mercoledì 18 maggio 2016

Calasso e le mitologie dell'Occidente: "Il cacciatore celeste"


Roberto Calasso: Il cacciatore celeste, Adelphi

Risvolto
Ci fu un'epoca in cui, se si incontravano altri esseri, non si sapeva con certezza se erano animali o dèi o signori di una specie o demoni o antenati. O semplicemente uomini. Un giorno, che durò molte migliaia di anni, Homo fece qualcosa che nessun altro ancora aveva tentato. Cominciò a imitare quegli stessi animali che lo perseguitavano: i predatori. E diventò cacciatore. Fu un processo lungo, sconvolgente e rapinoso, che lasciò tracce e cicatrici nei riti e nei miti, oltre che nei comportamenti, mescolandosi con qualcosa che nella Grecia antica fu chiamato «il divino», tò theîon, diverso ma presupposto dal sacro e dal santo e precedente perfino agli dèi. Numerose culture, distanti nello spazio e nel tempo, associarono alcune di queste vicende, drammatiche ed erotiche, a una certa zona del cielo, fra Sirio e Orione: il luogo del Cacciatore Celeste. Le sue storie sono intrecciate in questo libro e si diramano in molteplici direzioni, dal Paleolitico alla macchina di Turing, passando attraverso la Grecia antica e l'Egitto ed esplorando le connessioni latenti all'interno di uno stesso, non circoscrivibile territorio: la mente. 
Nascita di Artemis la dea sovrana degli animali 
Esce “Il cacciatore celeste”, il nuovo libro di Roberto Calasso che intreccia mito e realtà Dall’Egitto e la Grecia alla macchina di Turing
ROBERTO CALASSO Restampa 18 5 2016
La Sovrana degli Animali, che fu disseppellita in statuette numerose attraverso l’Europa, si imponeva per l’immobilità. Le sue vaste natiche, il petto pesante, le gambe unite nascondevano a mala pena che un tempo era stata un albero. Mentre ora poteva soltanto essere conficcata, con i piedi legati, nella cavità di un tronco. Gli animali, tutti gli animali, tutto ciò che nasce: erano i suoi devoti. La dea li osservava, immota. Sosteneva le creature come un tronco possente sostiene anche le fronde più remote. Tutto era un cerchio rombante intorno a lei. Tutti erano una sua fronda.
A un tratto la dea allungò un braccio, poi l’altro. Le mani si chiusero in una presa ferma sulla
collottola di due pantere – o di due uccelli acquatici. O afferrò per le zampe e rovesciò in aria due daini – o anche due leoni.
Si offriva come un maestoso spaventapasseri. Seguì un altro momento, il più misterioso, quello che nessuno osò raccontare, la cesura nella vita della dea: quando avanzò il suo primo passo, che fu subito una corsa. Evitò la città e gli uomini. Cercava i luoghi impervi e solitari, schiacciati dal cielo. O le paludi fruscianti di canne. O le radure che si aprivano nella foresta, mai calcate da orma umana. Era la dea dell’intatto. Correva e inseguiva la bestia invisibile. Anche il toro possente si inchinava a lei. Tutti gli animali temevano la sua corsa. Tutti sapevano che la freccia della dea li avrebbe raggiunti. Ma, quando riposava, qualche cerbiatto usciva dal folto e le lambiva le mani.
La Sovrana degli Animali era il supporto di un guardaroba mobile: la natura. Gli animali si aggrapparono al manto della dea e vi rimasero impaniati. Nel simulacro di Efeso soltanto il volto, le mani tese e le punte dei piedi non erano nascosti dalle vesti sovraccariche. E la pelle era nera d’olio, che colava da orifizi unti col nardo. Da quella immobilità coatta, da quelle ponderose figure si sfilò, come spogliandosi con un gesto agile e abbandonando un astuccio, Artemis, la dea più leggera, che corre e colpisce, mentre un corto chitone ondeggia sopra il suo ginocchio.
