lunedì 23 maggio 2016

Difesa nostalgica della costituzione e degli equilibri che furono o conflitto intransigente a tutto campo?



Per quanto non meccanicamente coincidenti, la legge e la costituzione sono espressione formale di un determinato equilibrio relativo nei rapporti di forza tra le classi sociali che definiscono un regime politico storico.
Quando questo equilibrio cambia a favore di una parte, come è successo negli ultimi 20 anni con la controffensiva delle classi dominanti nei confronti di quelle subalterne, è del tutto normale che costituzione e leggi vengano mutate, perché si tratta semplicemente di aggiornarle alla nuova situazione reale.
La catastrofe, dunque, è già avvenuta da molto tempo e quanto avviene oggi ne è solo la registrazione.
Bisogna cercare di impedirlo, certo. Ma sapendo che non si contrasta la realtà effettuale contrapponendole sogni o nostalgie o calamandrei o persino togliatti, ovvero i nudi nomi e l'idealizzazione di un passato che non tornerà più.
E sapendo che non è difendendo la costituzione che si risolvono le contraddizioni e ineguaglianze sociali, ma è semmai solo riequilibrando i rapporti di forza attraverso il conflitto più intransigente ed esteso che si difende la costituzione [SGA].

Lo tsunami referendarioSinistra Pd. L’antitodo a Renzi si chiama Costituzione. La fronda interna, afona e travolta dal crollo di una cultura cultura politica, contratta ai margini 

Michele Prospero Manifesto 22.5.2016, 23:59 
Con un articolo apparso su Repubblica, critico su Renzi e la minoranza Pd incapace di incalzarlo a dovere sulle riforme costituzionali, Alfredo Reichlin ha un po’ riscattato l’onore politico degli antichi scolari di Togliatti. Tranne Aldo Tortorella (che però è più legato a Luigi Longo che al Migliore e quali referenti culturali ha il razionalismo critico di Antonio Banfi e non lo storicismo), nessuno tra gli eredi di Togliatti (cioè la più preparata generazione politica della Repubblica) aveva preso una netta posizione critica nei confronti di Renzi. 
Persino Macaluso esita a tirare le conseguenze logiche della sua riflessione sempre penetrante sulla fase politica. Egli pensa che il problema cruciale sia «la pochezza della classe dirigente di cui si è circondato» il presidente del consiglio. Che si tratti di personalità dallo scarso profilo politico e dalla inesistente attitudine istituzionale, nessun dubbio. Ma come poteva un leader mediocre, e privo di esperienza di governo egli stesso, selezionare un ceto politico di qualità? 
Macaluso è troppo acuto per non comprendere che il suo dipingere un Renzi come capo discutibile che però non ha rivali non è un semplice giudizio di fatto, ma un attestato di valore che celebra come immutabile l’esistente e condanna all’oblio i tentativi di reagire alla decadenza. È però soprattutto Napolitano che sorprende nella totale adesione allo stil nuovo del renzismo in ragione del quale ha sposato persino l’illiberale piglio governativo in materia di riforma costituzionale. 
Sarà per la profondità dei fondamenti culturali del decisionismo, che il ministro Boschi ha così esplicitato: Renzi è un politico decisionista perché «è stato arbitro nel calcio. Come arbitro si è abituati a prendere velocemente decisioni». Dinanzi all’arbitro della Costituzione non si può restare indifferenti. Sarà per l’aulico linguaggio istituzionale dell’inquilino di Palazzo Chigi («noi mettiamo lo streaming anche quando andiamo in bagno»). 
O sarà per la solidità del sapere economico del premier («Ieri, uscito dalla messa, mi sono fermato a parlare con il mio amico Gilberto, commercialista. ‘Matteo, che soddisfazione. Ieri ho fatto vedere a alcuni clienti quanto risparmiano di Irap. Non ci credevano!’»): quel che resta è il sostegno di Napolitano al plebiscito per l’uomo della provvidenza. 
Che di un referendum come evento mistico si tratti l’ha ribadito ancora l’altro giorno Renzi: «Il sì o il no alla riforma non è un sì o un no tecnico. È un passaggio epocale». Rimane un impenetrabile mistero della fede a spingere Napolitano, cioè il politico più longevo della “casta”, a prestare soccorso al premier che proprio a ottobre intende castigare la casta («Ogni giorno che passa diventa più chiaro: il referendum di ottobre sarà su argomenti molto semplici. Se vince il Sì diminuiscono le poltrone; se vince il No restiamo con il Parlamento più numeroso e più costoso dell’Occidente»). 
La sinistra, dagli allievi di Togliatti ancora in giro alle sue fondazioni culturali (con Beppe Vacca che formula una linea genealogica creativa dichiarandosi renziano, e forte sostenitore delle riforme costituzionali, proprio in quanto comunista togliattiano e gramsciano), dagli eredi di Amendola ai turchi più o meno giovani, insomma dirigenti di diverse generazioni, è afona e irrilevante. Ciò perché gran parte del suo ceto politico e intellettuale è rimasto travolto da un crollo di cultura politica e ha interpretato il renzismo come un fenomeno di lungo periodo. E, senza più alcun pensiero politico, ha sgomitato per acconciarsi sul carro del rottamatore per contrattare margini personali di sopravvivenza. 
Merito di Reichlin è di aver dato un primo segnale di reazione. E Bersani ha rilanciato la sfida sostenendo la piena legittimità di comitati per il no promossi dal Pd. Questa è la strada migliore. La sinistra Pd è un danno in potenza ogni volta che si muove in cerca di mediazione. In nome del miglioramento delle leggi ha contribuito a stravolgere la Costituzione e il diritto del lavoro. Se non ha il fegato per emendare proprie colpe e aprire comitati per il no, almeno non intraprenda quelle operazioni di scambio che finiscono per edificare mostri. 
Il problema principale oggi non è, infatti, l’elettività del senato ristretto e privato del voto di fiducia. E quindi la minoranza non si agiti inutilmente per strappare impegni sui modi di designazione dei dopolavoristi e poi consegnarsi a un Renzi ringalluzzito per la legittimazione delle sue pratiche illiberali ricevuta dai nemici interni. Il nodo è la legge elettorale. Rimuova lo scempio dell’Italicum e i senatori, il governo, li può pure ricavare in blocco dai consigli comunali di Rignano, di Montelupo Fiorentino, di Campi Bisenzio o Laterina. Elimini il premio di maggioranza e i senatori a vita per alti meriti verso la Repubblica il governo può pure indurre il Quirinale a sceglierli tra i banchieri dell’Etruria o del Credito fiorentino. 
L’atmosfera miracolistica creata attorno a un leader senza retroterra, che non può perdere il referendum altrimenti sul paese si abbatte il diluvio, la dice lunga sulla decadenza politica e culturale della repubblica. Tutti gli argomenti che suonano sul tasto: Renzi è una nullità ma non ci sono alternative non sono prove a sostegno di Renzi. Sono piuttosto una conferma della crisi della democrazia di cui lo statista di Rignano è un’espressione crepuscolare, non certo la terapia. 
L’alternativa a Renzi? La Costituzione, bene da non disperdere nella sua normatività che esclude ogni uso partigiano di una maggioranza governativa. Che la sinistra del Pd apra dei comitati per il no all’occasionalismo costituzionale è il minimo che possa fare.


SE RENZI DIVENTERÀ PADRONE SARÀ PER TUTTI UN DISASTRO 

EUGENIO SCALFARI Restampa 22 5 2016
C’È MOLTA confusione in Europa e in Italia. Politica ed economica. Ma poiché da almeno dieci anni il mondo intero e non soltanto l’Occidente, che è casa nostra, sta attraversando una depressione che ricorda periodi altrettanto calamitosi, credo sia necessario cominciare dal secondo aspetto della crisi, cioè dall’economia.
Questa settimana le Borse, dopo una prolungata depressione, hanno registrato un miglioramento tuttavia lieve, ma non è questo un fenomeno di rilievo. La novità che riguarda in special modo l’Italia consiste in un improvviso mutamento della Germania, da una politica fin qui di costante rigore economico e finanziario ad una improvvisa e rilevante flessibilità. Questa parola ha ormai assunto vari significati, ma nella sua essenza consente un trasferimento di risorse in favore d’un Paese che ne ha urgente bisogno. Nel caso in questione in favore dell’Italia, che da mesi ne fa urgente richiesta con motivazioni che variano seguendo sempre nuove circostanze ma il cui obiettivo è comunque il medesimo: disporre di maggior denaro affinché la nostra economia riprenda fiato con conseguenze finanziarie, sociali e quindi anche politiche.
Il presidente della Commissione di Bruxelles, Jean-Claude Juncker e il suo vice-presidente erano da tempo orientati in questo senso, ma la Germania si opponeva ed aveva perfino preso le distanze — sia pure in modo felpato — dalla politica espansiva della Bce.
DRAGHI da quell’orecchio non ci sentiva, ma se il freno nei suoi confronti fosse stato tenuto troppo a lungo avremmo probabilmente assistito ad uno scontro a dir poco drammatico. Per fortuna anche questo aspetto della questione è stato attenuato, anzi è scomparso del tutto, almeno per ora.
La flessibilità, per tornare al nocciolo della questione, ammonta a circa 26 miliardi di euro, motivati dal nostro governo da tre capitoli di spesa: la necessità di spostare di un anno (dal 2016 al 2017) la riduzione del deficit rispetto agli impegni assunti con la Commissione; le crescenti spese per salvare gli immigrati che arrivano dal mare; le operazioni di accoglienza, accertamento di identità e motivazioni della loro fuga dai Paesi di origine, con annesse le spese derivanti dagli eventuali accordi con quei Paesi per riaccoglierli. Insomma una sorta di bonifica sociale da effettuare su una vasta zona sub-sahariana.
A fronte di questi problemi e della flessibilità che ne è derivata, ci sono però alcune condizioni poste dalla Commissione e dalla Germania ed anche per sua propria iniziativa da Mario Draghi: leggi sul lavoro che incentivino più efficacemente della tanto nominata panacea del Jobs Act; trasferimento di entità consistenti dalle imposte sul reddito a quelle sul patrimonio; riversare tutte le risorse disponibili ad una diminuzione (sempre promessa ma mai realizzata) del debito pubblico e infine una consistente diminuzione del cuneo fiscale per quanto riguarda la parte contributiva delle imprese private. Quest’ultima ricetta l’avevamo più volte sostenuta da almeno un paio di mesi su queste pagine, ma il governo ha fatto orecchio da mercante rinviando al 2017 e non certo per importi significativi. Eppure sarebbe questa la vera panacea per nuovi investimenti e nuovi e veri posti di lavoro, con relativo aumento della domanda.
Questa è dunque la situazione attuale che Padoan dovrà trasformare nella legge di stabilità del 2017 in cui dovrà fornire le prime anticipazioni a Bruxelles entro il prossimo giugno. Il tempo è breve, il lavoro è molto. Ma nel frattempo che cosa sta accadendo nella nostra economia?
***
I problemi sono tre: il trasferimento del grosso delle imposte dal reddito al patrimonio. C’è di mezzo la riforma del catasto e non è uno scherzo da poco; l’andamento del Pil e la diminuzione del deficit entro il 2017 dal 2,4 all’1,8 per cento, l’emersione del mercato nero di imprese e lavoratori. Su quest’ultimo punto s’innesta ovviamente la lotta alle mafie e la corruzione che ne deriva. Qui cioè non si tratta più solo di economia ma entra in ballo anche la politica.
Ma entra in ballo anche il nostro rapporto con l’Europa perché qui la nostra capacità di negoziato si affievolirà di molto. La Commissione in questa occasione ha decisamente favorito l’Italia, mentre ha penalizzato economicamente sia la Spagna sia il Portogallo ed ha aiutato la Francia col contagocce, in una fase per lei socialmente molto difficile. Teniamo presente queste differenze di trattamento. La Merkel l’ha addirittura esplicitamente motivata: l’Italia — ha pubblicamente dichiarato — è uno dei Paesi fondatori dell’Europa e dobbiamo tenerlo presente. Non è un riconoscimento da poco, ma su quella strada dobbiamo proseguire, che la Merkel sia d’accordo o anche non lo sia. Noi siamo stati in tre diverse epoche fondatori dell’Europa: ai tempi di Cesare e poi da Augusto ad Adriano; nel Rinascimento tra il Quattrocento e i primi del Seicento, infine nell’Ottocento non però da soli ma in buona e solida compagnia. Ho già ricordato queste verità storiche qualche domenica fa, ma le ricordo ancora perché credo sia fondamentale. Spetta a Renzi muoversi su questo terreno. Capisco le imminenti elezioni amministrative; capisco molto meno il referendum di ottobre, ma questi appuntamenti elettorali non possono relegare in secondo o terzo piano quello di diventare uno dei protagonisti della politica europea.
La Germania ha detto che se le regole imposte dalla Commissione non sono rispettate dai vari Paesi membri, per i loro interessi nazionali, questi saranno giudicati in modo definitivo dal Consiglio dei ministri europeo, cioè dai 28 Paesi che lo compongono. Più nazionalismo di così. E chi dovrebbe combattere il nazionalismo dei disobbedienti? Ma dov’è la logica di tutto questo? Solo un’Europa federata può stroncare il nazionalismo dei singoli governi. Ed è questa la bandiera che Renzi deve impugnare. Se punta tutto sulle elezioni e sul referendum potrà avere cattive soprese e quand’anche fossero buone rafforzerebbero il suo potere personale. Per farne che cosa?
Questa è la domanda cui deve rispondere. A se stesso, alla propria coscienza politica prima che agli altri.
I candidati delle principali città che voteranno il 5 giugno sono di modesta levatura. Difficilmente trascineranno le folle al voto. Renzi ha detto che si farà in quattro e ne ha certamente la capacità, ma Grillo anche lui ce l’ha, anche la Meloni e Salvini. Berlusconi l’aveva un tempo, anzi era imbattibile, e tuttavia Prodi lo sconfisse ben due volte su quattro. Oggi comunque Berlusconi è muto. Tutt’al più si occupa del Milan e di Mediaset, di politica no, a meno che… Molti, che hanno buona memoria, pensano che negli ultimi giorni farà un colpo di scena. Conoscendolo abbastanza lo penso anch’io, ma il colpo di scena per esser tale deve sorprendere, e deve anche avere qualche chance di successo. Quella che avrebbe l’improvvisa alleanza con la Meloni e quindi anche con Salvini. La destra riunita potrebbe anche andare al ballottaggio con la Raggi o con Giachetti, e può persino vincere. Io penso questo. Certo non la voterò, ma molti invece sì.
Giachetti è un radicale passato da tempo a Renzi ma ebbe gli insegnamenti da Pannella. Immagino che abbia seguito con commozione più che comprensibile le varie camere ardenti, piazza Navona, funerali laici, sfilate e celebrazioni. Pannella però di politica vera e propria non sapeva niente, non era quella la sua missione. Quindi Giachetti ha solo Renzi come maestro. Tuttavia il suo nome è pressoché sconosciuto ai romani. Spero bene per lui ma non sono ottimista.
In realtà, tra le varie città in lista ce n’è una soltanto dove il candidato, che ha già governato la città con buonissimi risultati ed ora si è riproposto, è Fassino a Torino. Forse, così spera lui e spero anch’io, ce la farà al primo turno. Se dovesse affrontare il ballottaggio con i Cinque Stelle la battaglia non sarà facile, ma forse la vincerà.
Le altre piazze, salvo Merola a Bologna, hanno tutte candidature modeste poiché modesta è la classe politica attuale. La speranza è nei giovani, sempre che abbiano voglia di politica.
E poi c’è il referendum. L’appuntamento è decisivo. Se Renzi vince sarà padrone, se perde si apre uno scenario nuovo sul quale è molto difficile fare previsioni. Personalmente — l’ho già detto e scritto — voterò no, ma non tanto per le domande del referendum quanto per la legge elettorale che gli è strettissimamente connessa. Se Renzi cambia quella legge (personalmente ho suggerito quella di De Gasperi del 1953) voterò sì, altrimenti no. E immagino che siano molti a votare in questo stesso modo.
Pensaci bene, caro Matteo; se anche vincessi per il rotto della cuffia sarai, come ho già detto, un padrone. Ma i padroni corrono rischi politici tremendi e farai una vita d’inferno, tu e il nostro Paese.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

Riforme. Propaganda Sì, ma di infimo ordine
Se Renzi alza la bandiera del Pcidi Alberto Burgio il manifesto 24.5.16
Se il buon giorno si vede dal mattino, l’avvio della campagna referendaria lascia prevedere cinque mesi di violenza verbale, di forzature, menzogne e abusi di potere di cui proprio non si sentiva il bisogno.
Non si era ancora spenta l’eco dei nuovi editti bulgari all’indirizzo di giornalisti non ossequiosi, che è scoppiata quest’altra penosa grana. Enrico Berlinguer, Pietro Ingrao e Nilde Jotti variamente arruolati tra gli antesignani della «riforma» renziana.
Non certo perché davvero lo si creda, che discorsi. Ma perché può servire, se non altro, a confondere le acque e le carte.
Naturalmente chi ha a cuore la buona memoria del Pci e dei suoi dirigenti storici ha subito reagito e puntualizzato. La questione potrebbe con ciò considerarsi chiusa, almeno in punto di diritto. Ma forse vale la pena di dedicare qualche minuto a quello che episodi del genere rivelano o confermano. E, appunto, fanno presagire.
In primo luogo, perché questa scelta, perché queste figure?
È ovvio che, chiamando in causa emblemi del «vecchio Pci», i propagandisti del Sì sperano di convincere l’ala sinistra dell’elettorato democratico, in sofferenza per lo sgangherato protagonismo renziano e per le politiche padronali del governo, oltre che per il merito di un pateracchio che minaccia di trasformare la repubblica parlamentare in un regime iper-presidenzialistico.
Si dirà: è la logica della propaganda. Vero. Ma c’è propaganda e propaganda, come c’è argomento e argomento. Questo uso della propaganda politica è odioso proprio perché, come si diceva, punta a disinformare e a fuorviare. Odioso, ma anche utile: una misura fedele di che cosa è diventata la politica oggi, nell’Italia del renzismo trionfante.
Si fa una cosa di destra, che più di destra non si può. Si pongono le premesse per una dittatura della premiership sfigurando la Costituzione e agganciandola a una legge elettorale che consegna i pieni poteri al Capo del partito di maggioranza relativa (una esigua minoranza del paese).
Ma al tempo stesso la si camuffa da cosa di sinistra, per raggirare qualche milione di disinformati.
Di più. Mentre si medita di disegnare le istituzioni della Repubblica in forme consone allo strapotere delle oligarchie vicine al capo del governo, si agitano i volti di personaggi della storia repubblicana che incarnano valori antitetici. Il rispetto delle istituzioni e della cosa pubblica. La concezione partecipata della democrazia. L’appartenenza alla storia e alla cultura di quel movimento operaio che si considera un’anticaglia e un fastidioso residuo del tempo che fu.
Una perfetta vergogna.
Spiace in tutto questo soprattutto l’abuso dell’icona di Enrico Berlinguer, chiamata in causa direttamente dal presidente del consiglio, come già fece qualche tempo fa Veltroni, altro campione dell’americanismo italiota. Avesse se non altro buon gusto, Renzi non si sarebbe permesso di scomodare un uomo che mai avrebbe fatto del proprio partito una macchina da guerra contro il mondo del lavoro e contro il sindacato.
Ma si capisce, per chi vuole vincere a tutti i costi non è semplice resistere alla tentazione di sfruttare l’immagine di chi non può difendersi. Propaganda, sì: ma di infimo ordine. O piuttosto irrisione e presa in giro. Conforme, del resto, a tutto uno stile di governo.
Veniamo infine ai due argomenti che Renzi si è inventato per dare forza alle proprie esternazioni in giro per l’Italia.
Se prevale il No, sostiene, vince l’ingovernabilità e trionfano gli inciuci. Quindi oggi, visto che la bella «riforma» non è ancora in vigore, l’Italia non sarebbe governata? Per certi versi in effetti è così, dipende dall’idea che si ha del governo e del buongoverno. Ma evocare il caos si inscrive a pieno titolo nella categoria del terrorismo mediatico per la quale valgono le considerazioni precedenti.
Quanto agli inciuci, forse è questa l’unica punta di paradossale verità in questa fiera della mistificazione.
Lui, che sistematicamente impone alle Camere la propria volontà grazie al soccorso verdiniano, sembra voler dire – o dire suo malgrado – che simili mezzi – simili inciuci, appunto – imperverseranno, finché siederà a Palazzo Chigi, a meno che non gli si consegnino tutte le chiavi del potere con la sua «riforma».
In altri termini: bisogna «dire sì», come ai bei tempi delle adunate oceaniche, giusto per rendere superfluo lo sconcio al quale siamo costretti ad assistere. Non per «cambiare verso», solo per dare al Capo la possibilità di fare il bello e il cattivo tempo.
La morale di questa storia è tutta politica, oltre che morale.
Il renzismo si riduce a un binomio: strapotere delle lobbies e uso spregiudicato – compulsivo e mendace – della comunicazione (con la zelante complicità dei giornali «perbene»).
Per i prossimi mesi questa miscela tossica minaccia di pervadere la sfera pubblica. Contrastarla sin d’ora – oltre che prepararsi a bocciare sonoramente la controriforma della Costituzione – è indispensabile per scongiurare l’inquinamento irreversibile della politica italiana.

1 commento:

Unknown ha detto...

Basterebbe pensare a quanto accaduto di recente con il referendum sulle trivelle .
Come se esistesse una via giudiziaria all'ambiente salubre supplente delle lotte popolari dentro e fuori le fabbriche di morte.
Dopo la sconfitta del Movimento Operaio stessa fine rischia di fare quello ecologista .
C'è qualcuno che si ricorda della vittoria nel referendum sull'acqua pubblica buttato al macero dai soliti inetti che in Italia si mettono alla testa di ogni cosa pur di ritornare al punto di partenza ?