giovedì 5 maggio 2016

Il liceo classico e la crisi della sistema formativo occidentale nella sottomissione reale

In classe con Erodoto 
Gradi di istruzione. Il liceo classico è al centro di un dibattito accanito. Spesso la premessa di detrattori e difensori è sbagliata: quell’indirizzo non serve a formare grecisti né studenti snob. È un esercizio del pensiero
Federico Condello Manifesto 4.5.2016, 2:15 
Ho fatto il classico». La frase meriterebbe una voce in un’appendice al Dizionario dei luoghi comuni flaubertiano. Un ingegnere a disagio la userà per garantire che, nonostante tutto, qualcosa sa ancora; un neodiplomato la premetterà alla domanda: «posso superare il test di Medicina?»; e un critico del liceo classico la sfodererà preferibilmente per dimostrare di non avere pregiudizi personali.
Quest’ultimo è oggi l’uso più frequente. La discussione sulla crisi del liceo classico è accesa, e il 28 e 29 aprile ha avuto una tappa importante al Politecnico di Milano, in un convegno atteso – nei licei non si è parlato d’altro per mesi – promosso dalla Direzione generale per gli ordinamenti scolastici del Miur. Evento tutto mediatico e un po’ enfatico, ma da non trascurare, visto che si attende una riforma della seconda prova. 
Lingua contro cultura
Proprio di qui è partito il dibattito, un anno fa, quando un classicista di fama come Maurizio Bettini propose dalle pagine di Repubblica di intervenire sull’esame di Stato, contro le «dannose traduzioni dal greco e dal latino». Così il titolo, urlante; ma Bettini era cauto e forniva consigli pratici, non nuovi, ora ragionevoli (si tragga la prova da autori davvero studiati a scuola; si diano informazioni di contesto), ora più dubbi (si aggiungano quesiti di carattere disciplinare e interdisciplinare: quanti e di che sorta?).
Il dibattito si è presto radicalizzato, e non per caso: la «lingua» contro la «cultura», con la «cultura» ridotta peraltro ad antropologia del mondo antico, specialità accademica che molti dei riformatori ma sarà un caso professano ex cathedra. Fino al proclama di Luigi Berlinguer, vero nume del convegno milanese: «il liceo classico non è solo le lingue antiche e non è prevalentemente le lingue antiche». Come a dire: il liceo classico è in crisi (d’iscrizioni, innanzitutto: anche se ora ci sono segni di ripresa) e la crisi si risolve eliminando quel che ne fa un liceo classico. È un’idea: come insegna Poe, per vincere il terrore del baratro si può decidere di buttarcisi dentro. E pazienza per chi, affezionato al principio di non contraddizione, suggerisce semmai di rafforzare le materie scientifiche. 
Non solo al museo
Di fronte alla radicalizzazione del dibattito, i riformatori si producono in acrobatici distinguo e denunciano il fraintendimento. Si impegnino a essere più chiari, allora, perché a Milano ci si è affidati a slogan populistici come due fra mille «studiando l’aoristo non abbiamo rispetto del mondo classico» (Berlinguer) o «chi esce dal liceo classico deve avere i mezzi per andare in un museo, non sapere a memoria i verbi irregolari» (Bettini). Andare in un museo? Scopo ben poco ambizioso, che denuncia una visione snobistica dell’istruzione classica. Non meno allarmante il continuo richiamo al presunto dovere dei docenti d’oggi: rendere «interessante» il classico, mostrarne gli «aspetti inconsueti», «non far soffrire i ragazzi». Speriamo che i docenti liceali non debbano scegliere fra la taccia di sadici e il ruolo, umiliante, di intrattenitori dell’alta borghesia. Siamo qui agli antipodi dell’elogio reso da Gramsci all’asprezza benefica degli studi classici, al «conformismo dinamico» che, proprio perché duro, a suo tempo emancipa. Una professoressa liceale indignata ha detto che «gli ascensori sociali non funzionano ad acqua di rose». 
