lunedì 16 maggio 2016

Boccaccio nella storia della lingua italiana

Paola Manni: La lingua di Boccaccio, il Mulino, Bologna, pagg. 272, € 19 

Risvolto
In meno di un secolo, dagli ultimi anni del Duecento al 1370 circa, la straordinaria esperienza artistica di Dante, Petrarca e Boccaccio assume un significato decisivo per le sorti della storia linguistica italiana, innescando il processo di unificazione che metterà progressivamente in ombra le tradizioni locali e condurrà in ultimo alla formazione dell'italiano moderno. Modello riconosciuto soprattutto per la lingua della prosa, Boccaccio è animato da un marcato sperimentalismo, che lo porterà a scegliere stili e opzioni diverse nelle diverse fasi della sua produzione letteraria in volgare. Al centro di questo percorso sta il "Decameron", un'opera esemplare, che ha dominato per secoli la nostra tradizione linguistica. Paola Manni traccia un profilo della lingua boccacciana, di cui vengono illustrate le caratteristiche morfologiche, lessicali, sintattiche e stilistiche. 


Che lingua quel Boccaccio!

di Lorenzo Tomasin Il Sole Domenica 15.5.16
Si intitola La lingua di Boccaccio, ma potrebbe ben intitolarsi Le lingue di Boccaccio il volume che Paola Manni ha appena pubblicato dal Mulino, ampliando e aggiornando un lavoro iniziato oltre un decennio fa per la Storia della lingua italiana uscita dallo stesso editore sotto la direzione di Francesco Bruni, e affiancandosi alla Lingua di Dante stampata nel 2013.
Le lingue, sì, perché ad averci consegnato l’immagine di Boccaccio autore di un’opera tanto canonica quanto compatta nella sua esemplarità stilistica è una lettura limitativa e impoverita. Rileggendolo con gli occhiali adeguati ne risaltano invece, prepotentemente, la libertà, la varietà e quasi l’inquietudine della lingua.
Boccaccio, si sa, è il primo grande autore della letteratura italiana ad affermare orgogliosamente la fiorentinità linguistica dei suoi scritti. Né il Dante fiorentino di città, né il Petrarca figlio d’esule cresciuto altrove, avevano sentito il bisogno di fare simili esplicite dichiarazioni. In effetti, sono stati spesso i non fiorentini, nella nostra storia, a difendere col maggiore zelo il primato e l’eccellenza di una lingua che non avrebbe bisogno d’alcun laudatore.
Boccaccio è il figlio illegittimo d’un fiorentino del contado (la sua famiglia era di Certaldo, e lui stesso si autodefiniva certaldese) e sente la fiorentinità come un risarcimento simbolico di nobiltà. Così, pur lasciandosi sfuggire persino nel Decameron varie forme certaldesi forse inavvertite, che suonavano strane o arcaiche dentro le mura di città, egli regala nel manoscritto autografo del capolavoro (il codice Hamilton 90, oggi conservato a Berlino) un esempio quasi perfetto del volgare fiorentino nel pieno Trecento. Un documento anche linguisticamente inestimabile, di cui solo in anni recenti si è potuta dimostrare l’appartenenza alla mano stessa dell’autore. E quindi la possibilità di descrivere la sua lingua fin nei dettagli, fin nelle minute scelte della grafia.
Volgare, sì. Fiorentino, o quasi. Ma che cosa sarebbe il Boccaccio senza le lingue classiche? Il latino degli antichi, e persino il greco – cui non riuscirà mai ad arrivare pur cercando d’impossessarsene per una vita – lasciano tracce vivissime negli scritti del giovane Boccaccio, che può dirsi umanista nel recupero di un lessico prezioso attinto direttamente ai classici. Ne è un esempio l’inquadratura toscana con cui si apre la Comedia delle Ninfe fiorentine, così simile eppure così acerba rispetto ai paesaggi del Decameron: «In Italia, delle mondane parti chiarezza speziale, siede Etruria, di quella, sì com’io credo, principal membro e singular bellezza; nella quale, ricca di città, piena di nobili popoli, ornata d’infinite castella, dilettevole di graziose ville e di campi fruttiferi copiosa, quasi nel suo mezzo e più felice parte del santo seno, inver le stelle dalle sue pianure si leva un fruttuoso monte…».
È, questa, una tonalità ben diversa da quella popolare ed espressiva con cui Boccaccio si diletterà a mescolare l’aulico e il magniloquente nelle mature novelle del libro da lui stesso «cognominato prencipe Galeotto» (nel proemio e in chiusa). Il Decameron, appunto: nome approssimativamente greco, e “cognome” che in quella forma prencipe (non principe!) non è certo fiorentino. È forse francesizzante, ipotizza Manni pensando all’«influsso del gallicismo prenze, prence». E che cosa sarebbe in effetti il Boccaccio, senza le sue letture straniere, quelle che si convenivano a un ottimo consumatore di letteratura profana e cavalleresca, e che chiari segni lasciano ad esempio nel linguaggio di molti amanti decameroniani?
Boccaccio è l’idolo e insieme il sorvegliato speciale dei puristi cinquecenteschi, che nel momento stesso in cui lo monumentano, si rivolgono piuttosto alla lingua polita e monda della cornice (cioè delle introduzioni alle giornate) che a quella delle novelle, spesso troppo variopinta per essere canonizzata. Boccaccio è in effetti anche l’imprevedibile fondatore della nostra letteratura dialettale in prosa: in troppi, fra i lettori amatoriali del Decameron, continuano a ignorare che egli è anche l’autore di un’epistola in napoletano, scritta probabilmente nel 1339 come scherzo letterario, eppure così accurata nella riproduzione dei tratti linguistici partenopei (ben noti al giovane mercante che a Napoli era di casa) da potersi considerare uno dei testi più antichi e genuini di quel dialetto.
È stato persuasivamente supposto che, nel processo elaborativo dello stesso Decameron, Boccaccio ami potenziare gli elementi linguistici devianti, i tratti espressivi, le macchie di color locale : da quelle venete affidate alle novelle di Chichibìo e di Frate Alberto («mo vedì vu?» «che sé quel? che sé quel?») a quelle siciliane della novella di Salabaetto e Iancofiore («tu m’hai miso lo foco all’arma, toscano acanino»). Per non parlare di quelle toscane senesi o “contadine”, che gli erano familiari e su cui egli calca volutamente la mano in pagine celeberrime come la descrizione di Madonna Belcolore, «piacevole e fresca foresozza, brunazza e ben tarchiata e atta a meglio saper macinar che alcuna altra». Da qualsiasi parte lo si prenda, questo Boccaccio di cui prima o poi bisognerà stilare un vocabolario completo e ragionato (il libro di Manni ne è l’indispensabile viatico), svaria in direzioni nuove e diverse, insofferente per ogni riduzione o semplificazione della sua inesauribile curiosità linguistica.


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