mercoledì 25 maggio 2016

Giorgio Napolitano non ha smesso di far danno

Europa, politica e passioneGiorgio Napolitano: Europa, politica e passione, Feltrinelli

Risvolto
  Il progetto europeo è duramente scosso nei suoi fondamenti ideali, nelle sue politiche, nelle sue istituzioni.
Conati neonazionalistici, rozzi tentativi di ristabilire barriere ai confini, arroccamenti retorici nelle presunte vecchie identità – ecco quello che sotto le bandiere dell’euroscetticismo e del populismo si diffonde nei paesi dell’Unione. In questo contesto, Giorgio Napolitano continua instancabilmente a riportare il dibattito alla radice delle ragioni di un europeismo convinto.
Se è importante riconoscere le difficoltà attuali del progetto europeo, infatti, non si deve cadere nella tentazione di farne tabula rasa né di cedere al catastrofismo.
“Se davvero la prova suprema di vocazione e visione politica la si dà, la si dà ritentando ogni volta l’impossibile. Ebbene, quello di un’Europa sempre più unita è precisamente l’impossibile che dobbiamo ritentare con tutte le nostre forze. E se si pensa al mondo che cambia e ribolle attorno a noi, viene spontaneo chiedersi: Europa, se non ora, quando?”
Il Presidente emerito raccoglie in questo volume quattro ampi interventi pubblici in diverse sedi in cui scandisce le tappe della costruzione europea, suggerendone le nuove motivazioni dettate dal cambiamento mondiale.
Apre la raccolta un’introduzione in cui Napolitano ripercorre il suo cammino da posizioni distanti dall’adesione italiana al processo di integrazione a una graduale, piena identificazione con la prospettiva dell’unità dell’Europa.

“Oggi per l’Europa occorre che quanti credono nei suoi valori e sentono l’imperativo della sua unità sappiano osare e rischiare. Non dimenticando che, specie per superare incomprensioni, condizionamenti storici, contagiose paure e resistenze al nuovo, la politica deve farsi passione.”

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Re Giorgio fuori dalla realtà
Nel saggio sull’Europa l’ex presidente spara contro le autonomie E chi critica la Ue diventa uno xenofobo che danneggia l’economia

