lunedì 30 maggio 2016

Gnoli intervista Piero Rattalino

Risultati immagini per rattalinoPiero Rattalino  “Dopo una vita nella trincea della musica sono rimasto soltanto un divulgatore”
ANTONIO GNOLI Restampa 29 5 2016
Quartiere Prati, Roma, interno giorno. Un pianoforte. Un giradischi. Un computer. Piero Rattalino – il miglior divulgatore musicale che ci sia in Italia – si accomoda su una sedia davanti a me. Abbandona le braccia fino a congiungerle tra le cosce. Piega il capo in avanti. Somiglia al vecchio Rod Steiger. La stessa impassibile faccia di duro metallo prezioso. Gli stessi occhi freddi, coperti da occhiali che sembrano aumentare la distanza. È un uomo ancora vigoroso, attento, provvisto di una cautela che si potrebbe confondere con la parola noia. Al telefono è stato lapidario: venga, ma non so come finirà. I suoi libri hanno esplorato l’intero universo pianistico. E in ciascuno si ritrova una punta di teatralità. Non spiegano, almeno non solo. Recitano. Mozart, Chopin, Beethoven sembrano, prima di tutto, attori piantati nel mezzo di un grande palcoscenico. Raccontano delle storie. Alle quali Rattalino presta l’orecchio. Dice: «Non mi piace affliggere chi legga i miei libri. Già fanno il sacrificio di comprarmi, vorrei evitare l’eccesso di pesantezza tipica di certa saggistica accademica».
Rattalino non si limita a divulgare in modo originale. Al pianoforte ha dedicato molti anni di insegnamento. Tra i suoi ultimi allievi, una delle più riuscite espressioni, l’iraniano Ramin Bahrami.
Che cosa ha Bahrami che altri pianisti non hanno?
«Il grandissimo talento. Lui incarna l’artista puro e indomabile. Ho fatto una fatica enorme a irreggimentarlo. Per fortuna senza riuscirci. Diciamo che gli ho insegnato a sopportare il morso».
Si può, si deve, irreggimentare la creatività?
«Di solito abbiamo una nozione astratta della creatività. Non basta nell’esecuzione la grande fantasia, la libertà interpretativa. Occorre disciplina, lavoro, fatica. Un talento autentico copre in men che non si dica il novanta per cento del percorso. Ma è il restante dieci per cento che fa la differenza. E su quel dieci l’impegno deve essere assoluto».
Lei ha insegnato in diversi conservatori. Immagino che i talenti autentici siano pochi.
«Pochissimi».
Come li riconosce?
«Dalla facilità e dalla rapidità con cui imparano. E poi c’è l’originalità: qualcuno fa qualcosa alla quale nessun maestro aveva pensato prima».
Quanto conta la mano del pianista?
«Si è un po’ troppo enfatizzata questa parte del corpo. La mano deve essere né troppo grande né troppo piccola. Con una proporzione tra il dito medio e la sua parte superiore. Ma alla fine, per suonare bene, è la testa che deve funzionare. La tecnica, sosteneva Ferruccio Busoni, risiede nel cervello».
Lei con chi ha studiato?
«Con Carlo Vidusso. Possedeva un senso pianistico formidabile. Ma l’esecuzione migliore per lui era sempre la seconda. Mai la prima, né quelle successive. Era come se dopo aver toccato la perfezione il brano non gli interessasse più. Davvero strano».
La stranezza paga nella musica?
«Se si sposa al talento, certamente. Poi c’è il linguaggio del corpo che nel pianoforte ha una funzione ornamentale. Il gesto non è mai intrinseco alla musica. Serve al pubblico. Gli indica quando arriverà il momento importante ».
Forse il pianoforte è lo strumento più teatrale.
«È soprattutto una macchina che produce suoni che una volta emessi non sono modificabili. La teatralità lo umanizza. Un pianista come Lang Lang è una serie impressionante di smorfie».
Arturo Benedetti Michelangeli impressionava per la sua immobilità.
«La sua era una teatralità più segreta».
Lo ha conosciuto?
«Gli avrò parlato tre o quattro volte. Non era dotato di una comunicazione incoraggiante. Ma di un’artisticità formidabile, questo sì. Il suo problema credo che sia stato crescere, durante il fascismo, in un ambiente di provincia. Se ne rese conto andando all’estero. Provò ad acculturarsi. Avrebbe dovuto disinteressarsi di ciò che pensavano in America. Invece si lasciò toccare dal perfezionismo».
Non è necessariamente un limite.
«Si tende alla perfezione come ci si sporge da una balaustra pericolosa. Può andar bene o male. Puoi alzarti in cielo o sfracellarti. Ma il punto non è questo».
