mercoledì 25 maggio 2016

Il custode della memoria di Antonio Gramsci

Vacca: “Gramsci non so, ma Ulivo e Pd sono sempre stati per le riforme”
Il presidente dell’Istituto Gramsci è presidente del comitato per il Sì del Lazio: “Con il premio alla lista l’Italicum favorisce una ricostruzione centrata sui partiti” 
Unità il 25 maggio 2016

Il dibattito sulla riforma costituzionale è stato segnato negli ultimi giorni dalle polemiche sull’uso della memoria, dell’immagine e delle passate dichiarazioni di grandi dirigenti del Pci nella campagna referendaria. Parlandone con Giuseppe Vacca, presidente dell’Istituto Gramsci e da poco anche presidente del comitato per il Sì del Lazio, promettiamo dunque per prima cosa di non domandargli cosa avrebbe votato Antonio Gramsci.
«E fa bene, primo perché non sono entrato nel comitato per il Sì come presidente dell’Istituto Gramsci, ma come Beppe Vacca, semplice iscritto alla sezione del Pd di piazza Verbano. E secondo perché avrei risposto come rispondo sempre a domande analoghe»...
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Ma Togliatti, alla fine, vota Sì oppure No?
Da Dossetti a Berlinguer e Ingrao, l’incredibile uso del passato nella sfida referendaria di Pierluigi Battista Corriere 26.5.16
Nell’epoca della rottamazione non si affievolisce il richiamo del passato, un eccesso di ripiegamento storico, un tornare indietro per darsi nobiltà o scagliare anatemi. Si polemizza sui partigiani per dare una parvenza di profondità secolare alle discussioni sul referendum costituzionale di ottobre. Ma non solo: da Dossetti a Berlinguer e Ingrao, vale persino la domanda: alla fine Togliatti vota Sì o No?
C i manca solo il riferimento alle guerre puniche per fare delle dispute elettorali di questi giorni un utile e completo ripasso di storia a giovamento degli studenti che preparano la maturità. Per il resto, l’offerta politico-storiografica passatista appare ben assortita. Nell’epoca della rottamazione non si affievolisce il richiamo del passato, un eccesso di ripiegamento storico, un tornare indietro con la mente e con le parole per darsi nobiltà antica, oppure scagliare contro l’avversario l’anatema di matrice storica.
È diventata una mania. Si polemizza sui partigiani, veri, falsi, sedicenti e autentici per dare una parvenza di profondità secolare alle discussioni sul referendum costituzionale del prossimo ottobre (ottobre: ancora cinque mesi circa). I nipoti dei partigiani veri, che oramai hanno occupato al 96 per cento l’Anpi pur non avendo combattuto sulle montagne contro i fascisti, scomunicano la riforma costituzionale come un attacco alle fondamenta repubblicane e antifasciste. Ma Matteo Renzi e i renziani corrono ai ripari. Esaurita la smania nuovista e postmoderna sentono come il mordere dell’«horror vacui», la percezione di chi rischia di apparire senza radici, nato dal nulla, senza esperienza, senza aver respirato la nostra storia. E allora parte la corsa alla riappropriazione un po’ goffa del passato. Si tolgono dall’armadio i ritratti impolverati dei grandi dirigenti comunisti del passato per affermare che senza dubbio avrebbero votato a favore della riforma di Renzi. Enrico Berlinguer avrebbe votato Sì, ma la figlia Bianca se ne è risentita. Pietro Ingrao avrebbe votato Sì, ma la figlia Celeste dice che non è vero, a differenza della sorella Renata che invece sostiene che potrebbe essere vero. Si scomoda anche il ricordo di Umberto Terracini, grande costituente e grande eretico, di cui si riesumano le frasi che potrebbero alludere a un profetico Sì. Anche Nilde Iotti viene arruolata nel fronte favorevole. E Palmiro Togliatti? Non manca Palmiro Togliatti e infatti Beppe Vacca, sostenitore appassionato del Sì nonché studioso insigne del verbo gramsciano e togliattiano, non si esime dal menzionare il togliattiano Memoriale di Yalta come antefatto culturale e storiografico della riforma costituzionale di stampo renziano.
Del resto, il fronte del No non se ne sta certo ad attendere passivamente la bordata di citazioni dello schieramento avversario e cita, ma questa non è una novità tra chi sente la Costituzione come un dogma religioso da difendere con intransigenza, Giuseppe Dossetti, il cui spirito è tutt’uno con l’afflato della Costituzione. Del resto, quelli del Sì non resistono alla tentazione di citare Piero Calamandrei come artefice della nostra Costituzione e tuttavia ben predisposto alla sua revisione nella parte istituzionale. Mancano ancora cinque mesi e i citazionisti stanno scartabellando libri e giornali per trovare la frase giusta di quaranta, cinquanta anni fa da sventolare sotto il naso degli avversari.
Non c’è tempo da perdere, invece, per i candidati che si stanno impegnando nella tornata delle elezioni amministrative del prossimo 5 giugno (più il ballottaggio). Ha cominciato il candidato a Roma Alfio Marchini, che peraltro vanta in famiglia certificate ascendenze partigiane e si è pure già pre schierato per il No al referendum costituzionale, a spiegare che il nonno, rosso di cuore e di bandiera, tuttavia considerava Mussolini come un grande urbanista del Novecento e l’architettura di epoca fascista come un gioiello da preservare. Poi Giorgia Meloni, sentendosi esclusa dalla querelle politico-architettonica, ha introdotto nella campagna elettorale romana l’urgente tema dell’intestazione di una via a Giorgio Almirante, forse memore delle polemiche che la giunta Rutelli aveva suscitato in passato volendo intestarne una al gerarca e governatore fascista dell’Urbe Giuseppe Bottai. Ma l’effetto boomerang è stato immediato, vista la dissociazione dalla proposta della Meloni della stessa vedova di Almirante, Donna Assunta. E tra i saluti romani di CasaPound e i centri sociali mobilitati nel nome dell’eterno antifascismo, la campagna elettorale si aggrappa al passato. Dando così al pimpante dibattito sulla collocazione dei partigiani nel referendum costituzionale un nuovo e brillante smalto. La Prima guerra mondiale, per il momento, resta fuori dalla polemica. Ma chissà.

