lunedì 30 maggio 2016

E' Donald Trump il Nuovo Hitler dell'antifascismo imperialista. La mobilitazione dell'establishment intellettuale democratico


Trump è un nemico ma Billary lo è di più. La scelta tra l'uno e l'altra non ci riguarda se il problema è quello di decidere chi preferiremmo. Non è questo il nostro problema [SGA].

LE SPARATE DI TRUMP E LE RADICI DEL FASCISMO 
IAN BURUMA Restampa 7 6 2016
STIAMO forse assistendo a una recrudescenza del fascismo? Sono in molti a crederlo. Donald Trump è stato paragonato a un fascista, così come Vladimir Putin e diversi altri demagoghi e sbruffoni europei di destra. La recente propensione ad esprimersi con toni arroganti e intimidatori è giunta persino nelle Filippine, il cui nuovo presidente Rodrigo (“the Punisher”) Duterte ha giurato che getterà i presunti criminali nella Baia di Manila.
Termini quali “fascismo” o “nazista” presentano tuttavia un problema: molte persone ignoranti ne hanno abusato talmente spesso da averli svuotati di un qualsiasi vero significato. Pochi ancora sanno cosa sia realmente il fascismo, e oggi tale parola si usa soprattutto per indicare persone o idee che non ci piacciono.
Una simile retorica ha imbarbarito il dibattito politico e la memoria storica: quando un politico repubblicano paragona le tasse Usa sulla proprietà all’Olocausto (come accaduto nel 2012), l’uccisione di massa degli ebrei viene banalizzata al punto da perdere significato. E lo stesso accade quando si paragona Trump a Hitler. Tutto ciò ci distoglie dai rischi della demagogia moderna. Dopo tutto, per Trump, Geert Wilders, Putin, o “the Punisher” non è difficile respingere l’accusa di essere fascisti o nazisti. Saranno pure ripugnanti, ma per il momento non organizzano truppe d’assalto né costruiscono campi di concentramento né invocano lo Stato corporativo.
La scarsa memoria — o l’ignoranza — del passato rappresenta un’arma a doppio taglio. Dopo aver sentito un giovane scrittore olandese simpatizzante della nuova ondata populista dichiarare la propria profonda antipatia nei confronti dell’élite culturale del proprio Paese — colpevole secondo lui di promuovere la musica atonale e altre turpi forme di espressione artistica — mi sono domandato se avesse mai sentito parlare della retorica nazista sull’arte degenerata. La musica atonale, oggi non di gran moda, era il tipo di espressione che i lacché di Hitler detestavano. E che finirono per bandire.
Nella retorica politica contemporanea è possibile riscontrare eco dei periodi più bui della nostra storia, che sino a qualche decennio fa avrebbero trasformato in un emarginato qualsiasi politico che vi avesse fatto ricorso. A quei tempi alimentare l’odio per le minoranze, scagliarsi contro la stampa, fomentare le masse contro gli intellettuali, i banchieri o chiunque parlasse più di una lingua non rientrava nelle dinamiche della politica tradizionale, e questo perché un sufficiente numero di persone era ancora in grado di comprendere i rischi insiti in tali argomentazioni.
È evidente che ai demagoghi di oggi tutto ciò non interessa granché. Ma non è facile capire se essi posseggano o meno un senso della storia sufficiente a rendersi conto che stanno riportando in vita qualcosa che si sperava fosse morto. Adesso sappiamo che simili atteggiamenti possono essere riportati in vita dalla scarsa memoria.
Ciò non significa che tutto ciò che i populisti affermano sia inattendibile. Persino Hitler ci vide giusto quando si rese conto che la disoccupazione di massa rappresentava un problema per la Germania. Molti degli spauracchi dei sobillatori di destra sono facilmente criticabili: i metodi opachi dell’Unione Europea, la falsità e l’avidità dei banchieri di Wall Street, la riluttanza ad affrontare i problemi dell’immigrazione di massa, la mancanza di interesse che i partiti tradizionali dimostrano nei confronti di chi è costretto a una posizione di svantaggio a causa della globalizzazione. Tutte problematiche che i partiti tradizionali si dimostrano riluttanti o incapaci di affrontare. Quando però i populisti ne attribuiscono la responsabilità alle “élite”e alle minoranze etniche o religiose, assumono toni simili a quelli che negli anni Trenta contraddistinguevano i nemici della democrazia liberale.
Il vero tratto caratteristico del demagogo reazionario è il modo in cui egli parla di “tradimento”: le élite cosmopolite ci hanno accoltellati alle spalle; ci troviamo di fronte a un abisso; la nostra cultura viene minata dagli stranieri; la nostra nazione potrà finalmente tornare ad essere grande quando ci saremo disfatti dei traditori, avremo impedito alla loro voce di diffondersi sui mezzi di comunicazione e saremo riusciti a far godere la gente comune di un sano organismo nazionale. I politici che si esprimono in questi termini e i loro sostenitori non saranno forse fascisti, di certo però parlano come se lo fossero.
Negli anni Trenta i fascisti e i nazisti non spuntarono dal nulla. Le loro idee non erano certo originali, e le basi dell’operato di Mussolini, di Hitler e dei loro emuli di altri Paesi erano state gettate già molti anni prima da intellettuali, attivisti, giornalisti e rappresentanti del clero che diffondevano idee piene di odio. Alcuni di loro erano reazionari cattolici che detestavano le conseguenze della Rivoluzione francese. Altri erano ossessionati dall’idea che il mondo fosse dominato dagli ebrei. Altri erano dei sognatori, desiderosi di far prevalere un fondamentale spirito razziale.
Nella maggior parte dei casi i demagoghi moderni sono solo vagamente consapevoli di questi precedenti, o forse li ignorano del tutto. Tuttavia le parole e le idee non sono prive di conseguenze. I leader populisti di oggi non dovrebbero continuare ad essere paragonati ai dittatori sanguinari di un passato recente. Ma cavalcando quello stesso sentimento popolare, essi contribuiscono a creare un clima tossico, che potrebbe riportare in auge la violenza politica. ( Traduzione di Marzia Porta) ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Robert Kagan “È arrivato il fascismo”
I dilemmi dell’America davanti al tabù finale

