giovedì 5 maggio 2016

Crisi del lavoro e crisi antropologica: il romanzo di Trevisan

Vitaliano Trevisan: Works, Einaudi Stile Libero pagg. 652 euro 22

Risvolto
Con una scrittura originale come un classico pezzo di jazz, che ne ha fatto uno degli autori italiani piú importanti della sua generazione, in questo romanzo autobiografico Vitaliano Trevisan racconta il lavoro nel luogo in cui è una religione, il Nordest, dagli anni Settanta fino agli anni Zero. E attraverso questa lente scandaglia non solo le mutazioni del nostro Paese, ma la sua stessa vita: il fallimento dell'amore, i meccanismi di potere nascosti in qualunque relazione, la storia della propria e di ogni famiglia, che è sempre «una storia di soldi».
«Perché trovo sempre un lavoro?, mi dicevo, Perché non mi lasciano andare alla deriva in pace? Diventare un barbone. Una delle possibilità che contemplavo. Che contemplo tuttora. Poi non ho coraggio. Mi viene in mente mio padre, il poliziotto Arturo, e la sua divisa, sempre impeccabile; e mio nonno, la dignità con cui indossava il suo vestito da festa. Assurdità che sempre mi ritornano. L'origine è un vestito che uno non smette mai».
La condanna tutta umana al lavoro inizia per Vitaliano Trevisan a quindici anni, quando una sera a cena chiede al padre una bicicletta nuova, da maschio, perché girare con quella della sorella maggiore significa essere preso in giro dai compagni. Per tutta risposta, il padre lo porta nell'officina di un amico che stampa lamiere per abbeveratoi da uccelli: «Cosí capisci da dove viene», gli dice, alludendo al denaro. Inizia per l'autore una «carriera» che è un succedersi di false partenze: dal manovale al costruttore di barche a vela, dal cameriere al geometra, dal disoccupato al gelataio in Germania, dal magazziniere al portiere di notte, fino allo spaccio di droga e al furto, «un commercio che obbedisce alle stesse fottute regole di mercato». Trevisan racconta gli anni Settanta schiacciati tra politica ed eroina, cui sembra essere sopravvissuto quasi per caso, la storia di un matrimonio e della sua fine, le contraddizioni del mondo della cultura - dove per ironia della sorte la frase piú ripetuta è «non ci sono soldi», la stessa che gli propinava il padre - e la sofferenza psichica, il percorso pieno di deragliamenti di un ragazzo destinato a fare lo scrittore.
       
“Come Chaplin vi svelo cos’è davvero il lavoro” 
Intervista a Vitaliano Trevisan, che in “Works” racconta i mille mestieri di un Nordest tutto bulloni e fatica: “Siamo ancora a Tempi Moderni”
MAURIZIO CROSETTI Restampa 4 5 2016
CRESPADORO (VICENZA) Cade tra noi all’improvviso un grande libro da un lontanissimo altrove. Precipita da un luogo che si chiama contrà Molino di Campodalbero, dove la provincia di Vicenza abbandona i capannoni e s’arrampica sui monti Lessini. Un grumo di case con appena tre abitanti e uno è lui, Vitaliano Trevisan, scrittore, drammaturgo, attore e contenitore di altri mestieri. Infatti è proprio di questo che parla “Works” (Einaudi Stile Libero), meteorite di 652
pagine appena uscito. Parla di lavoro. È il diario di numerose vite appartenute alla stessa persona, perché lavoro vuol dire tanto: paesaggio umano e fisico, luoghi, nomi, colleghi, superiori, attrezzi ma anche attese, vuoti, ansia, abbandoni, precarietà. Così Works è soprattutto una geografia psichica, “una collezione di false partenze” e un deposito di materia, c’è l’odore di olio lubrificante e la malta impastata col badile, ci sono il profilato d’alluminio di un armadio e la tenebra di un albergo nel quale fare la guardia mentre tutti dormono. Il corpo delle cose, insieme all’evanescenza di un dolore in perenne sottofondo, indistinto ma conficcato nel cuore.
La faccia di Vitaliano Trevisan è quella di Primo Amore di Matteo Garrone, il cranio pelato e gli occhi inquietanti dell’uomo che pretende la sua donna sempre più magra fino al delirio di entrambi. «Recitare, uno dei miei mestieri, sì». Occhi celesti profondi. Si rolla una sottile sigaretta al Bar Trego, dove siamo seduti nel freddo che c’è fuori e che scende ancora dalla montagna spruzzata di neve. «Poi saliamo su, ti porto a vèdere ». La cadenza veneta, gli accenti ogni tanto cascano all’indietro. Un lieve tremolio della testa. «Vengo qui al bar per collegarmi al wi-fi e scaricare le mail e qualche volta i giornali, per vedere la Juve, per comprare su Amazon libri e vestiti». Mostra la giacca inglese da caccia con inserti di daino sulle spalle. «In casa non ho televisore né Internet, mi scaldo con la legna. Meglio essere soli in montagna che in pianura».
Ed è dai margini apparenti, lontanissimo dalla società culturale e dalle sue confraternite, che la voce di Trevisan ha limato questo blocco di parole. Letteratura come necessità. Repertorio (parziale) dei mestieri svolti dall’autore: saldatore di gabbie per quaglie, stampatore a pressa di lamiere, operaio comune, scaricatore, muratore, manovale semplice, ladro di giubbotti, pusher di fumo, disegnatore tecnico, venditore di mobili, portiere di notte.
Scusi, Trevisan. Anche ladro? Spacciatore? Tra un capitolo e l’altro, come se pure questo fosse scritto nel suo singolare libretto di lavoro.
«Ho rubato giubbotti quando andavo (per poco) all’Università di Padova o magari no, leggete l’ultima riga del libro». Lo facciamo, non svela il finale: “Tutto ciò che potrebbe incriminarmi è frutto d’invenzione”. Forse che sì, forse che no.
E il fumo?
«Ci sono occupazioni meno rispettabili, tipo l’immobiliarista che ha circuito mio zio e gli ha sottratto la casa».
Perché “Works”?
«Vuol dire lavori e anche opere. L’ho proposto io, come tutti i miei titoli. Non ho editor, solo correttori di bozze. Il primo romanzo è rimasto fermo per quattro anni perché volevano impormi un editing, alla fine ho vinto. Quello che scrivo è solo mio».
Il lavoro non è di moda in nessun posto, purtroppo nemmeno in fabbrica, figurarsi nei libri. Ma lei ci ha speso cinque anni per parlarne: perché?
«Ci pensavo da almeno dieci. Se non lo faccio io, mi dicevo, chi mai? Scrivo con lentezza, una o due pagine al giorno. Tutti si riempiono la bocca di lavoro ma non più le mani, è caduta la compenetrazione tra classi, i cosiddetti comunicatori non hanno più niente a che fare col lavoro. Non lo conoscono, e meno lo conoscono più ne parlano».
Cos’è diventato il profondo Nordest? Nel suo libro crollano i miti e resta il dolore.
«I morti lavorando sono in crescita, e davvero c’è chi finisce in manicomio anche se li hanno chiusi. Qui nel Veneto abbiamo l’ansia di tornare indietro, di essere di nuovo tragicamente poveri: i nipoti che retrocedono all’epoca della polenta dei nonni. E quante bugie dalla politica, ancora e sempre democristiana. Il sindacato smantellato, a volte anche giustamente. Sembra che il lavoro manuale debba riguardare solo gli immigrati: non è così. Degli italiani poveri non si parla più».
Il libro è pieno di bulloni, tondini, carta millimetrata, tormenti, denaro nero, cattiverie. E d’improvviso, l’orgoglio del lavoro artigiano.
«Qui, sgobbare è ancora Tempi Moderni ma è anche La chiave a stella, è il talento innato della meccanica che sale dal basso. Ecco, Primo Levi lavorò davvero e poteva scriverne così. I nuovi contratti sono tutti a termine, il nero in agricoltura e nella ristorazione è all’80 per cento. Ora ci sono i voucher, solo una scusa per aggirare tasse e contributi. Le piccole aziende venete chiudono in continuazione ma non fanno massa, muoiono invisibili».
Saliamo sulla jeep nera di Trevisan, dopo marmisti e concerie ci si arrampica nella foresta di Giazza tra faggi, frassini, carpini e pioppi neri. «Un bosco giovane, senti che odore». I tornanti si fermano davanti a una casetta bianca su tre livelli in faccia al torrente Chiampo, che allargandosi forma il lago dei Poareti, dei poveretti. «Non a quest’ora, ma qui io vengo a vedere le trote che saltano». Solitudine e singolarità come in Works che è pieno di luoghi mai sentiti che si chiamano Cavazzale, Sandrigo, Poianella, Lupia, e a volte gli uomini Bortolo, Pericle, Adone (e lui, comunque, Vitaliano).
“Works” è un libro anche felice, anche ironico, seppure intriso di un forte sentimento di perdita. Cosa resta, alla fine di una storia di lavoro?
«Lo spaesamento, le occasioni buttate via. Anche gli errori e i pentimenti. Restano i dintorni, cioè il territorio che frequento».
Non il mondo ufficiale delle lettere, si direbbe.
«Lì non conosco nessuno, non chiedo niente. Né santi in paradiso né diavoli in terra. Io non c’entro, di un autore rimane e conta solo l’opera».
E di un lettore?
«I classici, i libri davvero formativi. Per me Thomas Bernhard, Sciascia, Conrad, Beckett, Quintiliano, Machiavelli su tutti. La narrativa di trama non mi prende, meglio le biografie e i saggi. E gli italiani contemporanei non li leggo proprio, i più premiati inseguono una ricerca strabica dell’effetto, scrivono male o non sanno scrivere in assoluto. Non faccio recensioni, ma quando leggo parole come “narrazione” o “storytelling” vorrei urlare».
Piove. Si ridiscende al Bar Trego. Locandina del
Giornale di Vicenza appesa fuori: «Trovate bombe nella bara del partigiano Toni Giuriolo». La vita come un pezzo d’acciaio montato su un perno asimmetrico. «A scuola finivo il mio tema in mezz’ora, poi avevo il tempo di scriverne almeno altri due che vendevo ai compagni. Più o meno quello che faccio adesso». Vitaliano si rolla ancora una sigaretta sottile ed estrae l’ultima frase come un sussurro. «È triste essere un osservatore, rende malinconici. Anche viceversa».


Un oceano di parole per qualche lavoretto
In «Works» racconta i mestieri fatti prima di darsi alla scrittura e sforna 650 pagine, usando un linguaggio burocratico «senza soluzione di continuità». A Bukowski ne erano bastate 160

Libero 4 Jun 2016 PAOLO NORI RIPRODUZIONE RISERVATA
In un libro memorabile del 1978, Mi ricordo di Georges Perec, c’è scritto: «Mi ricordo la fatica per capire cosa volesse dire l’espressione “senza soluzione di continuità”». E in un libro memorabile del 1975, Factotum di Charles Bukowski, c’è scritto: «Trovai lavoro in un magazzino di pezzi di ricambio per auto dietro Flower Street. Il direttore era un uomo alto e brutto senza culo. Tutte le volte che scopava la moglie me lo raccontava la mattina dopo. “Ieri sera ho scopato mia moglie. Prima l’ordine dei William Brothers”. “Non abbiamo più flange K-3”. “Ségnalo”. Lo segnai sulla distinta e sulla fattura. “Ieri sera ho scopato mia moglie”» (trad. di Marisa Caramella).
Questi due libri mi son venuti in mente intanto che leggevo Works di Vitaliano Trevisan, un «romanzo autobiografico» (così in quarta di copertina) da poco uscito per Einaudi (pp. 652, euro 22). Il romanzo di Bukowski mi è venuto in mente perché Chinaski, il protagonista di Factotum, come il protagonista del libro di Trevisan racconta una serie di lavori strampalati che gli capita di fare prima di trovare il modo di guadagnare scrivendo. Le differenze tra i due libri, però, sono evidenti, prima tra tutte il fatto che Factotum, nell’edizione che ho io (SUGARCo 1981), è di 166 pagine, mentre Works di 652, ma questa può essere una differenza quantitativa, superficiale; una differenza più sostanziale è forse nel fatto che il protagonista di Bukowski si chiama Chinaski, mentre il protagonista di Trevisan è lui stesso, Trevisan, che però quando parla di sé non dice quasi mai «io», dice «l’autore». «Al tavolo, oltre all’autore, ovvero chi scrive, la regista e la coproduttrice; il di lei giovane figlio, /…/ il di lui giovane figlio», si legge a pagina 9. Un bel po’ più avanti, a pagina 452, quando parla del fratello di sua moglie, Trevisan (o, meglio, l’autore) scrive che suo cognato diceva spesso «Noi imprenditori. Un giovane imprenditore come me, anche questo gli avevo sentito dire più di una volta, e sempre mi veniva da ridere, a sentirlo usare quella parola in riferimento a se stesso». Ecco, a me, devo dire, è venuto da pensare che è stranissimo, che Trevisan non abbia riso almeno un po’, all’idea di aver scritto un romanzo (autobiografico) di 652 pagine il cui protagonista, quando si riferisce a se stesso, scrive «l’autore», e lo scrive con la distanza che inevitabilmente si crea quando si ha a che fare con un «autore», distanza che dà alla lingua di Trevisan un registro stranissimo, quasi burocratico, tanto che una delle sue espressioni preferite è «Senza soluzione di continuità», che è un’espressione che io, prima di questo Works, non ricordo di aver trovato in nessun romanzo italiano, e che mi sembra più adatta a una prosa giornalistica o a una radiocronaca.
E stranissime sono certe parti di questo romanzo, per esempio quella in cui Trevisan parla di quando l’autore (cioè lui) lavorava come geometra (pag. 355): «Trattasi dunque di affrontare il problema nel suo complesso, studiare il territorio, e porre in atto una strategia di risanamento e consolidamento ricorrendo agli allora più moderni metodi di ecoingegneria, così come spiegati e illustrati nell’apposito manuale che il geometra comunale Y mi consegna». Per- ché queste cose sono entrate nel romanzo? mi sono chiesto. Forse perché sono parte della vita di un importante esponente della letteratura contemporanea, l’autore, che, mi è sembrato, è il primo a essere consapevole di avere a che fare con un importante esponente della letteratura contemporanea, e a pagina 626, quando è arrivato a raccontare il momento in cui «l’autore» è «uno scrittore misconosciuto, che per mantenersi fa il portiere notturno» in un albergo, trova che valga la pena di riportare «Una piccola nota che trascrivo da un taccuino dell’epoca: “Agosto '01 - Tutti che mi parlano della letterarietà del lavoro in hotel. Andassero a farselo mettere nel culo”».
Che è una nota che io quando l’ho letta ho pensato che, se non fosse appartenuta a un «autore», forse non valeva la pena di metterla dentro un romanzo, per quanto autobiografico, così come mi sono chiesto se valeva la pena di sostenere, dentro un romanzo, che «a volte, nell’adolescenza, c’è più saggezza di quanto comunemente si pensi», o di chiedersi «è possibile non amare più, quando si è amato davvero?», o di sostenere che mantenere l’indipendenza, la libertà e l’onestà è «pressoché impossibile, se si scrive per un giornale». Chissà.

Il dio-lavoro e lo scrittore «Works» (stile libero). Vitaliano Trevisan anatomizza il Nord-Est industriale del paese senza alcuna retorica narrativa: piuttosto, «memoria» lucida della precedente vita
Luca Illetterati Manifesto 20.6.2016, 22:24
Il filosofo, sostiene Merleau-Ponty, per comprendere il mondo, per poterlo pensare, deve essere contemporaneamente dentro e fuori di esso. Lo si può dire, probabilmente, per qualunque impresa si ponga l’obiettivo di rendere in qualche modo ragione della realtà.