Chiariamo un punto, allora: i docenti liceali non mirano a formare buoni visitatori di musei. Non mirano a formare classicisti dilettanti né di professione. Se si sbaglia la premessa, il dibattito è viziato. Molto saggia, la direttrice generale Carmela Palumbo ha dichiarato che «un convegno non è il luogo in cui discutere di revisioni ordinamentali». Servono più dati e meno slogan. Più franchezza e meno populismo. Il liceo classico forma studenti che per un quarto si iscrivono a Lettere; proprio le statistiche del Politecnico milanese mostrano che essi ottengono risultati egregi anche nei corsi di studio più lontani dal loro iter liceale. I dati di un mega-ateneo, l’università di Bologna, lo confermano: chi esce dal classico è in cima alle statistiche per rendimento e per scarsità d’abbandoni. Il Miur farà un’ottima cosa se fornirà dati di sistema su cui ragionare seriamente e si turerà le orecchie, per ora, di fronte a consigli unilaterali. 
Remix di censo
Intanto, mentre la pedagogia va a braccetto con l’aziendalismo, molti osservano che la traduzione dalle lingue morte cioè la capacità di ricostruire contesti assenti a partire da un testo nudo e spesso ostico funziona ottimamente per conseguire i tanto decantati soft skills. E a Berlinguer che dichiara di voler andare «controcorrente» in Europa difendendo il classico (abbiamo visto come) è facile replicare che l’intero mondo anglofono riscopre massicciamente greco e latino e lascia a noi, esterofili di provincia, il privilegio di liquidarli. 
Ma questo è ancora stare sulla difensiva. Il più recente rapporto del consorzio interuniversitario AlmaLaurea, che oggi monitora il 91% dei laureati italiani, tratteggia un quadro che fa urlare chi ha a cuore l’articolo 34 della Costituzione. Il presidente del consorzio – che è un latinista, Ivano Dionigi – lo ha presentato a Napoli proprio mentre a Milano si discorreva di visite ai musei; e lo ha sintetizzato così: «l’università non rimescola più le classi sociali, e la giustizia è la parola esiliata da rimpatriare». Del resto, da anni i sociologi analizzano il «3+2» di Berlinguer, e oltre a sancirne il fallimento nel suo primo scopo incrementare i laureati – offrono materia ulteriore di riflessione: i licei, e il classico ancora spicca, hanno un ruolo cruciale nel ridurre le disparità dipendenti dal censo. 
In tale quadro sentiremo il solito, demenziale paralogismo: l’istruzione, in Italia, è sempre più d’élite; il liceo classico è la scuola più elitaria; ergo, chiudiamolo. In alternativa, rendiamolo più facile, più «interessante». Un dibattito frivolo finché non si parlerà di concreti investimenti e di revisione organizzativa profonda, che ci faccia capire quanto è sbagliato continuare a ragionare per alternative (latino e greco vs inglese e informatica) piuttosto che per somme.
Peraltro, chi «ha fatto il classico» dovrebbe aver letto testi politici piuttosto brutali e aver imparato almeno una cosa: il rapporto élites-masse non è faccenda semplice, e dissipare un patrimonio culturale d’élite non è fare il bene delle masse.


La valutazione senza qualità 
Scuola. L'invalsi e la sua governance attraverso numeri e dati statistici. C’è anche un aspetto morale nei processi di misurazione: costruiscono una torre d’avorio impermeabile alle critiche dell’ingiustizia

Girolamo De Michele Manifesto 4.5.2016, 0:05 
Fra il bonus premiale e test Invalsi, insegnanti e studenti sono di nuovo alle prese con l’eterno ritorno della valutazione: un oggetto dal discutibile valore epistemologico, la cui necessità viene affermata a prescindere, benché non si riesca a definire cosa e come debba essere valutato in modo credibile. Emblematiche le perplessità che la stessa Fondazione Agnelli ammette (nel suo Rapporto 2014 La valutazione della scuola) sulla valutazione individuale dei docenti, che presenta problemi di ardua soluzione dal punto di vista del metodo (come isolare il contributo del singolo all’interno di un’attività collegiale) e dell’etica (isolando e differenziando le singolarità, la valutazione nuoce alla collegialità e favorisce il disincanto del singolo), per non parlare dei dubbi più tecnici sulla valutazione da parte degli studenti e su quella ispettiva (che richiederebbe un numero di ispettori talmente alto – e costoso – da riproporre il paradosso borgesiano della mappa e del territorio). Lo stesso rapporto riconosce che della valutazione si potrebbe fare a meno: in presenza di un efficiente sistema di reclutamento dei docenti «possono bastare qualità professionale, deontologia e il controllo dei colleghi a fare funzionare bene le scuole». 
