeAgnes Heller: Il vento e il vortice, con Riccardo Mazzeo, Erickson, pagine 152, euro 14,50

Risvolto

Nel cinquecentenario dalla pubblicazione del grande classico di Tommaso Moro, Ágnes Heller, una delle più grandi filosofe viventi, e Riccardo Mazzeo, editor e collaboratore di Zygmunt Bauman, Edgar Morin e Miguel Benasayag, si interrogano sul significato dell’utopia e del suo rovescio scabroso, la distopia, descrivendone luci e ombre. 
Heller, nella prima parte, offre un inquadramento storico e filosofico dell’utopia, dalla «età dell’oro» di Ovidio e dall’Eden della Bibbia, per arrivare fino a Huxley, Orwell e Ishiguro. 
Mazzeo, nella seconda parte, esamina alcune potenti distopie del nostro secolo e, attraverso le riflessioni di Bauman, Sloterdijk e Žižek, invita a esercitare costantemente il pensiero critico.


ÁGNES HELLER: «Noi, orfani dell’utopia»
ALESSANDRO ZACCURI Avvenire  26 maggio 2016


Europa, è venuto il tempo della responsabilità globale
Il Vecchio Continente riscrive di continuo la sua autobiografia Ora è chiamato a riscoprire la propria vocazione planetaria

