lunedì 23 maggio 2016

Francesco De Gregori revisionista storico

Quando Fellini disse no a De Gregori

La grottesca bocciatura al provino del film «Roma». E naturalmente i dischi, il successo, la politica

Corriere della Sera 23 mag 2016 di Aldo Cazzullo
«Èl’arte della maieutica quella che ti mette a proprio agio e ti fa scoprire cose di te che non pensavi nemmeno lontanamente di avere» dice Francesco De Gregori all’inizio dell’ultimo capitolo. Antonio Gnoli possiede l’arte della maieutica, esercitata anche nei libri scritti con Chatwin e con Juenger. E alla fine di questo bellissimo Passo d’uomo (Laterza) il cantautore racconta la storia dell’altro Francesco De Gregori: lo zio di cui porta il nome, comandante partigiano delle brigate Osoppo, assassinato a Porzus da partigiani comunisti insieme con Guido Pasolini — il fratello di Pier Paolo — e altri valorosi resistenti; una delle pagine più drammatiche del Novecento italiano.
De Gregori prosegue e approfondisce il discorso iniziato in un’intervista del 2003 al «Corriere della Sera». Racconta il dolore del padre, chiamato a riconoscere il corpo del fratello, e la delusione per la scelta di Pertini di graziare l’assassino. Rivela un suo incontro con Giorgio Bocca, che aveva definito Bolla (questo il nome di battaglia del comandante De Gregori) «l’uomo sbagliato al posto sbagliato»; mentre per il nipote era «l’uomo giusto al posto giusto», un patriota — le brigate Osoppo furono chiamate così per una scelta risorgimentale: Osoppo era stato l’ultimo paese del Friuli ad arrendersi agli austriaci nel 1848 — disposto a combattere per la democrazia e per la difesa dei confini orientali dell’Italia, sino al punto da essere assassinato da altri partigiani italiani egemonizzati dai titini. Parla di un altro fratello del padre, Luciano, che fece la scelta di Salò, e andò a Porzus a incontrare Bolla, forse per indurlo a rivedere la sua decisione. E racconta di quando in un concerto a Udine cantò Stelutis alpinis, rielaborazione di un canto di guerra friulano, «parole d’amore per una donna rimasta sola», e la cantò davanti alla vedova dello zio, «una bellissima signora che ha vissuto sino a centouno anni; lì ci siamo tutti resi conto, improvvisamente, che la canzone ci stava addosso». Conclude De Gregori: «Sono orgoglioso di Bolla, e fiero e felice di portare il suo nome». E «sono convinto che la storia della Resistenza, al di là delle provenienze, sia stata monopolizzata dalla componente comunista. Che certamente è stata una parte importantissima, ma non l’unica». Nel dopoguerra si creò un clima «che si protrasse così a lungo da cancellare sia la componente cattolica che quella monarchica. La scena della lotta per la Resistenza era occupata dalla forza rivoluzionaria e da quelli che avevano come solo obiettivo la cacciata dell’invasore. La prima prevalse nell’immaginario collettivo; la seconda sparì».
Sono pagine importanti, sia per la sincerità del racconto, sia per la profondità della riflessione storica. Ma il libro non può essere ridotto all’ultimo capitolo. E non solo perché De Gregori tiene a ribadire di non essere un intellettuale, ma un artista, un cantante, uno con i calli alle mani, sia pure prodotti dalla chitarra.
Passo d’uomo è pieno di poesia. L’infanzia nell’Italia dignitosa del dopoguerra, protetta da una piccola città — Pescara — e da due genitori ancora innamorati l’uno dell’altro. Il rapporto con il fratello maggiore che fa da apripista nella scoperta della musica, di Dylan, del Folkstudio. La passione giovanile per Morandi, le parole inattese per Nicola di Bari, le canzoni dei Rokes o di Caterina Caselli «che sono state per me importanti quanto la lettura di Steinbeck o Hemingway». Il fascino di Tenco e De André. Il ricordo vivo di Lucio Dalla. La cena segnata dall’imbarazzo con Enrico Berlinguer. La decade del successo, gli anni Settanta, quando la felicità privata coincide con anni difficili per la vita pubblica. L’intimidazione politica subita dagli autonomi al Palalido di Milano nel 1976. E dettagli inattesi, come i due incontri davvero surreali con Fellini.
Paolo Pietrangeli propone al giovane De Gregori un provino per il film Roma. Fellini lo fa camminare avanti e indietro. Poi si sente la «vocetta stridula» del regista che dice a Pietrangeli: «A Paolè, t’avevo chiesto di portarmi uno basso e scuro e tu ti presenti con uno alto e con i capelli rossi!». Poi c’è un ricordo più tenero: un pomeriggio Francesco con la moglie Chicca incontra per caso Fellini in via Margutta, sotto casa. «Per paura di rompergli le scatole quasi ci nascondemmo. Assistemmo un po’ defilati a questa scena: giunto davanti al portone di casa, un gatto gli si avvicinò tentando di entrare con lui. Fellini bloccò in qualche modo l’animale e cominciò a parlargli. Il gatto a quel punto si sdraiò. Lui si infilò nel portone. Lo richiuse. Dopo un paio di minuti Fellini ricomparve sulla soglia e diede da mangiare al gatto. Fu una scena meravigliosa».
De Gregori parla anche di politica, della sua storia di sinistra, delle dure critiche a Veltroni affidate al «Corriere» nell’estate del 2007, quella delle primarie («forse avrei potuto essere meno tranchant, forse Veltroni avrebbe potuto prendersela di meno e magari accogliere alcuni rilievi che gli muovevo e in seguito risultarono non del tutto infondati»). Alla fine del libro De Gregori, di solito considerato un burbero, appare per come è davvero: una persona esigente — con se stesso e quindi con gli altri — ma non sfuggente. E siccome nessuna intervista dovrebbe chiudersi senza una domanda sulla fede e sull’aldilà, Gnoli esercita l’arte maieutica sino in fondo e consente all’intervistato di arrivare a questa conclusione: «Se dovessi definirmi un uomo con o senza fede, alla fine propenderei per la prima soluzione». «Il fatto stesso che io parli di mistero, implica una forma di fede. Uno scientista si metterebbe a ridere, per lui non esistono “misteri”, meno che mai “un mistero”… La fede per me non è una ricerca di certezza, semmai l’accettazione di una mancanza. Ti dirò di più: se per fede intendi un certo senso della trascendenza, allora sì, sento qualcosa del genere, anche se non so bene da dove nasca».

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