Abbandonata la guaina asiatica, non più oppressa dalle protomi animali e da quei grevi testicoli di toro che per molti secoli sarebbero stati scambiati per molteplici mammelle, seminuda e luccicante nella sua epidermide tesa, Artemis evocò, mentre correva, un altro che fosse l’altro, il rovescio stesso della natura, di cui era sazia. Un altro che, come lei, sapesse colpire la natura ma a cui la natura non avrebbe mai potuto vischiosamente aderire. Un altro che conoscesse innanzitutto il distacco. Artemis non lo avrebbe mai toccato, il contatto fra loro sarebbe stato una sovrapposizione perenne e invisibile. Evocò un gemello: Apollo.
Artemis correva come un maschio – e negli uomini il desiderio più acuto per una donna fu quello per Artemis che corre. Artemis correva come un maschio finché sapeva che poteva essere vista. Ma entrava nell’acqua come una donna, perché allora nessuno poteva vederla, se non le sue ancelle e compagne di caccia. La pozza d’acqua al centro del locus amoenus è il luogo segreto per eccellenza, il luogo dove la dea torna a immergersi nell’umidità del proprio corpo, il luogo dove accetta che il suo profilo indeperibile si cancelli parzialmente nel flusso da cui è sorto. Allora le compagne di Artemis la guardano – e questo è il segreto di cui soltanto loro sono partecipi. Ma chi sono quelle compagne? Sono Artemis rifratta e moltiplicata, delicatamente variata, dispersa. Non solo alle sue compagne Artemis si mostrava, ma anche ai suoi animali. Perciò Atteone si calò sul capo e sulle spalle una pelle di cervo. Dietro il masso muschioso spuntavano appena le corna, come rami tra le foglie. La sua colpa non fu certo quella, che sarebbe stata assai rozza, di voler stuprare la dea, ma di volerla guardare con lo sguardo dell’animale. Non esiste colpa più grave di questa, che obbligava la dea a ricordare l’età remota in cui era stata essa stessa l’animale, la prodigiosa cerva che fugge. Ma le dee, ancor più che gli dèi, non amano essere costrette a ricordare.
La scoperta della caccia, di ciò che la caccia implicava una volta separata da ogni utilità alimentare, e sorpresa nella purezza e durezza del suo gesto, nello scenario sempre ripetuto di un essere umano che insegue e di un animale inseguito, di una freccia che scocca e di una ferita che si apre, quella scoperta doveva assorbire in sé totalmente un essere divino, distoglierlo dalla sua ecumenica sovranità su ogni forma animale e vegetale. Passare dalla massima estensione alla massima intensità. Dalla superficie della terra alla punta della freccia. Questa fu Artemis. Ripiegate le ali, dimesse le vesti sontuose e asiatiche, abbandonata ogni frontale fissità, guizzava fra gli alberi senza schiantare i rametti – e tornava sempre a esercitare quell’attività violenta, che a nulla serviva. Gli dèi non si cibano di sangue, né gli umani hanno mai potuto mangiare o sacrificare le prede di Artemis. La caccia è una tautologia, l’esercizio che afferma se stesso. E, sepolta nel suo passato, incontriamo la negazione: l’animale che nega se stesso. Tautologia, negazione: non è forse il cerchio del pensiero? Da quel cerchio Artemis non volle più uscire, incantata. Ma quel cerchio sfiorava altri cerchi. Talvolta, sfiorandosi, divampavano. Mai fu così acuminato il desiderio erotico come intorno ad Artemis, come in Artemis, che il sesso negava – e aborriva il contatto. Mentre lo negava, lo esaltava. Artemis era uguale al suo gemello Apollo in tutto, eccetto il sesso: «solusque dabat discrimina sexus». Perciò voleva negare il sesso, abolire quell’unico discrimine per rendersi identica al suo unico amante, l’amante innominabile: Apollo – e separata, insieme a lui, da tutto il resto.