Nondimeno, le carenze della scuola italiana richiederebbero la valutazione per far emergere «punti di forza e di debolezza del sistema scolastico»: invece di puntare su un reclutamento di qualità (magari rispettoso della dignità e professionalità dei docenti), si afferma la necessità di uno strumento discutibile e poco funzionale, che peraltro non incide sull’ingresso dei docenti nel sistema, e in definitiva contribuisce a mantenere quel cattivo equilibrio di «poche luci e molte ombre» la cui valutazione dovrebbe fornire la cura.
Una capriola priva di grazia, accompagnata, nella produzione di documenti ministeriali, da emblematici slittamenti semantici che sostituiscono a «valutazione» termini più accattivanti sintagmi, dal «monitoraggio di carattere regolativo» (Cerini) al «posizionamento argomentato in relazione ai dati» (Davoli). 
La verità è che la valutazione ha un effetto performativo in sé, che prescinde dall’impalpabilità dei suoi contenuti e metodi, e mira a rafforzare in modo analitico quella forma di controllo che è la costruzione di una soggettività individuale attraverso gli strumenti del calcolo e dell’inquadramento statistico, come il Foucault critico delle politiche neoliberali ci ha insegnato. Non va infatti sottovalutata l’economia morale implicita nei processi di misurazione di precisione, che isola i devoti del culto rigoroso della misurazione in una torre d’avorio impermeabile ai criteri empirico-sperimentali della revisione, falsificazione, correzione, e soprattutto a ogni riferimento alla costituzione della società in dominanti e dominati, e alla critica dell’ingiustizia che permea l’ordine sociale. In modo esemplare, gli adepti al culto della misurazione sono incapaci di comprendere che quelle procedure che contribuiscono a implementare sono le stesse che producono la precarizzazione del figlio o il licenziamento del vicino di casa ultracinquantenne, dalle loro anime belle percepite come ingiustizia. 
La valutazione si inserisce in quel campo degli «investimenti in forme» (Laurent Thévenant) che assumono ipso facto un’autorità che non può essere messa in discussione, in nome della quale coordinano l’azione delle collettività, dopo averla spogliata di ogni valenza politica e averla transustanziata in procedure tecniche i cui elementi-chiave eccedono la capacità di critica del singolo; trasformano l’autonomia dell’individuo in una forma di autocontrollo; minano la possibilità di un’azione collettiva comunicativa e critica contro le esperienze di ingiustizia sociale, erodendo la stessa ragione sociale della cooperazione. In definitiva, si realizza una governance attraverso i numeri con la quale è inibita la possibilità che un individuo possa ricondurre la propria esperienza singolare a criteri generali – vale a dire, è lobotomizzata la stessa capacità di ricondurre il particolare al generale, l’effetto alla causa che è l’attività propria della ragione.

