lunedì 23 maggio 2016

Caratteri


Aldo Manuzio  Lo Steve Jobs rinascimentale tra stampa e rivoluzione
DARIO PAPPALARDO Restampa 22 5 2016
Nell’ultima sala, i personaggi ritratti nel primo Cinquecento da Tiziano, Palma il Vecchio e Parmigianino, per la prima volta hanno in mano un libro. Mezzo millennio fa era l’iPhone di oggi, un oggetto sofisticato e semplice insieme, appena entrato nell’uso quotidiano. Laura da Pola, ricca gentildonna “fotografata” da Lorenzo Lotto, tiene il suo tascabile con la sinistra. E, a guardarlo, sembra davvero uno smartphone. La rivoluzione è compiuta: il libro, prima ingombrante manufatto per specialisti alla Guglielmo da Baskerville, entra nelle case. O almeno in quelle di chi sa leggere e ha denaro sufficiente. I pittori registrano il cambiamento. Aristocratici e dame non impugnano più solo spade e ventagli. Tutto accade a Venezia, nell’arco di vent’anni, tra i Novanta del Quattrocento e il 1515, quando muore chi ha traghettato la cultura della Serenissima dall’età gotica al Rinascimento. Cambiando il mezzo e il messaggio. Dal manoscritto alla stampa. Lui è Aldo Manuzio (1449-1515). E la mostra alle Gallerie dell’Accademia di Venezia (a cura di Guido Beltramini, Davide Gasparotto, Giulio Manieri Elia, fino al 19 giugno, catalogo Marsilio) lo celebra, nell’apparato didattico, azzardando il paragone con Steve Jobs. Perché entrambi sono uomini chiave che si muovono in un’epoca di passaggio e intuiscono, prima di altri, l’importanza di una nuova tecnologia. Sanno come adoperarla, rendendola sexy e appetibile per un pubblico ampio.
Manuzio mette la stampa al servizio di un sapere che non sarà più appannaggio di un’élite di studiosi. Fonda il nuovo, facendo tesoro del passato. Costruisce il gusto per l’oggetto libro e, al tempo stesso, apre un mercato editoriale che non era mai esistito. Venezia, città global prima di altre, crocevia di civiltà, diventa la nuova capitale dell’umanesimo, dopo Firenze. La mostra all’Accademia dà conto del dialogo tra la rivoluzione di Aldo e le arti figurative. «È una mostra sui doni del libro, sulle forme d’arte generate dai libri », dice il curatore Beltramini. Il percorso si dipana nei nuovi, minimali spazi espositivi delle Gallerie veneziane, ora dirette da Paola Marini, con una successione di “scene”, dove pittura e scultura sono portate come prove di una relazione costante con i nuovi testi a stampa.
Il percorso è aperto da una statua: una Cleopatra rinascimentale, che è in realtà una musa ellenistica reintegrata nella bottega di Tullio Lombardo. All’inizio del Cinquecento, al frammento ritrovato è aggiunto il braccio destro mancante, la corona, un pilastrino di appoggio. Il passato viene riparato e reinterpretato. È lo stesso procedimento che sul piano dei testi adotta Manuzio. L’oscuro precettore nato nel Lazio arriva in Laguna a quarant’anni. Qui trova un ambiente che sembra lo stia aspettando: «Accadde come nei grandi romanzi d’amore: erano fatti l’uno per l’altra», scrive Cesare G. De Michelis nel saggio in catalogo. L’impegno civile della Serenissima si coniuga con quello intellettuale. Ci sono umanisti come Pietro Bembo ed Ermolao Barbaro (ritratto da Carpaccio nella tela del ciclo di Sant’Orsola qui esposta). C’è il tipografo Andrea Torresano con cui Manuzio presto si associa e progetta un piano editoriale preciso: vuole rendere disponibili, finalmente stampati, i classici greci e latini nella lingua originale. Il primo libro “firmato” da Aldo è una grammatica greca. Tra il novembre 1495 e il giugno 1498, Manuzio stampa l’opera completa di Aristotele: 1792 pagine in tutto. Sceglie il corsivo per la sua leggibilità. Piega e ripiega il foglio di stampa in quarto, in ottavo, in sedicesimo: crea il tascabile e il super tascabile con la consapevolezza di un designer. Nel 1501 inventa un brand, un logo che rende immediatamente riconoscibili le sue edizioni: un delfino attorcigliato all’ancora, che verrà citato da Melville in Moby Dick. Sarà l’amico Erasmo da Rotterdam – un libro da lui comprato e firmato è in mostra – a raccontarne l’origine: una moneta dell’imperatore Tito regalata ad Aldo da Bembo. Pinguini e struzzi che identificano le case editrici di oggi nascono da qui. La reperibilità dei classici influenza gli artisti: si diffondono motivi iconografici mai visti prima. Le descrizioni delle pitture perdute di Atene ispirano Dürer, Jacopo de’Barbari, Lotto, tutti presenti in mostra. E il culto della campagna celebrato dagli antichi si riflette nei grandi della pittura veneta. Il paesaggio diventa per la prima volta protagonista: La Tempesta di Giorgione, che fa parte del percorso espositivo, è figlia di questo clima.
Ma nel catalogo di Manuzio non ci sono soltanto gli antichi: appare Dante; celebri diventano i petrarchini: le versioni mignon dell’autore del Canzoniere. E poi i bestseller contemporanei: Gli Asolani di Pietro Bembo, L’Arcadia di Jacopo Sannazaro. Ma soprattutto l’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna: in mostra, quello che è considerato il libro più bello del Rinascimento, viene riprodotto integralmente con tutte le sue illustrazioni. Molte dal significato ancora misterioso e senza autori certi. È l’opera a cui Aldo dovrà per sempre la sua fama. In fondo al volume si limita a scrivere: «A Venezia, nel mese di dicembre 1499, nella bottega di Aldo Manuzio, realizzato con grande cura».
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