Libero 25 mag 2016 RIPRODUZIONE RISERVATA
A quanto pare, criticare l'Unione Europea non è più consentito. Abbiamo toccato con mano, nei giorni scorsi, il trattamento che è stato riservato al Partito della Libertà austriaco, delle cui performance elettorali si discuteva ancora ieri (alle presidenziali è stato battuto per un soffio dai Verdi, ma comunque ha ottenuto il 49.7% dei consensi).
I termini più gentili utilizzati per apostrofarlo sono stati «estremista» e «xenofobo», e la quasi totalità dei giornalisti del Vecchio Continente ha tifato perché il candidato Norbert Hofer e i suoi non trionfassero alle urne. Sono stati accontentati, ma la demonizzazione del nemico anti-europeista non è ancora terminata, anzi diviene più cruenta ogni giorno che passa. E non si limita alle accuse di razzismo o xenofobia. Si spinge oltre: adesso i partiti e i movimenti euroscettici sono accusati di fare il male dei loro Paesi poiché ne destabilizzano l'economia. Sapete da dove giunge questa accusa? Dalle grandi banche. Ieri il Sole 24 Ore ha pubblicato una dettagliata mappa dell'euroscetticismo in crescita, Paese per Paese. Soprattutto, però, il quotidiano economico ha reso note le considerazioni in materia di alcuni dei maggiori istituti di credito: come prevedibile, sono tutte negative. «Il peso crescente dei partiti estremisti, populisti e anti-euro ha un impatto notevole sui mercati: provoca instabilità politica, rallenta il passo di governi indeboliti, compromette il cammino delle riforme strutturali e l'impopolare consolidamento dei conti pubblici, con effetti negativi su crescita potenziale e calo del debito/Pil», ha riassunto il giornale di Confindustria. Insomma, la sola avanzata in termini di consensi degli schieramenti euroscettici rappresenta un pericolo, perché «ostacola il cammino delle riforme».
Ecco perché Bnp Paribas ha messo in guardia i suoi clienti sulla crescita dei «partiti estremisti» in Austria e a Cipro. Mentre Ubs si è concentrata sul «rischio delle "European politics»: Brexit il 23 giugno, le elezioni in Spagna il 26 giugno, e poi a seguire il referendum sulla riforma costituzionale di Matteo Renzi, le elezioni in Germania e Francia». In pratica, ogni volta che i popoli sono chiamati a esprimere il proprio parere, per il mondo finanziario e bancario si tratta di un pericolo per la «stabilità» e la «crescita». Di conseguenza, la linea da seguire onde tranquillizzare i mercati e gli investitori è una sola: fare le riforme chieste dall'Ue. Se poi sulle riforme pesa l'opinione dei colossi bancari più di quella dei cittadini, poco male. Del resto, le opinioni delle multinazionali del credito sull'argomento sono note. È dal 2013, tanto per fare un esempio, che JP Morgan critica l'Italia e i Paesi mediterranei perché troppo «socialisti» e troppo teneri con le manifestazioni di protesta contro lo «status quo politico». Leggere per credere il documento intitolato Aggiustamenti nell'area euro prodotto dagli esperti della banca d'affari. La quale è apparsa molto contrariata dal fatto che in Italia e in altri Stati del sud Europa «si presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell'area europea». Insomma, la dicotomia è chiara: mentre fra le popolazioni europee crescono sentimenti negativi verso l'Ue, ci sono altre forze che spingono per soffocare queste pulsioni. È in tale quadro che bisogna leggere il nuovo libro di Giorgio Napolitano, Europa, politica e passione (Feltrinelli). L'uomo che, da presidente della Repubblica, ci ha regalato i governi dei tecnici esprime alla perfezione i timori del mondo bancario e finanziario e si prodiga in ogni modo affinché la volontà di Bruxelles sia applicata a puntino. Pure Matteo Renzi ha fatto capire che l'ex capo di Stato gli ha messo una certa pressione. «Napolitano mi ha detto: devi fare la riforma del lavoro, della legge elettorale, la riforma costituzionale e quella della Pubblica amministrazione», ha dichiarato il premier giusto un paio di giorni fa.
Dunque Re Giorgio non si è stancato di farci la predica. Leggendo (con notevole fatica) il libro si capisce quanto gli dia fastidiol'euroscetticismo imperante. Secondo Napolitano, «sono risorte dal passato storico pulsioni nazionalistiche e reazionarie, si sono radicate nuove sindromi di cieco egoismo e di velleitario rifiuto delle tendenze storiche in atto». Capito? Se non vi volete fare invadere dagli immigrati, siete egoisti e reazionari. Se non sopportate più l'austerità, siete dei velleitari che si oppongono inutilmente al fiume in piena della storia. Guai a voi se osate contestare le «maggiori conquiste» dell'Ue, ovvero «la libera circolazione delle persone» e «la Convenzione di Schengen». Rassegnatevi: «La condizione dell'Italia, nel breve e nel lungo termine, non è più pensabile al di fuori di un riaffermato e rinnovato radicamento nell' Unione europea». Politica estera e di sicurezza comune, rafforzamento dell'alleanza Transatlantica (e firma del trattato Ttip, si presume), consolidamento dell'unione economica e bancaria, addirittura «apertura verso il mondo arabo». Sono queste, per Re Giorgio, «le condizioni ineludibili perché l'Italia, senza velleitarismi e senza subalternità, possa contare nel quadro europeo e mondiale». Chi rifiuta di adeguarsi è un «velleitario». O uno xenofo reazionario che danneggia l'economia. Così parlò Napolitano. Certo, realtà e volontà popolare vanno nella direzione opposta. Ma forse all'ex presidente non importa molto. L'importante è che i mercati stiano tranquilli, e che a Bruxelles siano felici.