In difesa del liceo classico Fondamentale non solo per proseguire negli studi umanistici ma anche per quelli scientifici, per la difesa del pianeta e per non perdere le guerre: un inedito dell’intellettuale scomparso Umberto Eco Busiarda 11 5 2016
Il liceo classico, così come l’ho seguito io, era nato dalla riforma Gentile e Gentile era un idealista che aveva poca fiducia nelle scienze e riteneva che una classe dirigente dovesse avere una cultura eminentemente umanistica. Perciò il liceo classico ha meno ore di materie scientifiche del liceo scientifico, riservato da Gentile a una classe non dirigente ma esecutiva. E il classico era talmente importante che con una maturità classica si poteva anche iscriversi a ingegneria, mentre con una maturità scientifica era impedito l’accesso a facoltà nobili come quella di filosofia, e per un lungo periodo a giurisprudenza, per non parlare della filologia greca. Non essendo dedicato a professionisti della pratica, il classico non aveva insegnamenti di lingue, salvo nei due anni di ginnasio. Infine, bizzarria apparentemente inspiegabile, il classico dedicava pochissimo tempo alla storia dell’arte, forse perché né Croce né Gentile, le due autorità nel campo dell’estetica, avevano dimestichezza con le arti visive. [...] E non parlo dell’attenzione, all’inizio nulla e comunque scarsa, dedicata alla musica e alla cultura musicale in genere.
Qualcosa che non va
Come si guadagnerebbero spazio e tempo per le scienze, le lingue e, se volete, l’arte, che oggi si può studiare su splendide riproduzioni disponibili on line? Riducendo per esempio alcune ore di latino. I maturandi dei miei tempi uscivano dal classico senza essere capaci, in genere, di leggere Orazio a prima vista, e talora neppure un’epigrafe su un monumento antico, per non dire una enciclica. C’è dunque qualcosa che non va nel modo in cui il latino viene insegnato. Per esempio si fanno esercizi certo indispensabili sui grandi autori della latinità, ma non si prova mai a dialogare in un latino elementare, come facevano i dotti europei sino a pochissimo tempo fa.

Il maturando classico non deve necessariamente diventare latinista (a questo ci pensa l’università), ma deve essere in grado di capire che cosa è stata la civiltà romana, identificare le etimologie, capire le radici latine (e greche) di molti termini scientifici; e questo lo si può ottenere evitando esercizi faticosi sui classici e magari abituandosi a leggere il latino ecclesiastico e medievale, molto più facile e familiare. E, introducendo insegnamenti di almeno una lingua straniera, si potrebbe mostrare - faccio due esempi - come e perché la lingua inglese ha, accanto ai termini anglosassoni, tanti termini di origine latina, o le differenze tra la sintassi del latino e la sintassi tedesca. [...]
Una volta riconosciute le mende dell’educazione classica (anche se uno studio delle varie riforme successive potrebbe ritenerle in parte attenuate), permettetemi ora di dimostrare come essa sia fondamentale non solo per chi all’università vorrà occuparsi di filologia greca o di filosofia, ma anche per chi si dedichi a studi scientifici.
Il generale latinista
Vorrei citare due episodi. Nel 1843 il generale inglese Sir Charles Napier fu mandato in India per reprimere una rivolta nella regione del Sind. Quando ebbe vinto, inviò al quartier generale di Londra un dispaccio che diceva «Peccavi ». Al quartier generale furono pronti a tradurlo come «I have sinned» – frase che pronunciata suonava come «I have Sind». Questo significa che gli ufficiali dell’esercito che aveva sconfitto Napoleone e aveva conquistato un immenso impero, evidentemente competenti in artiglieria, strategia e altre tecnicalità, avevano però una profonda cultura umanistica - ed è lecito chiederci se questa cultura non li avesse resi capaci, in parte, dei loro successi militari.
Altro esempio. Spostiamoci da Londra a Ivrea negli anni Cinquanta e Sessanta. Quando Adriano Olivetti, proprio mentre passava dalla produzione di macchine da scrivere a quella dei computer, assumeva ovviamente ingegneri e i primi geni dell’informatica. Questi ingegneri, dopo aver costruito il primo computer, l’Elea (e il nome, credo, era stato inventato da un poeta, Franco Fortini), avevano perso, racconta la leggenda, non so se settimane o mesi per far sì che l’Elea suonasse le note del Ponte sul fiume Kwai: segno che avevano una certa fantasia umanistica. Ma Olivetti faceva di più: assumeva anche brillanti laureati in materie umanistiche (che magari avevano fatto una tesi su Senofonte, ma da centodieci e lode), li mandava sei mesi a lavorare in fabbrica perché capissero che cos’era un’industria, e poi li immetteva in qualche attività aziendale.