L’OROLOGIO DEL MONDO SPOSTATO INDIETRO PRIMA DELLA STORIA 
ANTONIO GNOLI Restampa 18 5 2016
Si leggono con una certa dose di meraviglia i libri di Roberto Calasso. Da La rovina di Kasch a L’ardore egli ha disegnato una costellazione mentale che ha pochi eguali, per sapienza, erudizione, stile, originalità. Ogni sua opera ricomprende antico e moderno e lascia affiorare le linee segrete e intrecciate di un discorso infinito. Tutto quanto egli descrive ha il sapore della rievocazione luttuosa, ma al tempo stesso del fasto della vita perché nulla di quei mondi, ancorché remoti, è davvero scomparso. E allora il discorso si fa ilare, sarcastico, feroce. Come nel Cacciatore celeste, la nuova e labirintica avventura intellettuale, che sposta indietro l’orologio del mondo, fino a immergersi nel clamore del prima della storia. Si passa così dalla pratica della scrittura a quella più incerta e inquietante di una oralità muta che si sospetta possa vivere nelle tracce sepolte di un passato immemoriale. Nulla è definitivamente scolpito in questa magnifica vicenda congetturale dove l’uomo resta ancora un’entità incerta, misteriosa, sfuggente.
Il lettore riconoscerà temi ricorrenti e nuovi: il mondo vedico, la Grecia antica, il farsi della coscienza e la nascita della mente. Artemis e Turing. Le ricerche paleontologiche e Henry James. Ogni dettaglio è avvolto da un misterioso sentire, che rispecchia l’età in cui gli uomini – esseri mutevoli e dispersi – potevano trasformarsi in animali o in entità divine. Ci fu un tempo in cui l’essere umano non era ancora separato dal mondo animale e da quello vegetale. L’inconfondibile timbro della metamorfosi segnava la sua esistenza. Niente di ciò che ne richiamava i gesti era definibile una volta per tutte. Orso, toro, uccello, lupo, serpente si mescolavano alle sue sembianze. Ma perché quell’esistenza ancestrale assumesse il tratto della vivibilità occorreva la presenza di nature particolari destinate a tessere un disegno che abbracciasse i differenti mondi. Furono gli sciamani a incaricarsi del compito di tenere assieme l’invisibile con il visibile. I loro gesti, i loro demoni, i loro oggetti feticcio, i loro tamburi dispersero sulla terra il suono di una verità remota, di una conoscenza inaudita. Fu la caccia la più antica educazione sentimentale. Per la prima volta l’uomo si trasformò in predatore. Mise a frutto le arti dell’imitazione e del disegno. Un nitido intreccio di emozioni primitive si depositò sulla roccia. La linea incisa trovò così la sua strada. Il cacciatore celeste” – di cui il gigantesco Orione sarà l’espressione più tragica – è un libro tenero e temibile. Racconta magnificamente la fine dell’era delle metamorfosi. In quel deposito di tracce protoumane, che distrattamente chiamiamo preistoria, Calasso narra, come fossero favole, vicende di eroi e di dèi, di animali e di uomini. Attraverso un’archeologia dell’orrore e della pietà giungono a noi gli echi di incommensurabili fatiche. Quasi che la conquista di una vita più serena e protetta, sia l’esito di un lunghissimo cammino nel nero del prima della storia. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

L’uomo, la caccia, il mito
Esce domani il nuovo libro di Roberto Calasso (Adelphi). Un excursus sulle origini dell’uomo e il suo mistero, il rapporto con gli «altri» animali, con la divinità e il cambiamento. Il modello: Ovidio
Corriere della Sera 18 May 2016 di Pietro Citati
Il personaggio principale del Cacciatore Celeste, l’ultimo libro di Roberto Calasso (Adelphi), è l’uomo della metamorfosi, il quale ospita in se stesso, allo stato latente, tutte le possibili trasformazioni dell’uomo e dell’universo. Egli pensa che la letteratura dei tempi moderni (sebbene essi siano i più metamorfici della storia) abbia perduto il dono profondo della metamorfosi: questo dono si è rifugiato nei sogni. Con tutta la propria convinzione e la propria tenacia, con il suo istinto di dominio, vuole farlo rivivere nei propri libri, che hanno qualcosa dei suoi grandi sogni. Calasso ha un modello, Ovidio: «questo provinciale di buona famiglia che venne a Roma in cerca di fortuna» gli piace moltissimo; egli guarda avidamente il suo capolavoro, le Metamorfosi, cercando non di imitarlo, ma di riprodurlo. Sia per lui sia per Ovidio tutto è materiale per la letteratura; e la mitologia si presenta come un repertorio di varianti, «“una riserva sempre disponibile di immagini, movenze e combinazioni».