La strada maestra verso lo status quo SAGGI. «Europa, politica e passione» di Giorgio Napolitano per Feltrinelli
Leonardo Paggi Manifesto 11.6.2016, 19:52
Ho aperto il libro di Giorgio Napolitano (Europa, politica e passione, Feltrinelli, pp. 94, euro 10) con la curiosità di vedere come un rappresentante autorevole del main stream Ue faccia i conti con la situazione drammatica in cui sprofondiamo ogni giorno di più. Confesso la mia sorpresa dinanzi alla sua scelta di descrivere senza mezzi termini lo stato comatoso in cui versa il processo di integrazione: caduta verticale del consenso popolare, blocco dello sviluppo economico e sociale, ripresa dei nazionalismi, imbarbarimento delle leadership. Sull’immigrazione una condanna netta della politica del filo spinato ovunque in atto (particolarmente forte la denuncia del caso ungherese) e appoggio incondizionato ad una prospettiva di accoglienza. Più in generale insistente e ripetuta affermazione dell’obbiettivo del federalismo politico come l’unico in grado di mettere in salvezza il progetto europeo. Non a caso Altiero Spinelli ha, nel Pantheon dei padri fondatori insistentemente riproposto nel libro, un ruolo di assoluto rilievo.
La masochistica distorsione
Contemporaneamente, piena adesione alla politica di austerità in atto, e rigetto fermo di qualsiasi «catastrofismo» sempre disposto a vagheggiare un’«altra» Europa. È «masochistica distorsione» non accorgersi che il problema è quello della crisi globale. Ma i dati parlano chiaro. Tra il 2009 e il 2014 l’economia dell’Eurozona si contrae dell’1% e non recupera i livelli del 2008. Nello stesso periodo, senza guardare alla Cina (+52,9), gli Usa crescono del 7,8%, il Regno Unito del 4,5%, il Giappone del 2%. Non solo, continua Napolitano, proprio durante la crisi «le difficoltà hanno spinto a innovazioni significative, sul piano di procedure e di bilancio concertate». Ma la proliferazione di accordi intergovernativi registratasi in questi anni di crisi ai danni del potere della Commissione (si pensi emblematicamente al Fiscal Compact del giugno 2012), persegue una direzione di marcia esattamente opposta a quella del federalismo. Per finire, piena e convinta accettazione della primazia tedesca: «Può portare fuori strada assumere atteggiamenti vittimistici e rivendicativi in chiave nazionale, in antitesi a chi rappresenta lo Stato membro di maggior peso nelle istituzioni comuni». Per legittimare questa opzione si evoca addirittura Thomas Mann, che sono sicuro non amerebbe essere associato al trio Merkel-Scheuble-Weidmann.
Ma di chi allora la responsabilità dello sfascio? La risposta è netta: della politica. Mentre il processo di integrazione economica avanza lungo i binari tracciati dai mercati e dalla austerità «la politica è rimasta nazionale, nel senso che è stata condizionata in modo determinante in ogni paese membro dell’Unione, da una visione angusta e meschina dell’interesse nazionale, e da pulsioni demagogiche sfociate nell’antipolitica e nell’antieuropeismo». Di qui l’esortazione, l’auspicio, l’ottativo, come tratti dominanti di questa scrittura, che invoca in continuazione l’Europa senza concedersi mai una pausa di approfondimento e di riflessione analitica.
Da dove nasce questa paradossale scissione tra economia e politica che fa dell’europeismo di Napolitano una retorica disarmata e contraddittoria? In primo luogo dalla riproposizione in toto dalla vecchia vulgata che vede il processo di integrazione come opera di solitari e lungimiranti politici (i soliti Monnet, De Gasperi, Schuman, e compagnia), di cui poi si perde non si sa come il seme. Ma il grande problema storico della mancata formazione di un politico sovranazionale, su cui la crisi attuale ci obbliga a riflettere, evoca scenari di maggiore densità.
Una miope élite