E quale sarebbe?
«Negli ultimi concerti di Benedetti Michelangeli sentivo il cambiamento. Ancora una volta la forza della natura si era impossessata di lui. Ripescò quanto di grande c’era nella sua anima senza filtri culturali».
La cultura era un impedimento?
«In un certo senso sì. Il cammino che aveva compiuto lo stava conducendo verso la sterilità. Ma seppe reagire, abbandonandosi alla forza emotiva. Ricordo a Bregenz nel 1988. Erano in molti ad ascoltarlo. E tanti dissero che non era più lui. Deploravano questo stile che era diventato disperato e violento. Mentre io ci vedevo libertà e ricchezza interiore. Aveva qualcosa di profetico. Alfred Cortot colse la sua inattualità quando disse che Michelangeli era la reincarnazione di Liszt. La verità è che il suo animo aveva in dosi eguali ed estreme crudeltà e dolcezza».
Chi sono stati secondo lei i più grandi pianisti del secolo scorso?
«I tre più grandi per me furono Backhaus, Richter e Horowitz ».
Cosa li accomuna?
«Niente, tranne il fatto che erano grandi pianisti. Il più gigione fu Horowitz. Backhaus sembrava una specie di profeta probo. Richter non ripeteva mai niente di ciò che faceva. Aveva il senso del paradosso, più di Gould. Poi c’è Rubinstein. Formidabile concertista. Con un grande fiuto per il pubblico. Mi sarebbe piaciuto sentire dal vivo Paderewsky. Un incantatore. Purtroppo morì nel 1941».
Un’altra che forse avrebbe meritato di essere ascoltata è Maria Judina.
«Fu un singolare prodotto della Russia post-zarista. Una donna stravagante, imprevedibile. Folle. Grande pianista. Prima di un concerto, alla notizia della morte di Pasternak volle leggere alcune sue poesie. Mosca non era il massimo della tolleranza. Eppure, malgrado le sue radici ebraiche, era adorata da Stalin. Richter disse che il suono della Judina faceva venire il mal di testa».
Degli italiani chi ama?
«A parte Benedetti Michelangeli, direi Pollini che ha interpretato bene il suo tempo. Resistendo alle sirene eclettiche del post-moderno. E per l’originalità ammiro Giovanni Bellucci. Su Beethoven ha saputo dire qualcosa di diverso e nuovo».
Aleggia nell’aria un nome.
«Quale?»
Glenn Gould che lei poc’anzi ha evocato.
«Sono nato nel 1931. Se non fosse morto nel 1982 Gould oggi avrebbe un anno meno di me. Dissero di lui che si aggrappava alla tastiera del pianoforte come fosse la gonna della mamma. Non so se davvero fosse immatu-
ro o imperfetto. Per me era un grande umorista. Sapeva cogliere il lato paradossale dell’interpretazione. Sospetto che raramente sia stato sincero».
Cioè?
«Rappresentava e non viveva. Ma poi anche di questo si è stancato e poco per volta ha smesso di suonare in pubblico. Quando sostengo che fosse paradossale intendo che malgrado avesse una gestualità fortissima, detestava la teatralità».
Eppure non c’è teatralità più esibita delle “Variazioni Goldberg”.
«Erano ritenute l’opus riassuntiva della personalità di Bach, che era un uomo solenne e religioso. Non parlerei però di teatralità. Gould le portò sul piano dello scherzo. Più vicine a Scarlatti che allo stesso Bach. E questo gli fece incontrare il favore dei giovani».
Perfino Thomas Bernhardt nel “Soccombente” fece crescere la fama di Gould.
«Anche quello era uno scherzo del suo radicalismo pianistico ».
Sembrava suonasse dal basso verso l’alto e non viceversa.
«Ogni volta scalava una montagna. Non è un caso che nell’esecuzione del 1955 si presentò vestito da sciatore. Aveva capito cosa fossero i mezzi di comunicazione di massa».
Oggi ci sono solo quelli.
«Si è persa la distanza tra l’uso del mezzo e il mezzo stesso».
Come è finito nella musica?
«Come si finisce nel mare o in un pantano; in un inferno o in paradiso: per pura passione. Mio padre era industriale. In quanto primogenito avrei dovuto proseguire il suo lavoro. Non volli. Gli dissi che volevo occuparmi di musica. Finii il liceo classico a diciassette anni. A diciotto mi diplomai in pianoforte. A ventitré in composizione. Diventai musicista. A ventisei insegnante di ruolo nel conservatorio. E ho capito che la mia vocazione era più insegnare che suonare. Scrissi il mio primo libro a ventiquattro anni, un libriccino di studi di interpretazione pianistica. Ad oggi sono cinquantuno i libri che ho scritto».