Sinistra pd, cresce la tentazione del No
La minoranza alza l’asticella delle richieste. E Orfini: nei ritagli di tempo dovremmo batterci per giugno di Monica Guerzoni
ROMA Matteo Renzi si augura che si diradi la nebbia delle polemiche e si scorga, finalmente, «il panorama» che si apre di fronte agli occhi dei sostenitori del Sì: un’Italia senza più inciuci e larghe intese, dove i politici, ridotti di numero, non restino incollati alla poltrona. Ma se il premier invita a entrare nel merito della riforma costituzionale, nel Pd cresce il fronte dei dubbiosi. La minoranza alza (di molto) l’asticella delle richieste e Matteo Orfini, per la prima volta, lascia cadere parole che sanno di critica e disimpegno.
Sull’ Huffington , il presidente del Pd ammonisce i dirigenti: «Ricordo che uno dei principali insegnamenti del Pci era non scaricare le tensioni politiche sulle istituzioni». Monito rivolto «a tutti, dal segretario fino all’ultimo parlamentare». Se poi vincono i no e la legislatura costituente si ferma? «A quel punto si vota». E c’è dell’altro. Perché Orfini, i cui «turchi» non avrebbero apprezzato il sapore un po’ «grillino» di alcuni slogan della campagna #bastaunsì , ricorda che «nei ritagli di tempo» il Pd dovrebbe battersi per vincere le Amministrative. Messaggio rivolto più alla maggioranza che alla sinistra, impegnata per sostenere i sindaci e però disimpegnata sul referendum.
È sempre più difficile per la minoranza sostenere la posizione del Sì, assunta per coerenza dopo il voto in Parlamento. «Se si cambiano le carte in tavola, io mi sento libero», va dicendo Pier Luigi Bersani. Il quale, stufo della «demagogia» con cui Renzi rischia di «spaccare il campo democratico», ha incassato come un cazzotto le parole di Maria Elena Boschi sui partigiani «veri». E adesso, per confermare il suo appoggio, l’ex leader del Pd pone una lunga serie di condizioni. La prima è una proposta di legge per l’elezione diretta del Senato e l’ultima, in ordine di tempo, il doppio turno di collegio al posto dell’Italicum. Bersani insomma vorrebbe votare sì, ma ammette di essere tentato dal no: «Se le cose vanno avanti così, tra quattro mesi ci troviamo tra le macerie del campo democratico. Renzi deve tener conto delle obiezioni non irragionevoli del no».
La Cgil di Susanna Camusso non si schiera, ma boccia la riforma Renzi-Boschi.
E poiché Gianni Cuperlo teme che il referendum sarà il vero congresso del Pd, si potrebbe pensare che la minoranza stia cercando alibi per smarcarsi.
Roberto Speranza assicura che la sinistra «non cerca scuse», non progetta alcuna «escalation verso il no». Eppure, lo sfidante di Renzi alla segreteria avverte: «Questo clima da scontro di civiltà non aiuta a decidere i tanti che hanno dubbi. Invece di intercettare gli indecisi, sembra che Renzi voglia spingerli verso il no». Ecco, a sinistra aleggia il sospetto che il leader voglia costringerli allo strappo, per veleggiare verso il partito della nazione. «Se vogliono cambiare l’elettorato del Pd, per noi non è accettabile — ammonisce Speranza —. I tanti che voteranno no potranno restare, o saranno fuori ?».