Per narrare la metamorfosi nel ventunesimo secolo, Calasso possiede moltissime qualità. In primo luogo, una straordinaria cultura, che non finisce di meravigliarci: egli è a casa in quasi tutte le epoche, in quasi tutti i libri, in quasi tutti i miti. In secondo luogo, un acutissimo occhio analogico, che gli fa scoprire qualsiasi affinità nell’universo dei libri e della storia. Infine la capacità di raccontare i miti: anzi di riraccontarli, come Ovidio nel suo grande libro; l’unico modo per comprenderli e farli propri. Se a volte qualcosa manca nelle fonti, egli colma questa lacuna con una invenzione: la quale non è mai arbitraria, ma è la continuazione delle scoperte dei Greci.
Una qualità Calasso non possiede: la fluidità; gli manca, perché non vuole possederla. Egli ha l’assoluta coscienza di essere un moderno; e pensa che uno scrittore non può abbandonarsi all’onda del racconto che non finisce mai, come Ovidio. Per lui, come per Nietzsche, il racconto è morto. La verità non si rivela nella continuità: alla continuità dobbiamo voltare risolutamente le spalle; e cogliere delle schegge luminose, che accecano gli occhi e feriscono le mani. L’aveva detto Platone: «All’uomo la verità è accessibile soltanto per minuscoli frammenti». Calasso coglie questi «minuscoli frammenti spezza la continuità; ne fa scaturire barlumi, lampi ardenti e pericolosi. Ovidio possedeva sovranamente l’arte della transizione: essa gli permetteva di incastrare le migliaia di tessere del suo immenso mosaico. Calasso ignora la transizione: tra ogni lampo o irruzione della verità sta un bianco misterioso; il significato di questi bianchi può comprenderlo soltanto chi fa rinascere nella mente tutto Il Cacciatore Celeste.
Il libro di Calasso comincia con le origini, o le origini delle origini; e finisce, o finge di concludersi, con le Enneadi di Plotino e i Misteri di Eleusi, sebbene ogni pagina getti analogie verso tutti i tempi e tutte le direzioni, specie verso la cultura vedica. Alle origini, l’invisibile era visibile. Allora esistevano gli animali e la caccia. Il Cacciatore Celeste è gremito di animali: iene, leoni, leopardi, avvoltoi, che lasciano il loro profumo nelle pagine del libro. Gli animali potevano essere animali, ma anche uomini, dèi, dèmoni, antenati: non c’erano distinzioni nette tra queste figure. Non esisteva un corpo umano che inseguiva un corpo animale: ma un essere che inseguiva un altro essere.