Ha fatto altro nella vita?
«A parte 42 anni di insegnamento del pianoforte ho fatto il direttore artistico in vari teatri. Esperienza notevole per chi voglia capire cos’è la trincea della musica: le guerre, gli agguati, gli assalti. I morti disseminati e le barelle per i feriti».
Straziante.
«Il teatro italiano è straziante».
Non si è mai pentito di non aver scelto la carriera del musicista?
«Avevo un certo talento. Poi scoprii che era più grande la predisposizione all’insegnamento. Le confesso però che sono un divulgatore più che un musicologo».
Ama il pubblico?
«Lo rispetto. Senza cosa saremmo, noi tutti?»
Le piace Keith Jarrett?
«Nel suo genere è bravissimo, scrissi anche qualcosa su di lui e lo invitai a suonare al Regio di Torino. Non mi piace quando prova a fare il classico. Quando eseguì Il clavicembalo ben temperato di Bach, era da scappare via. A proposito di jazz ho ammirato molto Erroll Garner. Ho visto suonare Oscar Peterson. E poi un vero talento fu Michel Petrucciani. Ricordo la meraviglia di una Cucaracia improvvisata al pianoforte. Non arrivava ai pedali, eppure sembrava che volasse».
Di Giovanni Allevi cosa pensa?
«Interessante più che per la musica per il modo di rapportarsi al pubblico. Un fenomeno da studiare».
La grande musica del ‘900 si è allontanata dal pubblico. Perché?
«Nell’idea di creare un linguaggio nuovo, la musica si è intellettualizzata. Ha voluto il controllo totale, ma questo controllo non è riconosciuto dal pubblico».
Eppure il pubblico ha accettalo l’arte astratta ma non la dodecafonia.
«Nikolaus Harnoncourt ha detto che la musica fino a Beethoven parla, dopo dipinge. Se non conosci il nuovo linguaggio figurato non capisci».
Si è accennato a Bach e a Beethoven. Dove li colloca nella sua mente?
«Furono entrambi grandi virtuosi del pianoforte. Penso all’uomo Bach: buon borghese tedesco, religioso, sposato due volte mise al mondo venti figli. Amava la famiglia. Ma non era un personaggio da romanzo, come invece lo fu Beethoven, che era pieno di complessi e di demoni che lo angustiarono per tutta la vita».
Più vicino, quest’ultimo, alla nostra sensibilità.
«È indiscutibile. Diversamente da Bach che aspirava ad essere un artigiano, Beethoven pretese di essere un poeta e un intellettuale. È una rivoluzione del costume che fa sì che non sia Wagner a scrivere per primo la musica dell’avvenire, ma Beethoven ».
Non a caso è al centro con l’opera 111 nel “Doctor Faustus” di Thomas Mann.
«Devo dire che lì mi colpiva maggiormente la difesa che il maestro di Adrian Leverkühn, il musicologo Wendell Kretzschmar, fa del “Sansone e Dalila” di Camille Saint- Saens. Comunque bello il dialogo demoniaco sull’opera di Beethoven. Mann l’aveva ripreso da Adorno».
Lo ha mai incontrato?
«Lo vidi in casa di alcuni amici. Ricordo una signora con un generoso decolté e lui fisso su quel seno come un basilisco. I suoi libri non mi hanno impressionato più di tanto. Certo ha influenzato profondamente la critica musicale. Ma io non sono un critico».
Su la musica e Dio cosa pensa?
«Non penso nulla. Più che avvicinare la musica a Dio, farei il contrario. Ma sul mio rapporto personale con la religione non saprei cosa dire. La sola religione che mi piace è il calcio. Sono nato a Fossano, in Piemonte. Tifo da sempre per il Torino. Ho conosciuto Valentino Mazzola, il cui talento era pari a quello dei grandi musicisti».
Si è mai chiesto che vita può condurre uno che sperando nel talento sa di non averlo?
«Domanda terribile. Il grande Sergiu Celibidache teneva spesso dei corsi. Un giorno un onesto musicista gli confessò di non avere le qualità per riuscire bene come direttore d’orchestra. Celibidache lo confortò. Gli disse che nella sua testa era tutto a posto, così nel suo cuore. Insista e qualcosa accadrà. Quando l’uomo andò via, intervenni: maestro, lei sa perfettamente che quell’uomo non ha talento, perché farlo insistere? La mia responsabilità, rispose, è di diffondere la verità della musica. E non importa se la gran parte non ce la farà, l’importante è far parte di questa grande chiesa. Parlava come un profeta. Ma i profeti non hanno l’obbligo di dire la verità».

Nessun commento: