lunedì 30 maggio 2016

Chissà come mai c'è stagnazione della produttività nell'industria italiana

Produttività, un sonno durato 20 anni
di Luca Ricolfi Il Sole 29.5.16
Che si torni a parlare di produttività, come negli ultimi giorni è successo sulla scia del discorso di insediamento di Vincenzo Boccia alla presidenza di Confindustria, è senz’altro un bene. E questo per un motivo tanto semplice quanto cruciale: la produttività in Italia ristagna da vent’anni, e l’interruzione di questo lungo sonno è una condizione necessaria, assolutamente necessaria, per restituire un futuro a questo Paese. Ci sono due piccole complicazioni, tuttavia.
La prima è che un eventuale risveglio della produttività (sia quella del lavoro, sia quella totale) è solo una condizione necessaria di ripresa del Paese. Se questo risveglio dovesse avvenire senza un robusto aumento dell’occupazione e del Pil, o peggio ancora dovesse avvenire mediante una drastica riduzione dei posti di lavoro (come è accaduto in Spagna durante la crisi), quel risveglio si risolverebbe in un ricupero di competitività di una parte dell’apparato produttivo, ma non sarebbe in grado di tradursi pienamente in un innalzamento del benessere di tutti: salari più alti, migliori posti di lavoro, aziende più dinamiche e moderne, opportunità lavorative per i giovani. Tornare a crescere vuol dire precisamente questo.
La seconda complicazione è che, nonostante molti ritengano di sapere perché da vent’anni in Italia la produttività non cresca più, in realtà nessuno lo sa con ragionevole certezza. Non lo sanno gli economisti, meno che mai lo sanno i sociologi. Non lo sanno gli imprenditori, meno che mai lo sanno i politici. E il fatto che autorevolissimi studiosi, centri di ricerca, organismi internazionali più o meno politicizzati forniscano ricostruzioni e diagnosi notevolmente diverse l’una dall’altra, è solo la spia di quel che ho appena detto: quando ci sono almeno una decina di spiegazioni in competizione fra loro, vuol dire che non sappiamo veramente come sono andate le cose. Una situazione deplorevole, perché quello di cui avremmo bisogno è un racconto del caso italiano sufficientemente preciso e circostanziato da indicarci la strada per uscire dal letargo in cui il Paese è piombato a metà degli anni ’90. Qualcuno potrebbe obiettare che, anche se non sappiamo perché ci siamo addormentati, sappiamo però che cosa dobbiamo fare per risvegliarci. Questo per certi versi è vero, perché ci sono cose che sicuramente farebbero bene alla produttività (ad esempio la diffusione della banda larga), ma per altri versi non è vero affatto. Ci sono politiche che alcuni studiosi ritengono benefiche per la produttività, e altri ritengono dannose (tipico esempio: le liberalizzazioni del mercato del lavoro).
E anche sulle politiche che tutti (o quasi tutti) ritengono benefiche, come gli investimenti in ricerca e sviluppo, o la riduzione della pressione fiscale sui produttori, il punto non è sapere se servono oppure no, ma qual è il rapporto costi/benefici di ciascuna rispetto a tutte le altre. In un contesto di risorse scarse, molto scarse, i politici non dovrebbero dimostrare soltanto che un provvedimento è utile, ma anche che i suoi benefici, monetari e non, sono superiori ai costi, e che non esistono alternative equivalenti ma più efficienti. Detto per inciso: uno dei fondamenti psicologici della demagogia (dei politici) sta nella (nostra) tendenza a chiederci unicamente se una misura è utile, anziché chiederci quanto costa e se esistono alternative migliori.
Ecco perché il sonno ventennale della produttività in Italia è un puzzle non solo interessante per gli studiosi, ma anche decisivo per il paese. Perché quello dell’Italia è davvero un caso speciale fra le economie avanzate. Come ha scritto di recente Giuseppe Schlitzer in un paper dedicato al “paradosso della produttività” (forse l’analisi più acuta che io abbia letto sull’argomento), quello che rende il caso italiano difficile da spiegare in modo convincente, è che non si tratta genericamente di spiegare come mai la produttività ristagna, ma di rendere conto di una precisa concatenazione di eventi: il fatto che fino al 1995 la produttività dell’Italia avesse una dinamica normale; il fatto che, a un certo punto, nella seconda metà degli anni '90, abbia improvvisamente smesso di crescere; il fatto, infine, che la stagione del ristagno duri ininterrottamente da vent’anni.
Non è ovviamente un articolo di giornale il luogo per sviscerare un tema così complicato. Quello che mi sento di dire, tuttavia, è che l’evidenza empirica disponibile pare forse ridimensionare un po’ le spiegazioni più in voga, molto incentrate su cose (peraltro importantissime) come il mercato del lavoro, le relazioni industriali, la politica fiscale, la politica monetaia, ma non sempre altrettanto pronte a cogliere quel che si muove (o non si muove) fuori del circuito economico. Forse dovremmo riflettere di più sul fatto che, a ristagnare, non è solo la produttività del lavoro, ma è la produttività totale dei fattori produttivi (capitale e lavoro), e che il brusco arresto di quest’ultima precede di ben cinque anni quello della produttività del lavoro (la produttività del lavoro ristagna dal 2000-2001, quella totale dal 1995-1996). Una produttività totale dei fattori stagnante indica una sorta di stallo, o di neutralizzazione reciproca, fra le molteplici forze e contro-forze che si celano dentro il cosiddetto “residuo di Solow” (lo scarto fra la dinamica del prodotto, e quella che ci si potrebbe attendere in base alla dinamica degli input produttivi). Una di tali forze è sicuramente il progresso tecnico e organizzativo non incorporato nel capitale, ma l’altra è il complesso delle esternalità, delle condizioni collaterali e di contesto, che rendono possibile una vita economica fluida e dinamica: una burocrazia efficiente e non pervasiva, una giustizia civile veloce, norme chiare e facili da applicare, adempimenti snelli e non troppo numerosi, poteri amministrativi ben delimitati, percorsi autorizzativi lineari, ragionevole stabilità delle leggi, dei regolamenti e della normazione secondaria, tempi certi per aprire un’attività, o anche semplicemente per ottenere un allacciamento telefonico. Ma anche: investimenti pubblici in infrastrutture materiali e immateriali, sostegno alla ricerca, valorizzazione della conoscenza (a partire da scuola e università).
Ebbene, tutto questo è mancato, e forse la sua mancanza ha fatto più danni alla dinamica della produttività di quanti ne abbiano fatti gli altri innumerevoli fattori sempre evocati.
Ma la latitanza del potere politico e amministrativo, si potrebbe obiettare, c’è sempre stata, nel nostro sfortunato paese e, prima del 1995, non ha mai impedito all’Italia di crescere a un ritmo comparabile a quello delle altre economie avanzate. Perché quel che era possibile ieri ha smesso di essere possibile oggi?
La mia impressione, in parte basata sui miei studi sui vantaggi e svantaggi comparativi del federalismo, in parte sull’equilibrato bilancio tracciato da Schlitzer, è che quel che è successo a metà degli anni ’90 in Italia non è stato un improvviso collasso della macchina pubblica ma, molto più semplicemente, il fatto che, di colpo, complici la globalizzazione, la crisi della lira e l’imperativo categorico dell’ingresso nell’euro, tutte le nostre inefficienze, manchevolezze e ritardi sono divenute insostenibili. Da un mattino all’altro ci siamo trovati a dover tirare la cinghia, ridurre il debito pubblico, competere senza il salvagente delle svalutazioni, tenendoci un elefante pubblico di cui la maggior parte dei nostri concorrenti poteva felicemente fare a meno. Non è l’apparato statale dell’Italia che è di colpo cambiato a metà degli anni ’90, ma è semmai l’arena in cui l’Italia e gli altri paesi europei si accingevano a competere che è cambiata, una svolta questa della cui drammaticità ben pochi si accorsero (fra i pochi, Giovanni Sartori e Giulio Tremonti). Di fronte a un simile sconquasso, come abbiamo reagito?