di Federico Rampini Repubblica 30.5.16
NEW YORK. Ci voleva un grande conservatore per osare pronunciare quella parola. Il fascismo in America? A spezzare il tabù è stato Robert Kagan, già consigliere di George W. Bush, “neocon” esperto di geopolitica, autore della celebre metafora su «gli americani che vengono da Marte, gli europei da Venere». In un editoriale-shock sul Washington Post, Kagan ha messo da parte cautele verbali, circonvoluzioni e inibizioni dell’intellighenzia. Il titolo è un pugno allo stomaco: «Ecco come il fascismo arriva in America». Il portatore della peste nera, Kagan non ha dubbi, si chiama Donald Trump. L’intellettuale di destra non risparmia le accuse ai suoi compagni di partito: «Lo sforzo dei repubblicani per trattare Trump come un candidato normale sarebbe ridicolo, se non fosse così pericoloso per la nostra repubblica». Segue una descrizione del ciclone-Trump in tutti i suoi ingredienti: «l’idea che la cultura democratica produce debolezza», «il fascino della forza bruta e del machismo », «le affermazioni incoerenti e contraddittorie ma segnate da ingredienti comuni quali il risentimento e il disprezzo, l’odio e la rabbia verso le minoranze ». Il verdetto finale: «E’ una minaccia per la democrazi », un fenomeno «che alla sua apparizione in altre nazioni e in altre epoche, fu definito fascismo ».
Ora che un guru della destra ha sdoganato contro “The Donald” l’accusa che molti non osavano pronunciare, il New York Times sbatte la controversia in prima pagina. Con il titolo “L’ascesa di Trump e il dibattito sul fascismo”, il quotidiano liberal dà conto di un allarme che sta diventando esplicito. Cita un politico, l’ex governatore del Massachusetts William Weld, che paragona il progetto di Trump per la deportazione di 11 milioni di immigrati alla “notte di cristallo” del 1938 in cui i nazisti si scatenarono nelle violenze contro gli ebrei. Il New
York Times allarga l’orizzonte, per cogliere dietro il fenomeno Trump una tendenza più globale: mette insieme una generazione di leader che vanno da Vladimir Putin al turco Erdogan, dall’ungherese Orban ai suoi emuli in Polonia, più l’ascesa di vari movimenti di estrema destra in Francia, Germania, Grecia.
Nell’élite intellettuale newyorchese tornano di moda due romanzi di fanta-politica. Scritti da due premi Nobel, in epoche diverse, ma con la stessa trama: l’avvento di un autoritarismo nazionalista in America. Il primo è di Sinclair Lews, s’intitola “Qui non è possibile”: affermazione rassicurante, e contraddetta. Scritto e ambientato nel 1935, immagina che Franklin Roosevelt dopo un solo mandato sia sconfitto e sostituito da un fascista. L’altro romanzo è “Il complotto contro l’America” di Philip Roth, molto più recente (2004), immagina che nel 1940 Roosevelt sia battuto dall’aviatore Charles Lindbergh, simpatizzante notorio di Hitler e Mussolini. La grande letteratura aveva previsto ciò che i politologi non vollero prendere in considerazione?
La reticenza che fino a poco tempo fa aveva impedito questo dibattito, ha varie spiegazioni. Al primo posto, la fiducia sulla solidità della più antica tra le liberal-democrazie. Poi, l’America è abituata a considerarsi all’avanguardia, è imbarazzante ammettere che importa tendenze in atto da anni in Europa. L’autocensura che ha trattenuto gli intellettuali nasce anche da un complesso di colpa: la narrazione dominante dice che l’élite pensante ha ignorato per anni le sofferenze di quel ceto medio bianco (declassato, impoverito dalla crisi, “marginalizzato” dalla società multietnica) che oggi vota Trump. Dargli del fascista, può sembrare una scorciatoia per ignorare le cause profonde di un disagio sociale.
Sulle etichette, molti preferiscono sfumature diverse, dalla “democrazia illiberale” ai “populismi autoritari”. L’allarme di Kagan sembra comunque troppo tardivo per arrestare la tendenza dei repubblicani a salire sul carro del vincitore. Newt Gingrich, l’ex presidente della Camera che oggi aspira a fare il vicepresidente di Trump, interpreta l’opinione prevalente dei suoi, quando definisce gli accostamenti col fascismo «ignoranti, offensivi, semplice spazzatura».