Hitler bocciato in storia
Specie pensando alla nascente informatica Olivetti aveva capito che sono indispensabili gli ingegneri per concepire l’hardware, ma che per inventare il software occorreva una mente educata sulle avventure della creatività, esercitatasi su letteratura e filosofia.
Appena ho avuto in mano un personal computer (credo fosse l’M20, con il sistema operativo Picos, e solo dopo col Dos) mi sono divertito a programmare in basic, che ho imparato in pochi giorni, un sistema per produrre tutti i sillogismi classici (Barbara, Celarent, Darii, Ferio ecc.). E questo l’ho potuto fare perché, trovandomi davanti a istruzioni come «if... then», mi ricordavo della logica stoica («se... allora») e avevo studiato il sillogismo aristotelico. [...]
Ma non penso solo all’informatica. Come si può pensare alla difesa del pianeta senza avere alle spalle nozioni sulla storia della Terra, sulla vicenda di tante inondazioni storiche, sulla morte dei dinosauri, per non dire nozioni di etica? Quando Hitler ha deciso di invadere la Russia aveva presenti i risultati della storiografia sull’invasione napoleonica? Certamente no, altrimenti avrebbe saputo che, per quanto la guerra fosse lampo, prima di arrivare a Mosca avrebbe dovuto fare i conti con l’inverno. E quando Bush ha deciso di invadere l’Afghanistan aveva letto la letteratura storica sul Grande Gioco e sul modo in cui nell’Ottocento sia i russi che gli inglesi non avevano e non avrebbero mai potuto conquistare quel paese a causa della sua orografia e delle sue divisioni tribali?
Avere un’educazione classica significa anche saper fare i conti con la storia e con la memoria. La tecnologia sa vivere solo nel presente e dimentica sempre più la dimensione storica. Quello che ci racconta Tucidide sulla vicenda degli Ateniesi e dei Meli serve ancora a capire molte vicende della politica contemporanea.
D’altra parte i grandi scienziati - penso a Einstein o a Heisenberg - avevano una solida cultura filosofica alle spalle, e per sapere se si ha o no a che fare con un Dio che gioca a dadi, bisogna non solo conoscere la fisica ma anche, persino, la teologia, o almeno i grandi dibattiti che hanno affannato la cultura occidentale per più di duemila anni. E vorrei ricordare lo scomparso ex rettore di Bologna, Pier Ugo Calzolari, che per qualche anno avevamo invitato a tenere corsi di informatica per la laurea in scienze della comunicazione, e rendeva i suoi concetti accessibili con esempi tratti dalla poesia, collegando mirabilmente Dante alla flow chart.
Riformare ma conservare
Certamente un genio della fisica può farsi una cultura umanistica da solo, leggendo molti libri, ma questa sarebbe una soluzione aristocratica. Chi può dare le informazioni giuste non al grande genio ma al modesto manovale della fisica? Come accade oggi negli Stati Uniti e sta accadendo sempre più nel mondo, ne nascono sacche di iperspecializzazione, dove l’esperto di malattie rare non sa più curare un raffreddore e ha dimenticato la visione globale del corpo umano che ci aveva insegnato Vesalio. Pertanto una buona educazione classica è fondamentale per rendere inventivo e fecondo anche l’universo della ricerca scientifica e tecnologica.
Riformiamo dunque, ma conserviamo il liceo classico perché consente di immaginare quello che non è stato ancora immaginato; e questo distingue il grande architetto dal più modesto dei geometri. Al quale peraltro una riflessione su Euclide potrebbe rendere la sua attività più appassionante e creativa.
Penso a un liceo umanistico-scientifico dove bisognerà sì insegnare il teorema di Pitagora, ma anche le idee di Pitagora sulla teoria delle sfere e il suo terrore dell’infinito.
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