In parte abbastanza bene, ovvero aggredendo il debito pubblico con la più grande ondata di privatizzazioni mai vista in un’economia occidentale, anziché imponendo un decennio di sacrifici alle famiglie e alle imprese. Ma in parte malissimo, ovvero costruendo il mito condiviso del federalismo fiscale, un mito partorito dalla Lega Nord ma immediatamente sposato dalla sinistra. Un mito che si basava su un’eccellente idea, ridurre gli sprechi dell’apparato pubblico e avvicinare la politica ai cittadini, ma che, in mano ai nostri politici affamati di voti (e qualche volta anche di altri benefit), si è rapidamente trasformato nel più grande harakiri che il paese si sia inferto dopo la seconda guerra mondiale. Anziché essere usato per ridurre i costi, quel poco di federalismo che abbiamo avuto è stato usato per duplicare, qualche volta triplicare, i centri di spesa. Ma il fatto più grave, dal punto di vista del nostro tentativo di capire l’arresto repentino della produttività in Italia, è che, in tutte le sue varianti (decentramento amministrativo prima del 2000, riforma del Titolo V nel 2001, legge 42 nel 2009), l’ideale federalista è stato di fatto tradotto in un’immane moltiplicazione dei centri di decisione, dei soggetti coinvolti nei processi politici, degli adempimenti degli operatori economici; in una pessima (perché confusa) ridefinizione dei compiti dei vari apparati della Pubblica Amministrazione, con conseguente proliferazione dei conflitti fra poteri pubblici; in un dannosissimo allungamento dei percorsi autorizzativi a tutti i livelli e per tutti i tipi di soggetti. Insomma: nel momento in cui avremmo dovuto accorgerci che uno Stato così non potevamo più permettercelo, e che era giunto il tempo di snellirlo e alleggerirlo, abbiamo invece cominciato a renderlo sempre più pesante e barocco. Anziché generare esternalità positive, ci siamo molto industriati a moltiplicare le esternalità negative che già avevamo in carico.
Ci sono prove che questo possa essere un pezzo importante, anche se non certo l’unico, della storia del declino della produttività?
No, prove vere e proprie potrebbero venire solo da uno studio comparativo assai complesso e approfondito. Però indizi sì, qualche indizio le statistiche e la storia ce lo offrono. Il primo indizio è che la produttività del lavoro non è ferma in tutti i settori: è addirittura diminuita nella maggior parte dei servizi, ma in compenso è aumentata nel settore manifatturiero e in agricoltura. Una spiegazione possibile è che la produttività è aumentata nei settori della produzione materiale (e in alcuni servizi avanzati come le telecomunicazioni) perché lì il progresso tecnico-organizzativo conta, ed è in grado di contrastare le esternalità negative generate dall’elefantiasi dell’apparato pubblico, mentre là dove (come in gran parte dei servizi) il progresso tecnico è più lento sono le esternalità negative ad avere la meglio.
L’indizio più importante, però, viene dalla storia economica e istituzionale. A mia conoscenza c’è un solo paese avanzato in cui, negli ultimi vent’anni, la traiettoria della produttività sia stata simile a quella dell’Italia: il Belgio. Un paio di mesi fa (dopo gli attentati terroristici a Bruxelles), su questo giornale, Beda Romano faceva notare che, in Belgio, dal 1970 si sono susseguite almeno «sei grandi riforme istituzionali», e che esse «hanno creato sovrapposizioni e inefficienze». E osservava: «è un paradosso, per salvaguardare il futuro del Belgio e rispondere alle richieste di autonomia delle tre regioni (Fiandre, Vallonia e Buxelles) e delle tre comunità (francese, fiamminga e tedesca), le sei grandi riforme istituzionali (…) hanno avuto l’effetto di indebolire lo Stato attraverso un continuo trasferimento di competenze dal centro alla periferia (…). Tra parlamenti locali e parlamento federale, il paese conta sei assemblee».
Difficile non cogliere l’analogia con la storia del nostro paese. Per questo, quando si parla del ristagno ventennale della produttività in Italia, mi sento di sottoscrivere pienamente l’invito che più volte è risuonato in questi giorni: ognuno faccia la sua parte. Purché non ci si dimentichi che, fra i tanti che dovrebbero fare la loro parte, c’è anche l’apparato pubblico. Il quale, nell’ostacolare il naturale, fisiologico, aumento della produttività una parte l’ha avuta sicuramente. E la cui parte, arrivati a questo punto, potrebbe essere innazittutto quella di farsi un pochino da parte.
Sintesi della relazione presentata sabato 28 maggio a Orta dall’autore dell’articolo all’Assembrea di Federmanager Vercelli e Novara - VCO

La crescita Usa  Un’economia in debito di ossigeno
di Domenico Lombardi Il Sole 4.6.16
Il dato rilasciato ieri dal Dipartimento del Lavoro americano racchiude in due soli numeri tutta la fragilità della ripresa americana. Nel mese di maggio, gli Stati Uniti hanno generato solo 38mila nuovi posti di lavoro, eppure il tasso di disoccupazione è ulteriormente sceso al 4,7 per cento, registrando un nuovo minimo.
Dopo il picco dell’ottobre scorso, la dinamica nella creazione di nuovi posti di lavoro ha cominciato a mostrare un declino, ma il dato di maggio si discosta significativamente dalle aspettative di mercato che si collocavano al di sopra di 160mila e dalla soglia di attenzione della Fed pari a 100mila nuovi posti di lavoro al mese necessari per tenere il passo con la dinamica demografica della società americana.
Apparentemente in contrasto con il dato di cui sopra, il tasso di disoccupazione è sceso più delle aspettative. In realtà, avvertendo crescenti difficoltà nella ricerca di un posto di lavoro soddisfacente, alcuni segmenti della popolazione stanno uscendo dalla forza di lavoro. Il tasso di partecipazione è, infatti, ulteriormente diminuito. Cumulando tale diminuzione con quella registrata in aprile, essa annulla il miglioramento osservato nel primo trimestre.
Eppure è prematuro stabilire se questi sviluppi introducono un nuovo elemento strutturale nella dinamica del quadro congiunturale americano: i consumi in aprile hanno segnato il più grosso incremento in sei anni, l’inflazione è in aumento anche se sotto la soglia del due per cento e le previsioni per la crescita del Pil nel secondo trimestre dell’anno sono pari al 2,9 per cento secondo la Fed di Atlanta.
Le famiglie si aspettano un miglioramento del proprio reddito nel prossimo futuro ma, al tempo stesso, alcuni indicatori di fiducia hanno subito una battuta di arresto lo scorso mese. Nel complesso, si intensifica una situazione di incertezza sulla robustezza della ripresa negli Stati Uniti che fra le economie avanzate hanno fornito un significativo contributo alla domanda mondiale negli anni successivi alla crisi finanziaria internazionale.
In ogni caso, tali sviluppi rischiano di produrre almeno due conseguenze a breve. In primo luogo, introducono un elemento di (ulteriore) dissonanza nella valutazione del quadro congiunturale da parte della Fed e della presidente Janet Yellen che solo l’altro giorno aveva confermato la possibilità di un imminente rialzo dei tassi di interesse. Ora, invece, appare assai improbabile che nella riunione del prossimo 14 giugno venga deciso tale rialzo.
Del resto, nel rapporto congiunturale rilasciato dalla Fed mercoledì, i suoi economisti non celano le difficoltà della ripresa in atto, definita nel medesimo rapporto modesta o moderata, mentre i nuovi dati danno apparentemente ragione alla Yellen nell’aver optato dall’inizio della sua presidenza per un approccio “data dependent”, le cui decisioni, cioè, si basano su un apprezzamento olistico e pragmatico degli sviluppi dell’economia, stante la difficoltà di stabilire relazioni strutturali tra le sue innumerevoli variabili nel contesto post-crisi.
Sul fronte esterno, tali sviluppi aumentano la pressione con cui le autorità americane seguono le dinamiche congiunturali e le politiche economiche delle altre economie sistemiche che potenzialmente compromettono l’accesso degli esportatori americani ai rispettivi mercati interni. Sotto la lente di ingrandimento, vi sono politiche del cambio, barriere non tariffarie ma anche politiche macroeconomiche che generano un eccesso di risparmio limitando il contributo alla domanda aggregata mondiale. Non è un caso che la visita asiatica del segretario al Tesoro, Jack Lew, appena cominciata, ha previsto una sosta in Corea del Sud, la cui economia è già sotto lo scrutinio dell’amministrazione per gli interventi che le autorità monetarie hanno effettuato sul mercato dei cambi.
Lunedì, a Pechino, il segretario Lew intende discutere con la sua controparte cinese la caduta di tensione nell’agenda riformista di Pechino e le implicazioni per l’economia mondiale di tale rallentamento. Imprese americane lamentano di una crescenta difficoltà per le imprese straniere a penetrare i mercati cinesi nonostante dichiarazioni pubbliche vadano esattamente in senso contrario. Per proteggere la fragile dinamica interna, le autorità di Pechino nicchiano sulla riforma delle aziende statali nonostante sia stata annunciata ormai da vari anni, perché timorose delle significative conseguenze occupazionali e sulla crescita dei consumi che la chiusura di molte di queste aziende improduttive genererebbe nel breve periodo. La conseguenza è che la sovraccapacità dell’industria cinese permane e, con essa, si accrescono gli incentivi a vendere sotto costo sui mercati internazionali e americani. Questo è proprio ciò che l’amministrazione vuole evitare.
Visto da Washington, l’accesso alla domanda estera si misura anche rispetto a quelle politiche che producono un eccessivo surplus di parte corrente, limitando, per tale via, il contributo alla domanda aggregata mondiale. È il caso dell’Eurozona e, in particular modo, della Germania, il cui surplus corrente rispetto al pil ha toccato il record dell’8,5 per cento del pil lo scorso anno. Se la ripresa americana dovesse stabilmente indebolirsi, le tensioni con l’Eurozona e con quelle economie che ne guidano il suo surplus sono destinate ad intensificarsi. Pertanto, la prospettiva per una ragionevole conclusione e in tempi relativamente brevi di un accordo transatlantico di libero scambio, il Tttip, rischierebbe di essere definitivamente compromessa.

Negli Usa creati solo 38 mila posti, ma c’è piena occupazione
Le stime ne prevedevano 158 mila I senza lavoro scendono al livello minimo del 4,7%. L’impatto sulle decisioni della Federal Reserve di Giu. Fer Corriere 4.6.16
Gli ultimi dati sul mercato del lavoro Usa pubblicati ieri alimentano il rompicapo della disoccupazione americana e complicano la decisione della Federal Reserve su un nuovo rialzo dei tassi, che la presidente Janet Yellen e altri governatori della Banca centrale considerano «appropriato».
A maggio sono stati creati 38 mila posti di lavoro, meno dei 123 mila nuovi posti di aprile (il dato è stato rivisto) e ancora meno dei 158 mila attesi dagli economisti. A dispetto del drastico rallentamento - è il peggior risultato dal settembre 2010 - la disoccupazione Usa è scesa dal 5 al 4,7%, un tasso che molti considerano piena occupazione. Si tratta del livello più basso dal novembre 2007. Negli anni precedenti la crisi finanziaria la media dei senza lavoro era stata del 4,6%, una percentuale salita fino a un picco del 10%, nel 2009, in piena crisi.
Sembrano numeri in apparenza contradditori. La spiegazione è che molti americani, non trovando un’occupazione idonea alle loro capacità, hanno smesso di cercarla, e sono usciti dalla forza lavoro. La conferma è che la partecipazione alla forza di lavoro il mese scorso è scesa al 62,6%, il livello più basso dell’anno.
Un’altra spia che desta preoccupazione sulla reale salute del mercato del lavoro americano è data dal numero dei lavoratori con un impiego part-time perché non riescono a trovarne uno a tempo pieno: il mese scorso sono aumentati di 468 mila unità, con un tasso stabile al 9,7%, agli stessi valori del 2008.
Sui dati pubblicati dal Bureau of Labour Statistics pesa lo sciopero di circa 31.500 lavoratori di Verizon, tanto che l’occupazione nel settore delle tlc a maggio ha perso 34 mila posti. L’accordo siglato il mese scorso tra azienda e sindacati, se ratificato, potrebbe riflettersi sui dati di giugno. Un segnale positivo arriva però dalle retribuzioni orarie nel settore privato, salite in media del 2,5% rispetto a un anno fa, a 25,59 dollari. Con due implicazioni importanti: salari che crescono ben più dell’inflazione implicano più reddito per i consumi, e quindi una nuova spinta all’economia. Ma se le retribuzioni aumentano forse significa che la disoccupazione americana è strutturale e mantenere i tassi vicini a zero per un prolungato periodo di tempo non solo no aiuterà a creare nuovi posti, ma potrebbe aumentare i danni collaterali indesiderati.
Ecco perché il compito della Fed è così complicato e le decisioni su un possibile rialzo dei tassi per nulla scontate.

La malattia cronica dell’economia europea
di Paul Krugman Repubblica 10.6.16
LA situazione dell’economia europea nel suo complesso è terribile, ma non così terribile com’era un paio di anni fa. E questa è la buona notizia. La brutta è che a distanza di otto anni da quando si ipotizzava che questa dovesse essere una crisi finanziaria passeggera, la fiacchezza economica prosegue, va avanti, senza che se ne intraveda la fine. E questa dovrebbe essere una notizia preoccupante per tutti, in Europa e altrove.
Prima parliamo dei fattori positivi: nel primo trimestre dell’anno i diciannove Paesi che hanno adottato la valuta unica hanno fatto registrare una crescita dignitosa. Anzi, per una volta essa è stata superiore alla crescita negli Stati Uniti.
L’economia europea è, in conclusione, leggermente più grande rispetto a prima della crisi finanziaria, e la disoccupazione è scesa dai livelli del 2013 pari a poco più del 12 per cento a poco meno dell’attuale 10 per cento.
Tuttavia, è significativo che questa passi per una buona notizia. A buon motivo ci lamentiamo del ritmo lento della ripresa americana, ma la nostra economia in ogni caso è già cresciuta del 10 per cento rispetto a prima della crisi, mentre il nostro tasso di disoccupazione è tornato sotto il cinque per cento.
Il fatto è, come ho detto, che non si intravede una fine per questo ormai cronico risultato inferiore alle aspettative. Guardate un po’ che cosa ci dicono i mercati finanziari.
Quando i tassi di interesse a lungo termine sugli asset sicuri sono molto bassi, stanno a indicare che gli investitori non vedono una solida ripresa all’orizzonte. Beh, i bond quinquennali tedeschi attualmente rendono meno 0,3 per cento. In verità, i rendimenti sono negativi da otto anni.
In che termini dovremmo pensare a questi tassi di interesse così inverosimilmente bassi? Di recente l’ex presidente della Minneapolis Fed, Narayana Kocherlakota, ha offerto una brillante analogia: rispondendo a chi critica la politica dell’easy money e i bassi tassi di interesse tacciandoli di essere “artificiali” — perché le economie non dovrebbero aver bisogno di mantenere tassi così bassi — ha suggerito di considerarli alla stregua delle iniezioni di insulina di cui i diabetici hanno bisogno.
Queste iniezioni non rientrano in un normale stile di vita, e possono avere brutti effetti collaterali; tuttavia sono indispensabili per tenere sotto controllo i sintomi di una malattia cronica.
Nel caso dell’Europa, la malattia cronica è la persistente debolezza della spesa, che conferisce all’economia del continente una persistente tendenza deflazionaria perfino quando, come adesso, vive alcuni mesi relativamente positivi. L’insulina del denaro a buon mercato contribuisce a contrastare quella fiacchezza, anche se di fatto non fornisce una cura.
Mentre però le iniezioni monetarie hanno contribuito a contenere le calamità dell’Europa — vengono i brividi a pensare come sarebbero potute andare male le cose senza la leadership di Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea — esse non hanno portato a niente di comparabile a una vera e propria cura. In particolare, malgrado gli sforzi della Bce, l’inflazione di fondo in Europa sembra immobile ben sotto l’obbiettivo ufficiale del 2 per cento.
Nel frattempo, in Europa la disoccupazione è ancora a livelli tali da infliggere danni enormi sul piano umano, sociale e politico.
È importante notare che in Spagna, portata a esempio come una storia di successo, la disoccupazione giovanile resta a un’inammissibile 45 per cento.
E non c’è nulla da parte, di riserva, per affrontare un nuovo shock. Supponiamo che la Grecia esploda ancora una volta, o che gli elettori britannici votino a favore di un’uscita dall’Unione europea, o che l’economia cinese precipiti nell’abisso, o altro del genere. Che cosa potrebbero o sarebbero disposti a fare i policymaker europei per contrastare un simile sconvolgimento? Nessuno sembra averne la più pallida idea.
Il fatto è che non è poi così difficile vedere ciò che l’Europa dovrebbe fare per contribuire a curare la sua malattia cronica. Più di qualsiasi altra cosa, sarebbe il caso di aumentare considerevolmente la spesa pubblica, soprattutto in Germania, ma anche in Francia, Paese in condizioni fiscali di gran lunga migliori di quanto i suoi leader sembrano rendersi conto.
Ci sono enormi esigenze infrastrutturali non soddisfatte e ci sono investitori che in pratica stanno supplicando i governi di accettare i loro capitali. Ho già detto da qualche parte che il tasso di interesse decennale reale, il tasso sui bond protetti dall’inflazione, è meno 0,8 per cento?
Per di più, ci sono buoni motivi per ritenere che spendere di più nel cuore dell’Europa apporterebbe grossi vantaggi anche alle nazioni periferiche.
Fare la cosa giusta, però, sembra politicamente fuori questione. Lungi dal dimostrare la volontà di invertire la rotta, la classe dirigente tedesca critica di continuo la Banca centrale, l’unica istituzione europea di rilievo che pare avere una vaga idea di ciò che sta accadendo.
Mettiamola in questi termini: visitare l’Europa può indurre un americano a sentirsi bene al riguardo del suo Paese.
Mi piacerebbe molto vedere l’Europa emergere da questa situazione di grande depressione. Il mondo ha bisogno di più democrazie vibranti e vive. Al momento, però, è difficile avvistare qualche segnale positivo.
(Traduzione di Anna Bissanti) © 2016 New York Times News Service 

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