Letta e Speranza Un ticket anti Renzi per la sinistra Pd
La prossima battaglia dell’ex premier: l’Italicum di Carlo Bertini La Stampa 26.5.16
Chiamarla strategia sarebbe un’esagerazione, troppa acqua - tra comunali e referendum - deve passare sotto i ponti, dunque le cose ancora sono allo stato embrionale: ma che «si ragioni su uno schema a due, di candidato premier e segretario del partito è vero», ammette alla buvette della Camera l’ex Ds e bersaniano di ferro Davide Zoggia, mentre chiacchiera con i compagni di partito e di corrente Nico Stumpo e Danilo Leva. Del resto, anche se il congresso Pd è lontano, dopo le parole di Bersani a questo giornale, «su Letta non ho mai avuto nessun problema, ma non lo ordina il dottore che un segretario sia candidato premier», si capisce che la tattica di gioco sia quella di un ticket. Insomma si comincia a scorgere quale sia il piano per provare a opporsi al blocco di potere renziano e cercare di «riprendersi il partito» se Renzi dovesse perdere il referendum: i dissidenti anti-Renzi non solo faranno in ogni caso della separazione delle carriere tra premier e segretario una bandiera della battaglia congressuale; ma in testa hanno già due nomi, un candidato sicuro per la segreteria, Roberto Speranza (che dicono abbia già ricevuto un via libera dei quadri ex Ds di molte regioni); ed un candidato papabile più di altri per la premiership, Enrico Letta.
A Shanghai, fuori dai giochi
Il quale però, dopo la bordata di ieri sul referendum iper personalizzato, (tradotta: se Renzi lo perderà sarà solo colpa sua, perché se non faceva così si vinceva a mani basse) è volato a Shanghai e Seul per una serie di conferenze. E non vuole esser coinvolto in scenari ritenuti troppo prematuri. Riguardo al ticket di cui si parla nei corridoi di Palazzo e nei capannelli della minoranza Pd più di quanto sembri, Letta nell’immediato non vede prospettive di questo genere. «Nessuna manovra, certo se poi c’è gente che pensa a lui in un momento di popolarità calante di Renzi...», dice Marco Meloni, il parlamentare a lui più vicino. «In questa fase è naturale che tanti pensino a tanti, ma Enrico non si infila in beghe di partito». Senza rinunciare però ad esercitare il suo spirito critico sulle vicende della politica nazionale, rivendicando la propria autonomia.
Prossimo fronte l’Italicum
Tanto che dopo gli ultimi due affondi sull’election day e sulla campagna referendaria che spacca il paese, ha individuato come prossimo fronte quello della legge elettorale. Come ultimo atto della sua permanenza in parlamento scelse infatti di non votare l’Italicum e il prossimo atto dello scontro sarà su quello, pur non mettendo in dubbio il suo sì al referendum. «Questo perché l’Italicum non dà ai cittadini diritto di scegliere i parlamentari, non dà garanzia di stabilità e non garantisce dagli inciuci», ragiona in questi giorni con i suoi l’ex premier. Dopo che autorevoli studiosi hanno fatto notare come il famoso premio di maggioranza dia solo 25 parlamentari in più a chi vince, senza dunque evitare possibili giochini in Parlamento.
Tattica di logoramento
Ma rispetto alla vicenda congressuale, Letta va dicendo che non se ne occupa, «sto facendo un altro lavoro, sono impegnato con le lezioni a Parigi e la scuola di formazione politica dei giovani a Roma». Ma quando vede che c’è qualcosa che riguarda temi politici è più libero di intervenire.
Non sarà però un caso se Letta porterà avanti la stessa bandiera di Bersani, la battaglia per cambiare quella legge elettorale che produce solo «un indebolimento del Parlamento con due terzi dei deputati nominati da capi partito». Così come non è un caso che Bersani ogni giorno trovi il modo di riaprire il fronte, malgrado Renzi abbia già detto via Boschi che il tema non si pone. Il congresso di fatto è già cominciato. 

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