La natura delle cose, dice la quattordicesima «degnita» di Vico, la si coglie nella «guisa del loro nascimento». È la tragedia planetaria della seconda guerra mondiale (i 55 milioni di croci evocati da Piero Calamandrei, federalista irriducibile) che segna una grande cesura di massa nella storia del continente, determinando un potenziale che forse non può essere raccolto. Quella catastrofe, infatti, è anche una sconfitta dello stato nazione europeo. Ciascun vinto tratta con il vincitore le condizioni della sua rinascita. Il processo di integrazione è fin dall’inizio subordinato ad una assai più vasta rete transnazionale a direzione Usa che detiene le chiavi del potere militare (la Nato) e del potere economico (il dollaro come moneta di riserva). Quella ristretta élite europeista chiusa nella morsa della guerra fredda che la depriva di ogni influenza geopolitica non potrà mai varcare la soglia delle «solidarietà di fatto» enunciate dalla Dichiarazione del 1950. Oggi sappiamo bene che il politico, a differenza da quanto sostenuto dalla teoria funzionalista dei piccoli passi che ispira tutta la successiva costruzione europea, non nasce mai, e non può nascere, come superfetazione dell’economico.
Il crollo dell’Urss, unitamente alla fine di Bretton Woods, riapre indubbiamente i giochi. Ma la strada del politico sovranazionale è ora tassativamente sbarrata dalla scelta di rimettere ai mercati un potere illimitato di comando nel governo dell’economia. Napolitano non dice che il federalismo di Altiero Spinelli è nuovamente stroncato negli anni Ottanta dalla politica di Jacques Delors che con l’Atto unico mette definitivamente in costituzione «le quattro libertà». La scelta immediatamente successiva della moneta senza stato è il frutto di una cultura subalterna che torna a relegare nel dimenticatoio la natura strutturalmente ciclica dello sviluppo capitalistico e si immagina un’Europa come somma di economie in concorrenza tra loro nel rispetto di regole che avvantaggiano solo il più forte. Quando nel vivo della crisi la questione della dimensione federale si ripropone ancora una volta nella forma di un inizio di fiscalità comune, Angela Merkel è tassativa: «Fintanto che ci sarò io non ci saranno eurobond».
E allora: come si può essere per un potere federale e difendere nello stesso tempo una politica che respinge in via di principio qualsiasi forma di controllo della libertà dei mercati? Napolitano esce dalle pagine di questo libro come un’incarnazione vivente di quella che Gramsci chiama «coscienza contraddittoria», costruita su una convivenza di posizioni tra loro incongrue e contraddittorie che rende chimerica qualsiasi pretesa di governo dei processi in atto. Da un lato tanti buoni pensieri sull’Europa e la retorica democratica che è stata propria della sinistra italiana. Dall’altro pieno appoggio ad una agenda pesantemente conservatrice che si muove in direzione simmetricamente opposta a quei propositi.
L’austerità anticipata
Ad una analisi fondata sull’ossimoro Napolitano è, in realtà, avvezzo fin dalla fine degli anni Settanta, quando convinse sé e il partito di cui era dirigente che la soluzione riformista della crisi allora in atto doveva prendere le mosse dal contenimento dei salari e dal rilancio dei profitti suggerito dalla Confindustria di Guido Carli. Si trattava di una geniale anticipazione di quella che sarà negli anni Novanta la linea di tutta la sinistra europea, Gerhard Schroeder in testa. Il problema, tuttavia, va ben oltre la biografia del presidente emerito e investe il lungo e non ancora concluso processo di svuotamento della sinistra italiana (ma la scala è appunto continentale), sempre più dilacerata tra il suo credo storico, con il quale continua a legittimarsi nel paese, anche se in misura sempre minore, e scelte di governo volta a volta totalmente difformi. Forse che proprio la cronaca di questi giorni non sta a dimostrare come anche lo statista di Rignano sull’Arno incoronato da Napolitano sia consapevole di poter sopravvivere politicamente, ad onta di una linea di governo nettamente antipopolare, solo a patto di avvalersi del consenso e della collaborazione dei quadri e degli insediamenti territoriali del vecchio Pci?

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