Per i primi cacciatori, l’animale era un altro essere, né animale né uomo, cacciato da esseri né animali né uomini. Cacciare era una cosa complicata. Occorreva in primo luogo imitare gli animali: danzare il passo della pernice, dell’orso, del leopardo, della gru, dello zibellino. Così artificio essenziale risultava la maschera, la quale permetteva di separarsi dalla continuità animale. I lupi che si aggiravano per le foreste erano i primi uomini, che si sentivano così irreparabilmente uomini da camuffarsi da lupi. Il cacciatore si preparava alla spedizione come per un ballo: il corpo doveva essere puro e profumato: a ogni animale da cacciare corrispondeva un diverso profumo; mentre un divieto impediva i rapporti sessuali prima della caccia.
Un giorno — un giorno che durò venticinquemila anni — gli uomini del Paleolitico Superiore cominciarono a disegnare. Non c’era problema di scelta: gli animali erano l’unico
Sapienza Se manca qualcosa nelle fonti, l’autore colma la lacuna con una invenzione mai arbitraria La dea La parte più bella dell’opera è quella dedicata ad Artemis: con lei apparve la purezza oggetto possibile; la potenza in movimento, che colpiva e si doveva colpire. L’animale e colui che lo disegnava appartenevano alla stessa continuità formale. Per essere efficace, la linea doveva essere giusta. Se non era giusta, la potenza non appariva. Così coloro che vissero durante il Maddaleniano sapevano disegnare con stupefacente sicurezza, di rado raggiunta nei millenni. Ingres li avrebbe ammirati.
La parte più bella del libro di Calasso è la prima, dedicata ad Artemis. La dea correva come un maschio, finché sapeva di poter essere vista: ma entrava nell’acqua come una donna, perché allora nessuno poteva vederla, tranne le sue ancelle e compagne di caccia. Suscitava, negli uomini, un desiderio erotico acutissimo — proprio lei che negava il sesso e aborriva il contatto. Mentre negava il sesso, Artemis lo esaltava. Con lei apparve la purezza: era hagne, «pura»; soltanto Persefone, in Omero, ebbe il diritto di portare questo appellativo. Artemis è la dea più prossima a Calasso: sia come dea della caccia — questo libro colpisce e uccide come le frecce del cacciatore —: sia come dea della separazione — in fondo allo spirito di Calasso, c’è un acutissimo desiderio di distanza e di separazione. La penultima parte del libro è dedicata a Plotino, il quale aveva seguito la spedizione dell’imperatore Gordiano in Persia, per «acquisire una conoscenza diretta» della religione e della filosofia iranica e indiana. Scrivendo le Enneadi, sette secoli dopo Platone, Plotino non pretendeva di portare qualche novità speculativa. Platone aveva detto tutto: tutto il possibile: ciò che diceva era vero; lui doveva soltanto commentarlo ed esplicitarlo, specialmente per ciò che riguardava l’ineffabile — il Bene e l’Uno.
Così Plotino cominciò «la fuga del solo verso il solo»; e giunse alla scoperta di una non-conoscenza che stava immensamente al di sopra della conoscenza: Quello, l’Uno; anche se di quell’Uno nulla possiamo dire, «perché non è essere, non è sostanza, non è vita». «Ciò che è causa di tutte le cose — egli aggiungeva — non è alcuna di esse. Non dovrebbe essere chiamato neppure bene perché lo produce, ma è il bene al di sopra di tutti i beni». Come nelle Upanishad, il pensiero saliva al di sopra di se stesso, e si aboliva. Questo culmine tenebroso-luminoso noi lo conosciamo soltanto nella contemplazione: la meta a cui il libro di Calasso tende senza dirlo, in un supremo tentativo di abolire se stesso.

Calasso: addio metamorfosi, giunge l’invisibile "Il cacciatore celeste" di Roberto Calasso, Adelphi. Nuovo titolo di un’«opera in corso» il cui nucleo è la separazione fra uomini e dei, e le sue conseguenze
Massimo Natale Manifesto 12.6.2016, 17:09
Scriveva Baudelaire, in una pagina della sua Ecole païenne, che «la passione frenetica dell’arte è un cancro che divora il resto; (…)la specializzazione eccessiva di una facoltà sfocia nel nulla… Bisogna che la letteratura vada a ritemprare le sue forze in un’atmosfera migliore. Vicino è il momento in cui si capirà che ogni letteratura che si rifiuti di andare avanti fraternamente fra la scienza e la filosofia è una letteratura omicida e suicida». Non sarà forse un caso che su questa pagina – che sancisce la necessità della creazione artistico-letteraria di assorbire fertilmente nutrimenti conoscitivi, capaci di andare ben oltre il solo dominio assoluto dell’estetico – Roberto Calasso si fermasse già qualche anno fa, in un luogo importante del suo La letteratura e gli dei. Si potrebbe ricominciare proprio da queste righe per attraversare non tanto o non solo La Folie Baudelaire – il saggio-racconto consacrato da Calasso proprio al poeta delle Fleurs du mal, nel 2008 – ma soprattutto per leggere con qualche consapevolezza in più il suo ultimo lavoro, Il cacciatore celeste (Adelphi, «Biblioteca», pp. 508, euro 27,00), nel quale questa triplice e necessaria alleanza fra Letteratura, pensiero filosofico e ricognizione scientifica potrebbe fare da prima bussola di orientamento.
Oggetto del libro è appunto la figura del cacciatore, o meglio ancora la dimensione del cacciare, che qui è osservata come una sorta di ‘forma primaria’: l’inchiesta risale sino a certi strati preistorici della vicenda dell’homo sapiens, non senza proporsi in diverse sortite in direzione del mondo antico-orientale, o dell’Europa moderna (da Descartes a Malebranche a Henry James, per fare solo tre nomi fra i molti proposti). Ma a essere indagata è anzitutto la tradizione greca e latina: se lo si guarda da questa tutt’altro che secondaria angolazione, Il cacciatore celeste risulta allora un parente piuttosto stretto di quella grande mappatura del mondo mitologico classico che erano Le nozze di Cadmo e Armonia. A campeggiare, stavolta, sono naturalmente alcuni miti venatori, e non di rado tragici, come quello di Orione: Cacciatore Celeste – cui dunque allude il titolo stesso del volume – sulla cui nascita si fronteggiano versioni differenti, e la cui morte, provocata da Artemide, segna la sua ascesa in cielo, fra le costellazioni. Tale epilogo, avverte Calasso, implica la «fine dell’èra delle metamorfosi», l’età in cui le forme della realtà erano fluide, e gli dei, gli animali, gli uomini e i morti potevano confondersi. La storia di Orione è dunque l’indizio di una svolta decisiva: l’«invisibile» comincia ad allontanarsi, a rendersi definitivamente inafferrabile dagli uomini.
La caccia è dunque un differenziale insostituibile per riconsiderare l’intera storia umana, nella ricostruzione offerta, ovvero un punto di osservazione privilegiato anche perché in grado di riallacciare i legami originari con gli altri due elementi che accompagnano sin dall’inizio questa stessa storia: da una parte l’animale, che nella caccia «nega se stesso», e da cui l’uomo – che dell’animale tenta l’imitazione, in primo luogo nel suo farsi predatore – finirà col distinguersi; e dall’altra, naturalmente, gli dei. A saldare insieme questi tre elementi è l’esponente – terribile quanto indispensabile – del sacrificio, il cui fondo misterioso rimane intatto: «Placare un’entità invisibile: sentimento che si può facilmente comprendere. Ma perché il placamento debba avvenire attraverso l’uccisione di un animale è una conseguenza che non è mai stata chiarita fino in fondo. (…) Ogni altra domanda sul sacrificio è dipendente da questa». La letture di Calasso, quanto a questo nodo, si estendono fino a Teofrasto – al «godimento» del mangiar carne, sotteso alla pratica sacrificale – o fino al Timeo platonico, alla necessità che il mondo avrebbe di procurarsi «la propria distruzione». Ma non si può non pensare, intanto, alla stessa biblioteca ‘di casa’, al catalogo Adelphi, e a due sue nomi illustri quali il René Girard de La violenza e il sacro, o il Walter Burkert de La creazione del sacro (cui potrebbe risalire anche il tema della relazione fra colpa e religioso: vedi almeno certe pagine del capitolo dedicato a Sapienti e predatori, il quinto).