Per poter descrivere e comprendere una qualche porzione di essere, bisogna conoscerne gli interstizi, averne attraversato le pieghe più nascoste e, al tempo stesso, guardarlo da un punto liminare che nel consueto riveli l’insolito, nell’abituale sveli aspetti di stranezza, e all’occorrenza sciolga l’ordinario nell’insensato o nel ridicolo.
È più o meno questa la posizione dalla quale Vitaliano Trevisan scrive il suo imponente e strepitoso mémoire titolato Works (Einaudi «Stile Libero Big», pp. 664, euro 22,00), in cui racconta la sue esperienze lavorative prima di diventare uno scrittore.
Per ottenere il suo scopo, Trevisan crea una sorta di gioco di specchi, in cui quella che chiama la sua prima vita – segnata dal passaggio da un lavoro a un altro, da un’occupazione a un’altra – si riflette nella sua seconda stagione e la alimenta come ne fosse l’origine, mentre a sua volta la seconda vita – quella successiva alla pubblicazione di Quindicimila passi (Einaudi, 2002) e alla sceneggiatura con Matteo Garrone di Primo amore nel 2004, o alla messa in scena di suoi testi da parte di Toni Servillo nel Lavoro rende liberi – appare come una sorta di esito in grado di rendere in qualche modo sopportabile il caos, la frantumazione esistenziale e la disperazione senza uscita della prima.
Attraverso questo racconto meticoloso, puntuale nella rievocazione dei luoghi, preciso nella restituzione dei tempi, minuzioso nel riepilogare le condizioni psicologiche all’interno delle quali si muoveva (e si muove) il protagonista (ovvero l’autore stesso), viene descritto – in effetti – un mondo. Meglio: descrivendo un mondo, l’autore ne descrive molti altri e ce li restituisce come porzioni di realtà concentriche che si sono infettate l’una con l’altra, essendo l’una dipendente dalle altre. Contesti che rimandano in generale al lavoro dipendente (dove la dipendenza non è solo da qualcuno, ma più radicalmente dal lavoro stesso), nel Nord-Est dell’Italia (essenzialmente Vicenza e la sua periferia diffusa), nel territorio veneto dilaniato, dove stanno le marginalità dei disadattati (intesi come esseri antropologicamente incapaci di adattarsi al loro mondo-ambiente); e, soprattutto, il racconto rimanda alla dimensione esistenziale di soggetti che al tempo stesso sono interni a questo mondo ma non riescono ad accettarlo e a farlo proprio.
Senza alcuna retorica ideologica, Trevisan racconta, analizza e anatomizza questo corpo complesso, la sua psicologia, le sue patologie.
E al di là di qualsiasi astrazione e di qualsiasi pretesa universalistica ricostruisce un modello che è insieme sociale – una varietà di tipi antropologici – e figura esistenziale. Il territorio, il paesaggio – ovvero le zone industriali cosparse di capannoni, di case-azienda, di locali per la lap dance o di alberghi frequentati da commercianti di pellami, di oggetti da oreficeria nonché da coppie «clandestine» che vivono lì, in quegli alberghi, una loro vita di riserva altrettanto ordinaria e borghese dell’altra da cui fuggono – costituiscono una sorta di ritratto che coinvolge tutti, tanto chi cerca di scappare da quella sintassi quotidiana, quanto chi vi si muove come un pesce nell’acqua.
Questo mettersi allo stesso tempo dentro e fuori rispetto al mondo raccontato non è tuttavia, nel caso di Trevisan, un esperimento di laboratorio, assimilabile – per esempio – al lavoro di quegli attori, e talvolta anche di quegli scrittori, che si immergono in qualche mondo esperienziale loro estraneo badando a apparire autentici nel restituirlo.
All’artificiosa scientificità dell’esperimento Works contrappone – per quanto l’operazione sia necessariamente problematica e pericolosa – la vita di un individuo, l’autore stesso, la sua esperienza concreta di atomo di questo sistema che si muove certo in attesa di una qualche possibile salvezza, ma è allo stesso tempo consapevole della possibilità che gli venga negata una qualsiasi, anche minima, redenzione.
Works è una sorta di diario esistenziale realizzato nella forma di un viaggio dentro l’idea stessa del lavoro e in particolare del lavoro in quella terra, il Nord Est (già nome preveggente di una discoteca della periferia di Vicenza) che identifica l’esistenza stessa con il lavoro. Il lavoro sembra infatti, a chi si muove lungo quelle latitudini, come la dimensione (non una dimensione, ma la dimensione) attorno alla quale si costruisce qualsiasi ipotesi di senso.
Il lavoro, come dice Trevisan, è la vera religione del Nord Est, è il pilastro che regge tutti i meccanismi apparentemente naturali dentro cui l’esistenza degli umani si trova proiettata.
Parliamo di esistenze che si ritrovano a consumare i giorni lavorativi in attesa del fine settimana, della possibilità di liberarsi dalla dipendenza del lavoro e che poi, nel vuoto originato dalla sospensione di ciò che dà senso alla vita, sperimentano il risucchio dentro un vorticoso e desertico nulla, che può rivelarsi letale.
Nessuna ideologia, dunque. E nessuna retorica che rinvii alla figura del lavoratore/eroe, alla vittima, alla figura dello sfruttato. E nemmeno odio o disprezzo del lavoro. Rifiuto, semmai, dell’idea del lavoro come realizzazione del sé, come luogo di redenzione ed elevazione degli individui: splendide, da questo punto di vista, le pagine sulle cooperative sociali dedicate all’inserimento degli handicappati o al recupero di ex tossicodipendenti, dove l’intruglio di etica del lavoro e moralismo catto-comunista sembra sospendere qualsiasi giudizio elementare.
La forma di descrizione adottata da Trevisan è quella del disegno di dettaglio (il disegno tecnico in cui, quando era un ex geometra, eccelleva), nel quale si cerca una accuratezza scientifica, e con essa un’immagine, che riesca a rendere presente e vivida l’esperienza.
La sensazione è che per l’autore la precisione, in questo testo ancora più che altrove, sia una necessità intima, un bisogno che si potrebbe indovinare etico. Lo scrittore vuole condurre il lettore – attraverso la cura del dettaglio, l’attenzione minuziosa, l’onestà dello sguardo – alla verità della cosa, alla verità di un’esperienza, alla verità di una vita. Poiché coincide con il protagonista di quanto viene descritto, lo scrittore non può permettersi ambiguità semantiche, ammiccamenti lirici; non può concedersi giochi di prestigio linguistici e sintattici, né indugiare su narrativi effetti speciali.
La necessità primaria è quella di far sentire al lettore che non c’è menzogna, che non si sta barando, che un atteggiamento distante dal modo controllato e consapevole del rigore descrittivo si risolverebbe giocoforza in una costruzione artificiosa, in una cesura nel rapporto tra scrittura e verità. Ciò che è in campo non è l’adeguatezza mimetica della scrittura al reale, ma il suo corrispondere a se stessa sintonizzandosi con il ritmo del racconto che essa stessa istituisce, adeguando la sua stessa forma al mondo che indaga, all’occhio che scruta, al gesto che svela.
Si direbbe che Trevisan concepisca la scrittura come fosse un gesto pittorico che finalizza il dettaglio alla restituzione di una totalità, e del suo senso più remoto. In questa prospettiva, i trentuno «quadri» di cui si compone Works – ognuno dei quali rievoca una peculiare esperienza lavorativa, un determinato periodo nella vita dell’autore segnato da una specifica occupazione, dalla sua ricerca o da pratiche come il piccolo spaccio – compongono un ciclo nel quale la vita nel lavoro diventa il cuneo che consente di svelare la specificità di una esistenza e con essa di un’epoca e di un mondo: il destino dell’autore non prevede che se ne separi, e tuttavia egli non ne è mai davvero parte.

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