Questioni americane Perché alla fine ha vinto l’outsider?
di Alexander Stille Repubblica 30.5.16
DOPO la scioccante conquista della nomination repubblicana di Donald Trump per la Casa Bianca, molti si chiedono come mai tanti giornalisti (compreso il sottoscritto), e tanti altri esperti non avevano previsto il suo successo. Le ragioni sono tante. In altre elezioni ci sono stati vari candidati che hanno goduto di picchi inaspettati di popolarità, per finire poi nel dimenticatoio dopo qualche settimana. È stato così in particolare per altri personaggi anomali come Trump: nel 2012 c’era stato il pizzaiolo Herman Cain, ex-proprietario di una catena di pizzerie, che non sapeva della guerra civile in Libia, ma è stato il pupillo della destra prima di crollare. E quest’anno, c’è stata l’ascesa di Ben Carson, un chirurgo noto ma completamente digiuno di politica, che ha tenuto testa a Trump per due, tre mesi.
Le stagioni delle primarie sono molto imprevedibili: ci sono mesi di campagna elettorale prima del voto, in cui la gente può nutrire fantasie senza alcun impegno. Nelle ultime quattro, cinque elezioni i candidati outsider sono scomparsi dopo le prime vere primarie – quando i “veri” candidati – quelli con i soldi e con l’appoggio dei leader del partito, cominciano a guadagnare terreno.
Questa volta le primarie non hanno seguito il solito copione. Perché? Forse abbiamo guardato ai precedenti sbagliati, sottovalutando quello di Sarah Palin, il candidato per la vice-presidenza di John McCain nel 2008. Aveva molte delle caratteristiche di Trump: il carisma, la capacità di soffiare sul fuoco del populismo e della rabbia della tribù bianca che si sente scavalcata dalle minoranze e disprezzata dagli élite dei due partiti. E come in Trump, la sua quasi ostentata ignoranza degli affari internazionali era vista come prova della sua autenticità, della sua diversità rispetto ai politici di professione. In più, abbiamo sottovalutato quanto la globalizzazione – e i trattati commerciali – abbia fatto soffrire una buona parte della popolazione. I dirigenti dei due grandi partiti – che sono benestanti – hanno visto i suoi benefici – prodotti cinesi e coreani meno cari – tralasciando il disagio dei ceti medi- bassi, che hanno visto scomparire molti posti di lavoro. In più, l’emergere dei media di destra – la radio e la televisione di Fox News – ha cambiato il linguaggio politico. Scatti di ira, insulti e scivolate che in passato avrebbero rovinato delle carriere, ormai sono considerate mosse vincenti.

“Trump eccessivo, staff in crisi”
Nuova inchiesta del New York Times sul candidato repubblicano: “Attorno a lui, il caos” Durissima la replica del tycoon: “È un giornale che sta fallendo e pubblica solo falsità” di Alberto Flores D’Arcais Repubblica 30.5.16
NEW YORK. Il primo a usare la parola tabù era stato Robert Kagan sul Washington Post
(«Ecco come il fascismo arriva in Americ»”), adesso l’ha sdoganato anche il New York Times
con un articolo di Peter Baker, corrispondente dalla Casa Bianca. Lui, “The Donald”, non se ne preoccupa troppo: sa che certi attacchi possono portargli nuovi fan, in questo caso dalla destra estremi. Quello che invece proprio non sopporta sono gli articoli che il quotidiano di New York ha messo insieme negli ultimi tempi su di lui e che secondo Trump fanno parte di una vera e propria «campagna diffamatoria» da parte di un giornale «in fallimento».
L’ultima irritazione è per l’articolo dedicato ai suoi più stretti collaboratori (27 maggio), che partendo dal licenziamento in tronco di Rick Wiley (direttore politico della sua campagna) neanche due mesi dopo averlo assunto, fa il punto sullo “staff zoppicante” del candidato del Grand Old Party. «Il New York Times, che sta fallendo, ha scritto una storia sul mio stile di gestione e sul fatto che non ho molte persone nel mio staff. Ne ho 73, Hillary ne ha 800 e la sto battendo», la replica un po’ stizzita di “The Donald”. Che poi aggiunge una velenosa frase sull’attendibilità dei giornalisti: «Non credete ai media che citano staff della mia campagna per scrivere i loro articoli, le uniche affermazioni che contano sono le mie».
In effetti, con la sua presenza bulimica sui social network (che gestisce tutti in prima persona o con i figli) le polemiche (e la pubblicità) le alimenta quasi da solo. Con il New York Times (il quotidiano liberal si è schierato con Hillary Clinton) ha un conto da regolare non solo, o non tanto, per gli editoriali che lo definiscono «poco presidenziale» o gli articoli che lo descrivono come pericoloso per il futuro dell’America, ma soprattutto per l’inchiesta sui suoi rapporti con le donne (14 maggio). Cui aveva replicato accusando il giornale di «essere disonesto», di aver eliminato le risposte di donne a lui favorevoli e di aver scritto «un sacco di bugie». Dieci giorni dopo il Nyt è intervenuto nuovamente con un lungo elenco di tutte le dichiarazioni misogine di Trump.
Quello di cui il candidato che mira alla Casa Bianca dovrebbe adesso preoccuparsi è la decisione del giudice Gonzalo Curiel, che ha ordinato che vengano resi pubblici i documenti sulla Trump University, una vicenda che potrebbe metterlo in difficoltà. Lui ha reagito con l’insulto («è un messicano») e con quella che è sembrata quasi una minaccia («ci vedremo a novembre quando sarò 

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