Dalla pratica della caccia si passa però poi suggestivamente, lungo il libro, alla caccia come ‘gesto del pensiero’, insomma alla sua metaforizzazione (indicativo, a tal proposito, un cenno che riguarda peraltro non i moderni, ma già la figura archetipale di Artemide: «per lei l’arco era il pensiero»). Notevole, in tal senso, e utilissima nel fornire una chiave di lettura che aiuti a entrare nell’intero arco del discorso, è la sezione incentrata su Platone – in particolare sul Platone delle Leggi, oltre che di un testo meno centrale come l’Epinomide. Il lettore vi incontra alcuni asserti di fondo come quello sul legame fra caccia e conoscenza e, ancor più nel dettaglio, «fra la conoscenza e l’atto di colpire». Con l’Ateniese – il protagonista del dialogo platonico – si passa «dall’eros rivolto agli ‘amati’, erómenoi, alla guerra, alla caccia alle lepri, allo studio dei corpi celesti: un unico filo lega queste attività. È la caccia». Ecco perché ciascuna delle parti che compongono il Cacciatore può ambire a toccare argomenti apparentemente lontanissimi dal suo fulcro: grazie all’interiorizzazione di quel gesto primo, o a quel demone dell’analogia che consente di «stabilire una identità di struttura fra la mente umana e l’universo», per dirla con le parole di Simone Weil citate proprie in questi stessi paragrafi sulle Leggi (tanto che il ventaglio degli spunti può allargarsi fino ad abbracciare un eroe del mondo scientifico quale Alan Turing).
I custodi dei più vari specialismi potranno magari eccepire – come è stato del resto già fatto – su qualche maglia un poco larga nella trama dell’argomentazione. A ciò si potrebbe opporre quello che per Montale – e per un adelphiano come Bobi Bazlen – era la migliore delle pratiche: un «dilettantismo superiore», e aggiungiamo pure vitale.
È abbastanza facile intuire che Il cacciatore celeste è un ibrido dedito alla mescolanza, un libro che contiene altri libri, e che ad altri ancora allude (senza peraltro incorrere nel pericolo maggiore di certo filologismo: il compiacimento). Il merito del suo autore sta anzitutto in questa intenzione di ‘cucire insieme’, di rileggere, per frammenti, un intero mondo, e di tornare con costanza alle medesime ossessioni antropologiche: sullo stesso sacrificio si imperniava già La rovina di Kasch (1983), cioè il passo d’esordio di Calasso, l’avvio di quell’«opera in corso» – da Kafka a Tiepolo alla Grecia all’Oriente – cui alludono regolarmente i suoi risvolti di copertina. A guardarla dal fondo – dal suo ottavo e, ad oggi, più recente punto d’approdo – quest’opera ci appare come un lungo affresco sul tema della Separazione fra gli dei e gli uomini. E sulla appartata sopravvivenza, fra questi ultimi, di uno sparuto gruppo di ánisoi, di «disuguali».
Quanto ancora debba, Calasso, a certa grecità iniziatica – e al Colli della Sapienza greca – lo testimonia anche solo il congedo del Cacciatore, il cui sipario scende proprio su Eleusi. Per tornare a Eleusi occorrerà allontanarsi da quei Misteri, «rientrare nella vita comune – e poi lasciarla di nuovo». Il premio per la ‘seconda vista’ del Sapiente – un Sapiente pur tutto moderno, ormai, ricolmo di malinconica erudizione – non sarà forse l’incontro con gli dei, ma almeno il loro ricordo.

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