di Agnes Heller La Stampa 23.5.16
Solitamente noi filosofi iniziamo le nostre riflessioni ponendoci la domanda: «che cosa?». E perciò mi chiedo subito: che cos’è l’Unione Europea? E, quindi, che cos’è l’Europa? In prima battuta, si può rispondere facilmente all’interrogativo. Che cos’è l’Europa se non l’insieme delle storie che vengono narrate sull’Europa? Sono state raccontate molte storie sull’Europa. E sono molto differenti le une dalle altre. Alcune addirittura contrastanti. La lettura delle vicende passate e il giudizio su di esse sarà parziale. Tuttavia, anche se non sarà possibile ricordare tutte queste storie, bisogna menzionare almeno quelle più significative. Non solo per ragioni di scelta, ma anche di attenzione o rifiuto, abbiamo bisogno di ricordare le storie dell’Europa. L’Europa non vanta un numero così sorprendente di storie solo perché è il continente più antico, ma è diventata quella che è oggi proprio perché ha così tante storie. L’Europa è uno storytelling continent, un continente che ha costruito la sua identità come una sorta di autobiografia.
Centro e periferia
Fin dai tempi del primo Rinascimento sono state scritte o sono comparse diverse autobiografie dell’Europa. Una storia era incentrata sul continente cristiano contrastato da continenti non cristiani, un’altra sull’Occidente contrastato dall’Oriente, un’altra sul continente moderno contrastato da quello tradizionale, un’altra sul continente degli uomini bianchi contrastato dai continenti delle persone di colore, un’altra ancora sui colonizzatori contro i colonizzati, e così via. Come in tutti i casi di costruzione dell’identità, anche l’identità dell’Europa è stata forgiata contrapponendo il «nostro» continente agli «altri», alla non-Europa. [...]
Le storie future dell’Europa saranno scritte dai cittadini europei e senza dubbio sotto specifiche circostanze, che però solo parzialmente saranno frutto delle loro scelte. In linea teorica, le circostanze nelle quali si compiono le proprie scelte e si definiscono le proprie azioni possono anche essere indipendenti rispetto alle proprie scelte e azioni di padri. L’Europa appartiene al mondo e deve rispondere alle sfide che esso pone. E, forse, i cittadini europei possono influenzare il corso degli eventi che si consumano in una zona remota del mondo. Si tratta di un nuovo tipo di responsabilità, una sorta di responsabilità allargata, che possiamo chiamare «responsabilità planetaria».
In primo piano c’è la relazione fra centro e periferia. L’Unione Europea è un impero atipico. Perché un «impero» e perché «atipico»? È un impero per molti versi simile agli imperi europei precedenti alla Prima guerra mondiale. Quegli imperi godevano di un vantaggio rispetto agli Stati nazionali che si erano formati dopo il processo di secessione. Un impero ha una forza economica di gran lunga superiore alla somma del potere economico delle singole nazioni. È, in sostanza, un grande corpo composto da differenti nazioni e da molti popoli che usano linguaggi differenti e che seguono differenti tradizioni. E questo è un grande vantaggio rispetto a Stati nazionali indipendenti e spesso diffidenti, e non poche volte ostili, l’un nei confronti dell’altro.
L’impero atipico
Il caso dell’Unione Europea è simile. Tuttavia c’è una differenza sostanziale. Al contrario dei vecchi imperi europei, ci sono istituzioni democratiche centralizzate: è quindi un’entità del tutto nuova. D’altronde, la modernità consente la possibilità di inventare istituzioni, forme di organizzazione e di governo totalmente nuove. Come ho ricordato, sia la democrazia liberale sia il totalitarismo sono proprio esempi di invenzioni moderne: la prima come nuova forma di governo che sostituisce, da un lato, le vecchie repubbliche e, dall’altro, le monarchie liberali; il secondo come sostituto delle dittature militari e dei dispotismi, mentre l’Unione Europea rappresenta una nuova entità che sostituisce i vecchi imperi europei. È molto probabile che, se le democrazie liberali si estenderanno, allo stesso modo il modello dell’Unione Europea potrà stabilirsi in altri continenti.
Ci sono tuttavia ancora diversi problemi da affrontare, non del tutto differenti da quelli che avevano i vecchi imperi europei. C’è ancora, o per lo meno ci potrà essere in futuro, un conflitto fra centro e periferia, perché, così come è accaduto molte volte in passato nel Vecchio Continente, il primo è più ricco della seconda. Inoltre, l’Unione Europea condivide un’altra importante tendenza con i tradizionali imperi, ossia che l’espansione territoriale ed economica rappresenta il suo elemento vitale. E più si espande e cresce, più la distinzione fra centro e periferia si accentua.
Libertà vs benessere
Ho sostenuto prima che l’Unione Europea è un impero atipico, dal momento che ha soppiantato gli imperi europei. In primo luogo è un’Unione nella quale gli Stati membri hanno uguale influenza, e dove i singoli Stati nazionali rimangono indipendenti nonostante abbiano concordato un autorestringimento della propria sovranità. La difficoltà di elaborare e di accettare una costituzione vincolante per tutti gli Stati membri è dunque la mancanza che deriva da una condizione iniziale ideale. In secondo luogo, l’Unione Europea è un impero atipico perché non ha un esercito. Un impero senza esercito è indifeso perché deve basarsi esclusivamente sul proprio potere economico o sul potere militare di altri. Questo problema dovrà essere risolto dalle prossime generazioni. E non è affatto semplice. Se l’Europa sviluppa un apparato militare al suo interno, si troverà più pronta e in grado di resistere a un eventuale ricatto; per fare ciò, dovrà però sacrificare una parte della sua ricchezza.
Il conflitto fra libertà e benessere apparirà, con ogni probabilità, in tutta la sua pienezza nell’orizzonte temporale della nostra vita. Ma anche senza considerare questo aspetto, l’integrazione non potrà essere garantita esclusivamente da vantaggi economici. Questi, allo stesso modo in cui giungono, possono venire meno. Ma se il conflitto fra libertà e benessere è una questione che riguarda il futuro, un altro conflitto è già apparso nell’orizzonte europeo: quello fra benessere (inteso non esclusivamente in termini economici, ma riferito anche al diritto di condurre una vita senza minacce, presunte o reali) e responsabilità nei confronti del pianeta.
Traduzione di Antonio Campati 


Un serrato vis-à-vis sull’indomabile bestia dell’utopia 
Saggi. Il dialogo tra Agnes Heller e Riccardo Mazzeo sull'utopia raccolto nel volume «Il vento e il vortice» (Erikson)

Benedetto Vecchi Manifesto 7.6.2016, 0:29 
L’utopia è una bestia ribelle, difficile da addomesticare. Esprime la visione di un mondo «perfetto», dove non c’è posto per le ingiustizie e dove tutti possono esprimere il meglio di sé nella vita pubblica e privata. Prima avvertenza: l’immaginazione espressa sull’«isola che non c’è» è legata sempre a una contingenza storica. Così nell’antichità i termini della società perfetta differiscono da quelli enunciati nel Quattrocento, il Seicento o nell’Ottocento. Questa centralità dell’«immaginazione storica» è il filo rosso usato dalla filosofa Agnes Heller nel dialogo, serrato, condotto con Riccardo Mazzeo, filosofo per formazione, studioso attento di psicoanalisi e psicologia per passione, nel volume Il vento e il vortice (Erickson, pp. 152, euro 14,50). 
È un volume che concede ben poco alla retorica, visto che entrambi gli autori sono consapevoli che dietro un’utopia c’è sempre una distopia, cioè la sua negazione nell’immaginare – di nuovo – una società dove le ingiustizie e l’oppressione raggiungono l’acme. Si potrebbe dire che ogni utopia ha come sorella (o fratello) gemella una visione orrorifica della società del futuro. O del presente.
Il movimento teorico condotto dai due autori ha come punto di partenza la storia delle idee, cioè come l’utopia ha attraversato la filosofia e la teologia, da Thomas Moore a Tommaso Campanella ai socialisti utopisti. Agnes Heller ha vissuto per decenni in un paese che inseguiva il progetto di un nuovo mondo. Per essi ha conosciuto la negazione della libertà e i gulag. I dirigenti comunisti, annota, erano convinti militanti di un progetto politico teso a costruire un mondo perfetto. Alla fine si è scoperto che per questo sono diventati assassini. 
A nulla vale opporre alla sua visione semplicistica una documentata analisi storica sul fatto che di utopico nel socialismo reale c’era ben poco. Sarebbe operazione inutile. Di certo c’è il fatto che Agnes Heller considera entrambe le forme di immaginazione storica antidoti teorici verso le storture delle «società contemporanee». Guai però a farle diventare sia proposte in positivo per il futuro o critiche immanenti al presente: sono solo campanelli di allarme di qualcosa che non va nel lento, ma intrasformabile amministrazione della realtà. 
Riccardo Mazzeo obietta che l’utopia non è solo immaginazione storica, ma anche sociale, cioè uno strumento che serve non solo a criticare la realtà ma a fornire chiavi di accesso alla sua trasformazione. Cita romanzi, testi della psicoanalisi, sociologici. La sua argomentazione è convincente, ma il dubbio che riesca a smuovere le certezze granitiche di Agnes Heller è più che legittimo. 
Una dubbio comunque si impone rispetto a questo volume: vedere l’utopia come un esercizio effimero sul mondo che non c’è, toglie la possibilità di pensarla come il mondo possibile che ha però forti radici, traendone alimento, proprio nella realtà. Sarebbe u modo per riconciliare immaginazione storica e immaginazione sociale. L’elemento che rende l’utopia e la distopia le sorelle gemelle dello status quo.

Da Platone a “Sottomissione” quel che resta delle utopieRepubblica 19.6.16 di Francesca Bolino
Per immaginare un’utopia ci vuole molta fede nel progresso storico e sociale, addirittura nella possibilità della perfezione. Per costruire una distopia, quella fede, invece, bisogna averla completamente perduta. L’eroe dell’Educazione sentimentale di Flaubert, Frédéric Moreau, guarda le rivoluzioni come uno spettacolo comico: non ha mai avuto illusioni. Il Julien Sorel di Stendhal, invece, non perde entusiasmo per Napoleone, nemmeno dopo la sconfitta. La visione distopica è caratteristica delle società in decadenza. A voler leggere tutto questo nello spirito del tempo contemporaneo, si direbbe che la crisi delle socialdemocrazie europee è il segnale della fine dell’illusione nell’evoluzione costante e progressista della società. I grandi utopisti, da Platone in poi, sono sempre stati dei critici feroci delle rispettive società. Talvolta, come è accaduto con Nietzsche, un pensiero può essere piegato sia in senso utopico che distopico. La dualità del pensatore tedesco, scrive la filosofa ungherese Agnes Heller in questo saggio dove, con Riccardo Mazzeo, ripercorre la “storia e i limiti dell’immaginazione”, riflette in realtà la spirito storico della seconda metà del diciannovesimo secolo: «Il progresso perse il suo splendore, la vita divenne piccolo borghese e noiosa, l’amore romantico diventò vittoriano». L’illusione del progresso si trasferì nell’immaginazione artistica e, “ismo” dopo “ismo”, l’arte più che la politica assorbì la funzione utopica, mentre la rivoluzione dell’epoca, quella psicanalitica, favorì uno stato d’animo che era il contrario dell’utopia. Fu Freud a mettere in ridicolo l’idea dell’utopia assoluta di una qualunque rivoluzione antropologica. E ora? Le ideologie totalitarie e le loro pratiche politiche del XX secolo hanno spazzato via tutte le utopie precedenti e il rovesciamento della percezione delle tecnologie appare come l’addio alla speranza di un mondo migliore. Come Houellebecq in Sottomissione l’addio può avvenire solo se si smette di credere nei valori fondanti della nostra civiltà europea. Eppure ci sono così tante buone ragioni per continuare a credere.

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